Il terrorista (per discutere)
E’ inutile terrorizzare il terrorista. Il vantaggio ce l’ha lui. Né leggi, né controlli, né armi, lo fermano. O inventi altro, o vince sempre lui. Lui ha nemici assoluti, più assoluti di quanto lui è nemico tuo. Lui ti fa paura, ma lui non ha paura. Per uccidere i suoi nemici (anche tutti noi, potenzialmente) ha l’arma invincibile dell’uccidersi con loro. Non teme nessun danno, perché ha già messo nel conto il danno totale. Tu, davanti a lui, sei disarmato. Noi siamo disarmati. Ma forse no.
L’unico modo di fermarlo è levargli il motivo, la sua vera arma. La lotta al terrorismo non si fa con le armi, tutte spuntate davanti alla sua, ma con la parola, il colloquio, la cultura, la convivenza, il riconoscimento, la fine dei ghetti, l’uguaglianza, la sconfessione delle violenze del passato.
Il terrorista terrorizza perché è terrorizzato (anche a torto) dalla sua condizione, reale o presunta, o ideologica. Vuole infliggere agli altri ciò che sente in sé. Se viviamo una vita apprezzabile non vogliamo metterla a rischio per sopprimere vite altrui. Alla peggio, facciamo la guerra da posizioni sicure, per esempio coi droni. E’ sempre ammazzare, è sempre terrore, ma non è la morte che cammina in città, accanto a noi, la città della morte Chi vuole uccidere senza morire, lo fa in altri modi sicuri, non facendosi bomba o bersaglio lui stesso. Se fa questo, ragiona diversamente. Se vuole morire non è per le vergini del paradiso – via! – ma perché la sua vita è brutta, si sente brutta, offesa, obbligata alla vendetta.
Terrore chiama terrore. La sera stessa di ogni attentato i governi promettono di rafforzare la vigilanza. Lo hanno già promesso subito dopo il precedente attentato. Non hanno terrorizzato il successivo terrorista.
La causa che arma l’attentatore non è solo sociale-culturale. La malvagità esiste, potenziale in tutti. In alcuni si scatena per le circostanze, remote o prossime. Impossibile sradicare, anche in noi stessi, tutta la malvagità. Opporle umanità, il ritorno alla parola reciproca, espressione e ascolto, empatia, sentire come mio il sentire tuo.
Non serve fare paura a chi ha già paura di subire torti, di essere disconosciuto, e perciò ha volontà di vendicare i torti. Non serve. Solo aumenta la paura, che può diventare violenta.
Occorrono colloqui pubblici in tv con chi sostiene o comprende le ragioni della jihad. Come in tutti i conflitti, piccoli o grandi, solo la ragione e la parola reciproca superano la consegna della decisione, come in una macabra lotteria, alle armi, o all’offesa. Occorre, in ogni cuore, come in ogni collettività e istituzione, l’ “avvocato dell’avversario”, o del nemico, per conoscere le sue motivazioni, anche le più sgradevoli, ingiuste, pericolose. (cfr Avvocato dell’avversario, ministro della pace, nel mio La politica è pace, Cittadella 1998, pp. 46-49). Nei tribunali ecclesiastici c’era (c’è ancora?) l’avvocato del diavolo, cioè il portatore delle cattive ragioni, per conoscerle, capirle, eventualmente superarle. Così nei conflitti sociali e culturali. Specialmente in questi. Può darsi che non sia tutta cattiva una ragione che porta ad azioni cattive. Oppure può darsi che sia originariamente cattiva. Bisogna conoscerla, ascoltarla, per renderla meno violenta, o per coglierne il valore senza prezzo di sangue.
Bisogna che il prossimo terrorista sappia che può parlare, e che noi lo ascoltiamo, che lui sarà ascoltato e ci potrà ascoltare. Se sa che gli spariamo, noi siamo già perduti. Il vantaggio ce l’ha lui. Vogliamo lasciarglielo?
Il terrorismo italiano degli anni di piombo non fu vinto dalle armi, ma dai contatti umani.
Per discutere.
Condivido, Bravo Enrico sei uno (dei pochi) CHE PENSA.
Il tuo amico, Giuseppe (Fumarco)