Cinema – The Last Call – Recensione di Jessica Boscolo

The Last Call, regia di Enrico Cerasuolo, Zenit Arti Audiovisive & Skofteland Film, 90/54 min., Italia 2013.

lastcallthefilmNegli anni ‘70 un gruppo di ricercatori del MIT si occupò di studiare e descrivere l’incompatibilità del sistema di crescita esponenziale con il nostro pianeta, mettendo in guardia da un consumo smodato e proponendo uno sguardo più lungimirante nelle scelte socio-economiche.
Quarant’anni e innumerevoli critiche dopo, il regista Enrico Cerasuolo porta sul grande schermo i protagonisti di tali studi, portavoci dell’ultima chiamata per l’uomo e per il pianeta all’impegno concreto, perché i problemi che li affliggono non diventino irreversibili.

La proposta alla base del progetto, avanzata da Luca Mercalli, ideatore e consulente scientifico della pellicola, è quella di riportare alla memoria un personaggio troppo spesso dimenticato ma cruciale nella promozione di un’alternativa alla crescita esponenziale: Aurelio Peccei.
Imprenditore antifascista torinese, Peccei intuisce, negli anni ’60, la necessità di un cambiamento di rotta dal punto di vista economico, e nel 1968 istituisce il Club di Roma, associazione non governativa che, nei primi anni ’70, chiede a un gruppo di ricercatori del MIT di individuare le evidenze scientifiche per verificare le intuizioni del fondatore.

In un quadro corale si avvicendano filmati d’epoca, interviste inedite ai protagonisti ancora in vita e a coloro che collaborarono con loro al progetto, ripercorrendo le tappe che portarono alla pubblicazione del controverso best-seller ambientale I limiti dello sviluppo (1972) e le difficoltà affrontate oggi come allora dai suoi autori nella loro opera di divulgazione.

Il film, presentato e premiato a Cinemambiente 2013, si chiude con una domanda pressante, che lo spirito di Donella Meadow pone al pubblico: ma voi, che cosa volete veramente, per voi, per i vostri figli? La risposta non può che partire dalle azioni personali di ciascuno.

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Trascrizione del dibattito successivo alla proiezione del documentario “The last call” con il regista Enrico Cerasuolo – 22 Maggio 2014, sala Poli, Centro Studi Sereno Regis. (a cura di Marta Belotti)

1) Come e quando è nata l’idea di questo progetto?

Nel 2007 vennero da noi, da ZENIT, Luca Mercalli e Gaetano Capizzi che ci volevano proporre un progetto riguardo l’anniversario della nascita di Aurelio Peccei1 e così iniziammo a pensare un progetto sulla sua figura e su quella degli altri autori del libro “I limiti dello sviluppo”. Decidemmo così di andare alla riunione del Club di Roma che si tenne a Madrid nel 2007. La difficoltà, ma anche la bellezza di questo progetto, stava nel fatto che non si trattava di una storia già scritta, ma di un percorso che bisognava ricostruire. Difatti una grossa parte di lavoro è consistita nello scavare negli archivi e fra i documenti.

Inoltre, ho notato che parlare di crisi ambientale nel 2007 era quasi “off-topic”; con l’emergere della crisi finanziaria sembrava che la crisi ambientale fosse terminata e non costituisse più un problematica di urgente discussione e risoluzione. In questo, a mio parere, un ruolo notevole è stato quello dei mezzi di informazione che hanno dato un immagine di una serie di crisi separate l’una dall’altra. Il lavoro che abbiamo fatto ha avuto il grande pregio di farmi riflettere su un approccio olistico di vedere e leggere la realtà che mi circonda e con essa le varie crisi che la stanno attraversando.

La mia intenzione era inoltre quella di mettere in rilievo ciò su cui più hanno insistito tutti i membri del Club di Roma, ovvero la critica al concetto di crescita infinita in un sistema finito.

Questo lavoro mi ha lasciato molto: tra le tante cose c’è sicuramente il rapporto che si è costruito con tutti i protagonisti del documentario. Di loro mi ha colpito che, dopo circa 40 anni dal loro primo progetto con il Club di Roma, continuano a battersi per quello che credono con lo stesso entusiasmo e la stessa forza. Inoltre l’altro aspetto molto bello è stata, come si vede anche nel girato, l’estrema eterogeneità del gruppo. Forse questa è stata una delle forze che ha permesso loro di fare quello che hanno fatto!

2)E’ stato il primo lavoro documentale sulla loro vita e sulla vicenda del Club di Roma?

Penso di si. Tutti i protagonisti infatti hanno colto con entusiasmo questo progetto. Addirittura uno dei protagonisti aveva pensato di scrivere la sua vita ma, quando ha visto il documentario, ha detto che non ce ne sarebbe stato più bisogno. E questo mi ha fatto molto piacere. Quello con Dennis Meadows è stato invece il rapporto più ricco e difficile, nel senso che lui ha una personalità geniale e nello stesso tempo molto complessa. Con lui c’è stata una prima fase molto buona ma poi, e non ho ben capito il perché, il rapporto è andato a modificarsi. In generale comunque penso che quando qualcuno vuole raccontare la tua storia, è normale che ci si interessi, e un po’ preoccupi, su come ciò verrà fatto. Sono molto contento però perché la sua reazione successiva è stata molto positiva. Un mese e mezzo fa ho fatto un giro in America con tre proiezioni, due delle quali con Dennis M. ed in quelle circostanze mi ha detto che il film gli piace un sacco, che l’ha già visto molte volte e lo fa vedere.

3) È la seconda volta che vedo il film e ne sono entusiasta. Lo trovo di una completezza e qualità straordinari. Volevo chiederti, portandolo in giro, quali reazioni del pubblico hai trovato?

La prima cosa che cerco di percepire, ed era la mia grande paura quando cercavo di fare questo progetto, è quella di aver fatto una cosa che non spaventi la gente e che poi la blocchi. Nel senso di un rimando del tipo “va beh, va tutto così male, cosa posso fare?”. Invece la reazione è sempre stata di interesse e di apprezzamento del lavoro e per questo sono molto contento. Però ci sono reazioni di tipi diversi. Per esempio molti mi chiedono che cosa si può fare adesso e per questo mi è venuta voglia, se ci riesco, di sviluppare di più l’ultima parte del film, quella sul presente e sul futuro che risulta un po’ schiacciata. Questo perché raccontando la storia dall’inizio, non potevo fare un documentario di tre ore e quindi mi piacerebbe fare un nuovo progetto in cui poter sviluppare di più presente e futuro. Forse questo avverrà con uno di loro, forse no. Ho provato a parlarne con Dennis perché mi piacciono molto i suoi giochi e mi piacerebbe fare un progetto utilizzandoli, sopratutto quelli sul concetto della resilienza. Lui dice però di non saperne ancora abbastanza e di non aver ancora sviluppato bene i suoi discorsi. Sto parlando invece con altri per altri progetti. Si vedrà. Sicuramente la voglia di continuare su questo ce l’ho e sta aumentando ogni volta che mi capita di portare in giro il film.

4)Scusa, non ti conosco molto, posso chiederti quali altri lavori hai fatto?

Ho fatto dei documentari perché mi piacciono più della finzione, sebbene all’inizio abbia studiato ed insegnato sceneggiatura ed il mio sogno era quello di fare cinema. Poi ho capito quanto era bello raccontare storie e così mi sono dedicato ai documentari. Ho fatto due documentari scientifici, sul sonno e sulla paura; alcuni storici, di cui uno che racconta la storia dell’Italia Unita; uno in cui mi sono ispirato ai temi dello spazio e racconta la storia di due videoamatori che raccolgono tutti i materiali che venivano diffusi sullo spazio; un film in Africa raccontando la storia di un ragazzo di strada che, attraverso un progetto educativo, riesce a ritornare a scuola; ho partecipato ad un documentario collettivo sugli avvocati di strada di Torino. Ho fatto documentari su temi storici, politici, scientifici e sociali perché, in realtà, mi piace raccontare le storie e studiare le cose che sono interessanti. Per cui non ho mai scelto un genere affezionandomi solo a quello.

5) Un’altra domanda a proposito del pubblico. So che questo documentario è stato proiettato in vari Festival tutti di un pubblico abbastanza “standard”, già informato e interessato. È stato proposto anche alle scuole o ad altri tipi di pubblico? Se si, quali riflessioni si sono aperte?

Si, innanzitutto è stato visto da un pubblico televisivo, quindi si ha avuto la possibilità di intercettare più gente. Il film è stato trasmesso in Norvegia su uno dei canali televisivi più importanti ed in prima serata. Poi è stato trasmesso anche in Francia e Germania, solo è stato trasmesso tardi la sera, per cui quante persone l’abbiano visto non lo so. E’ stato trasmesso in Svezia, in Italia su Rai Storia è stato presentato da Luca Mercalli. Alcuni Paesi l’hanno trasmesso nel formato integrale, altri invece hanno scelto la versione ridotta -quella di un ora- come gli Stati Uniti. In tutti i casi si tratta comunque di pubblici ampli e variegati.

In America c’è anche un ente che gestisce un mercato di film e documentari per Scuole e Università e vari istituti hanno comprato “The last call”.

Qui invece è più complicato in quanto sta tutto all’iniziativa della singola scuola. Stamattina l’ho mostrato agli studenti di Catanzaro, all’interno di un evento che assomiglia un po’ alla Fiera del Libro di Torino. La proiezione non è stata molto bella e gli insegnanti non avevano preparato i ragazzi. Lì ho imparato che se non viene fatto un lavoro di preparazione con le classi è complicato tentare di imbastire una discussione con loro. Sicuramente bisognerebbe anche realizzare una versione ancor più ridotta del documentario in italiano. Stamattina sono state fatte delle proiezioni con le scuole anche qui a Torino. Le ha seguite Francesca Portalupi e sono andate molto bene. A Giugno invece andremo a Rimini, un altro appuntamento organizzato con/per i ragazzi. Penso anche che i Festival abbiano un’importanza notevole in quanto spesso hanno una ricaduta sul territorio. Per esempio ad Atene, dopo aver proiettato il documentario all’interno di un Festival, si è iniziato tutto un percorso con le scuole. Una cosa simile è successa anche in Messico, dove sono stato recentemente.

6) Nelle interviste che hai effettuato e in quelle di repertorio, quello che colpisce è che i protagonisti sono immersi nella natura. Questo è capibile come scelta individuale, ma resta un modello non praticato e praticabile per tutti e tutte. Come leggere questo, in particolare visto il costante aumento del fenomeno dell’urbanizzazione mondiale?

Si, loro hanno fatto quello. E’ stata una scelta ideologica, credevano nella forza dei progetti dal basso e a contatto con la natura. Quella comunità che vediamo nelle scene finali del film potremmo farla anche noi un giorno, forse. C’è da dire che si tratta di persone benestanti. Uno dei protagonisti del film lo dice “sono solo per ricchi”. Una reazione che mi ha colpito nel corso delle proiezioni a cui ho presenziato è stata che il documentario è costruito su una visione occidentale, “occidentalista”. In effetti si, non ci avevo pensato ed è vero. Ammetto che il punto di vista del film è quello occidentale. E’ complicato! Ho voluto mettere l’esempio di Bill Behrens ed inserire alcune immagine del posto in cui vive in quanto è un aspetto intrinseco della sua figura. Ci sono però miliardi di cose che si possono fare nella nostra vita urbana, non faccio un elenco perché sarebbe stupido e fatto male. Mi vengono però in mente i rifiuti, i mezzi pubblici, gli spazi verdi. Ritornando però alla domanda è vero, non è una scelta che tutti possono fare.

NOTA

1Aurelio Peccei (Torino, 4 luglio1908Torino, 13 marzo1984)

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