Conflitto israelo-palestinese: l’esperienza nonviolenta di At-Tuwani e di Operazione Colomba – Davide Ziveri
Sabato 12 giugno una trentina di coloni mascherati hanno attaccato con sassi e spranghe la casa del villaggio palestinese di At-Tuwani più prossima all’avamposto di Havat Ma’on, nelle colline a sud di Hebron, in Cisgiordania. Nell’abitazione in quel momento si trovavano solo donne e bambini. Da allora, ogni notte, i coloni si sono organizzati in ronde e non hanno cessato di lanciare intimidazioni agli abitanti del villaggio. Solo un altro aneddoto del mitico conflitto mediorientale?
At-Tuwani è un paesino di circa trecento abitanti situato in una zona rurale semiarida vicino alla Linea Verde che, secondo il piano di spartizione ONU del 1948, dovrebbe segnare la frontiera tra Israele e quelli che poi sono diventati i Territori Occupati Palestinesi. Secondo gli accordi di Oslo (1993) At-Tuwani si trova in area C, ovvero sotto controllo militare e amministrativo israeliano. All’inizio degli anni Ottanta, sulle terre di alcuni contadini del villaggio, è sorto l’insediamento israeliano di Ma’on, a cui nel 1999 ha fatto seguito la creazione dell’avamposto di Havat Ma’on, un’estensione illegale della colonia. Entrambi i siti sono tutt’oggi in continua e documentata espansione, nonostante le pressioni e le promesse di congelare le colonie.
La complessità del più lungo e conosciuto conflitto mediorientale è di una semplicità disarmante nella concretezza della vita quotidiana di At-Tuwani. Le terre sottratte ai palestinesi sono servite per installare abitazioni di civili israeliani nei Territori Occupati, benché espressamente vietato dalle convenzioni di Ginevra. La costruzione di nuove case nella colonia e nell’avamposto, inoltre, ha strappato ulteriori porzioni di terra ai palestinesi, poiché intorno agli insediamenti si è creata di fatto una zona cuscinetto di cui i legittimi proprietari non possono più usufruire. Questa strategia indica chiaramente la tendenza della politica di occupazione a frammentare la mobilità dei palestinesi all’interno della Cisgiordania.
Nell’avamposto vivono coloni nazional-religiosi il cui leader ideologico appartiene a un gruppo terroristico israeliano. Questi spesso attaccano il vicino villaggio palestinese, minacciano e aggrediscono i pastori e persino i bambini palestinesi durante il loro tragitto da e per la scuola. Dal 2004 il parlamento israeliano, la Knesset, ha stabilito una scorta militare israeliana per proteggere questi bambini dagli attacchi verbali e fisici dei coloni. La presenza della scorta militare per i bambini palestinesi e i numerosi posti di blocco (checkpoint) evidenziano la situazione di forte militarizzazione dei Territori Occupati.
Inoltre in area C è sempre la stessa potenza occupante a detenere il potere amministrativo: ad At-Tuwani chiunque voglia sporgere una denuncia, ad esempio in seguito ad un attacco da parte dei coloni, è costretto a rivolgersi al commissariato israeliano della colonia di Kyriat Arba.
Molte case, la scuola e la moschea di At-Tuwani hanno ricevuto l’ordine di demolizione, non avendo previamente ottenuto un permesso di costruzione. Stessa sorte è toccata al manto stradale e ai piloni della luce, sradicati dall’esercito israeliano nel novembre 2009, nonostante le promesse di Tony Blair, rappresentante del Quartetto (UE, USA, ONU e Russia), di impegnarsi per migliorare le condizioni di vita degli abitanti della zona.
Di fronte a questa situazione di violenza, tanto strutturale quanto diretta, prevale nello spettatore occidentale, saturo di notizie senza approfondimenti, un senso di impotenza. Il popolo palestinese dimostra invece una sorprendente capacità di resilienza. Benché prevalgano nei media le esperienze di lotta armata, esistono realtà di resistenza nonviolenta attive, creative ed efficaci.
Gli abitanti di At-Tuwani, riuniti con altri villaggi vicini in un comitato popolare di resistenza nonviolenta, hanno deciso di spezzare il circolo della violenza utilizzato da Israele per legittimare i propri crimini. La rinuncia alla difesa armata da parte dei palestinesi mette in luce l’asimmetria di potere tra l’esercito israeliano e la popolazione civile.
Vivere la nonviolenza in zona di conflitto è una scelta tutt’altro che semplice e ingenua, accusa questa spesso rivolta ai movimenti pacifisti. Si tratta piuttosto della capacità di non reagire ai soprusi nella stessa maniera in cui questi vengono perpetrati, stimolando piuttosto la giustizia a fare il suo dovere. Resistenza nonviolenta ad At-Tuwani significa continuare a vivere normalmente una quotidianità violentata dall’occupazione: continuare a mandare i propri bambini a scuola, continuare a pascolare le greggi sulle proprie terre, continuare a costruire case e nuove aule nonostante l’impossibilità di ottenere i permessi necessari.
La nonviolenza attiva si traduce anche in momenti di incontro con “l’altra parte”, come accade durante le visite di pacifisti israeliani o durante i campi estivi in cui bambini palestinesi ed israeliani giocano insieme.
La strategia di resistenza nonviolenta prevede anche azioni dirette nonviolente. Quando nel novembre 2009 i soldati hanno tentato di portare via i piloni dell’elettricità tutto il villaggio si è opposto; le donne e i bambini in particolare si sono interposti tra l’esercito e i piloni. In altre occasioni, ad esempio per impedire la consegna degli ordini di demolizione di alcune case, gli uomini si sono messi a pregare di fronte ai soldati formando un cordone. Altre volte ancora i pastori della zona hanno rivendicato il diritto alle proprie terre andando insieme a pascolare le greggi nei pressi dell’avamposto. Anche le pecore, riunite in una “critical mass”, sono capaci di essere strumento di lotta nonviolenta.
Se si pensa alla politica di occupazione che i vari governi israeliani non hanno smesso di seguire, con diversa intensità, dal 1967, non stupisce la reazione delle forze armate israeliane, una costante repressione e intensificazione delle misure di controllo militare nell’area, di fronte alla scelta nonviolenta di At-Tuwani. Come spesso accade, si pensi al recente caso dell’attacco alla “Freedom flotilla”, il diritto alla sicurezza viene usato per celare una vera e propria persecuzione di ogni manifestazione nonviolenta.
Tuttavia, ciò che più sconcerta è l’indifferenza della comunità internazionale verso le realtà nonviolente come pratica virtuosa per la trasformazione dei conflitti. Lo spazio che occupa la violenza nell’immaginario collettivo, dai media al senso comune, passando per la politica, dimostra la direzione del pensiero egemonico. La violenza arriva a proporsi come soluzione a se stessa, quando invece vie alternative, coerenti e percorribili esistono e sono già messe alla prova sul campo. Lo scarso interesse suscitato dagli esperimenti con la nonviolenza denota la mancanza di volontà politica per risolvere il conflitto.
Operazione Colomba, corpo di pace attivo per la riconciliazione in zone di conflitto, solidale con la scelta compiuta dal comitato popolare di resistenza nonviolenta, ha stabilito dal 2004 una presenza permanente nel villaggio. Lo stile di Operazione Colomba nell’interpretare il sapere nonviolento nel peculiare contesto del conflitto israelo-palestinese è caratterizzato da alcune dimensioni distintive di tale esperienza. La presenza dei volontari si fonda sulla condivisione diretta con le vittime dell’ingiustizia: vivere al fianco e nelle medesime condizioni della gente del posto, oltre a esprimere rispetto, aiuta ad assottigliare la distanza culturale nell’incontro con l’altro. Un principio gandhiano della nonviolenza è quello di farsi carico della sofferenza dell’altro assumendone il peso su di sé. In questo modo la bilancia del potere si sposta da una relazione asimmetrica di aiuto verso una di equità e fratellanza. Il centro dell’agire non risiede tanto nel fare, quanto nella presenza che si configura come un “essere con”, piuttosto che un “essere per”.
Gli internazionali, volontari di Operazione Colomba e dell’associazione statunitense Cristian Pacemaker Team (CPT), accompagnano le famiglie nel loro quotidiano, poiché anche le attività più semplici e abituali implicano il pericolo di attacchi da parte dei coloni o soprusi da parte dell’esercito. In caso di emergenza i volontari cercano di dialogare con i soldati o di interporsi per proteggere chi accompagnano. In alcuni casi gli stessi internazionali sono stati feriti dalle aggressioni dei coloni. La nonviolenza esige, in casi estremi, la disponibilità ad assumere il rischio che comporta mettere il proprio corpo come mezzo per diminuire o fermare la furia della violenza.
Un altro aspetto della pratica nonviolenta di Operazione Colomba riguarda l’attività di denuncia e testimonianza. I volontari utilizzano sempre videocamere per registrare quanto accade e denunciare alla polizia israeliana e alle istituzioni internazionali competenti le violazioni dei diritti umani di cui sono testimoni. Video e foto, oltre a fornire un supporto alle azioni legali, sono un materiale prezioso in ambito comunicativo. Nell’era delle telecomunicazioni, ma anche della manipolazione dell’informazione, una fonte diretta che racconti l’assurdità della violenza rappresenta una ricchezza per chi abbia voglia di ascoltare una realtà diversa da quella costruita dai media tradizionali. L’agire nonviolento oggigiorno passa anche per un uso strategico dei nuovi media improntato al rendere giustizia alla verità. In questo caso non si richiede il coraggio dell’azione diretta, quanto creatività per rivolgersi a un pubblico non politicamente preparato né sensibile e onestà intellettuale per andare oltre miti e stereotipi legati alle parti in causa nel conflitto, senza paura di affrontarne la complessità né di individuarne le responsabilità.
Una comunicazione nonviolenta del conflitto permette di ascoltare “la voce di chi non ha voce”, contribuisce a sfumare posizioni polarizzate in cui una vittima ottiene il diritto alla violenza e interroga il nostro ruolo di spettatori passivi di fronte all’impunità di chi viola il diritto internazionale, una conquista di tutti erosa dall’arroganza dell’occupazione.
Un’ultima riflessione deve essere spesa sull’efficacia di una strategia nonviolenta nell’economia di potere attiva in un conflitto. Occorre sottolineare che i criteri di valutazione non si possono che misurare nel lungo periodo e sono negativamente influenzati dallo scarsissimo appoggio che istituzioni e donatori prestano a esperienze di questo tipo, a fronte di una quantità di risorse sprecate nel settore militare e a volte persino nella cooperazione allo sviluppo. Nel caso concreto di At-Tuwani prendiamo in considerazione almeno tre risultati positivi.
Anzitutto diverse famiglie costrette ad abbandonare le proprie case sono ritornate ad abitare al villaggio. La scelta nonviolenta offre un significato alla lotta e una speranza alla vita violata dal trauma della violenza. In tal senso può essere percepita come un intervento di empowerment sociale. In quanto scelta collettiva, infatti, rinsalda le relazioni all’interno della comunità, favorisce processi decisionali partecipativi, assicura un grado crescente di controllo su di un contesto anormale.
In secondo luogo l’intervento dei corpi civili di pace realizza concretamente quella solidarietà che le sole parole non porterebbero oltre le buone intenzioni. La condivisione quotidiana, oltre ad arricchire entrambe le culture dell’incontro con l’altro, rompe l’isolamento in cui Israele cerca di rinchiudere la comunità palestinese, secondo le stesse Nazioni Unite soggetta a un regime di apartheid e frammentata in un arcipelago di bantustan.
È infine presumibile che la presenza di osservatori internazionali diminuisca gli abusi di potere e le violazioni dei Diritti Umani, specialmente da parte dell’esercito, maggiormente attento alla propria immagine pubblica.
In definitiva, il criterio in riferimento al quale valutare una scelta nonviolenta rimane quello etico. In un contesto che possiamo definire di tortura sociale istituzionalizzata, l’impegno per la nonviolenza agisce efficacemente su tre dimensioni: contribuisce a preservare una memoria del conflitto scevra dagli interessi del potere politico e a salvaguardare la propria cultura di appartenenza dall’ideologia della violenza; combatte il silenzio che promuove l’impunità dei torturatori e genera indifferenza nelle terze parti; guarda al futuro tessendo relazioni capaci di disinnescare il circolo della violenza, di rendere possibile l’incontro con l’altro, di costruire una pace con giustizia.
Luglio 2010
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