Rileggere Gianni Vattimo

Massimiliano Fortuna

In questi giorni non ho potuto fare a meno di mettermi a rileggere qualche pagina di Gianni Vattimo. Per chi, come me, nei primi anni Novanta studiava filosofia all’Università di Torino era pressoché impensabile non avere in casa almeno qualche libro di Vattimo (a quell’epoca divenuto quasi un filosofo pop), confrontarsi con i suoi scritti, parlare di pensiero debole e della sua interpretazione di Nietzsche e Heidegger.

Dunque, mi sono messo a rileggere alcuni saggi contenuti ne “Le avventure della differenza” (Garzanti, 1980), che raccoglie in volume una serie di scritti usciti negli anni Settanta. Scritti che ruotano, appunto, attorno al tema della differenza e che instaurano un confronto privilegiato con Nietzsche e Heidegger, due autori, scrive Vattimo nell’Introduzione, che «hanno modificato in modo sostanziale la nozione stessa del pensiero, per cui dopo di loro “pensare” assume un significato diverso da prima». Infatti il sottotitolo riportato in copertina suona significativamente: “Che cosa significa pensare dopo Nietzsche e Heidegger”.

Ci sono stati anche altri autori di riferimento per Vattimo, il suo maestro italiano Pareyson e il suo maestro tedesco Gadamer ad esempio, ma anche Schleiermacher, a cui dedicò uno dei suoi primi libri, o René Girard, che lo ha influenzato nella visione del cristianesimo. Credo però si possa dire che i “suoi” filosofi siano stati innanzitutto Nietzsche e Heidegger e credo che nel panorama della filosofia italiana del secolo scorso il suo più evidente merito culturale sia stata proprio la lettura che di questi due pensatori ha saputo dare e divulgare.

Tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, il periodo in cui Vattimo si è formato, ha cominciato a scrivere i suoi primi saggi e infine è diventato un riconosciuto docente universitario, nell’area culturale che possiamo definire di sinistra e progressista, Nietzsche e Heidegger erano considerati, sostanzialmente, quasi alla stregua di pericolosi nazisti, certamente erano guardati con grande sospetto ed erano temuti in quanto scrittori, volta a volta, reazionari, irrazionalisti, antidemocratici. La casa editrice progressista per antonomasia, l’Einaudi, dopo un celebre dibattito interno aveva deciso di non pubblicare l’opera omnia di Nietzsche, dando così modo all’Adelphi di appropriarsi di quello che sarebbe divenuto un mattone fondamentale del suo catalogo.

Nel mondo culturale quelli erano anni di divisioni nette, dove l’appartenenza politica finiva per stillare un po’ su tutto e se ci si collocava da una parte bisognava farlo con un’integralità incondizionata; se si era di sinistra, tanto per fare un esempio, era bene non azzardarsi a riconoscere in Céline uno dei grandi scrittori del Novecento, perché il suo antisemitismo e la sua vicinanza al nazismo lo squalificavano moralmente, e così via, giungendo persino a guardare con sospetto quanti si dichiaravano “compagni” e, al contempo, canticchiavano le canzoni di Battisti o Carosone.

Bene, in quel mondo Nietzsche e Heidegger erano, in poche parole, i dioscuri dell’irrazionalismo, i corifei di un pensiero negativo, ripiegato su se stesso e nemico delle istanze di affrancamento sociale e di lotte politiche in nome dell’uguaglianza. L’interpretazione di riferimento nei loro confronti era quella prospettata da György Lukács ne “La distruzione della ragione”, ed era un’interpretazione espressa con grande dottrina filosofica e da valutare naturalmente, ma in fondo piuttosto rigida e monocorde: trattavasi di pensatori borghesi, reazionari nella loro essenza.

Nietzsche e Heidegger, così come Schopenhauer, Kierkegaard e svariati altri, pur nelle loro differenze, erano tutti catalogabili come militanti in una lotta di classe intrapresa dalla parte benestante della popolazione nei confronti di quella meno abbiente. Ad accomunare questi filosofi per Lukács è un gesto fondamentale e decisivo: quello dell’“apologia” – la difesa della società esistente, la difesa dello status quo, la difesa del capitale e di conseguenza la negazione di ogni possibilità di miglioramento delle condizioni di vita degli ultimi.

In questa temperie culturale di fondo Vattimo ha avuto il grande merito di suggerire un radicale cambiamento di prospettiva. Tutte le interpretazioni possono essere discusse naturalmente e manifestare punti deboli, ma non si può negare che Vattimo ha saputo rivelarsi un innovatore, proponendoci, in modo convincente, una lettura che, da “sinistra”, indicava in Nietzsche e Heidegger non due nemici di classe da esorcizzare ma due pensatori imprescindibili per la filosofia contemporanea, con i quali era bene innanzitutto confrontarsi criticamente, prima di emettere condanne quasi a priori, animate più da furore ideologico che da meditate analisi. Seguendo il filo di un discorso filosofico improntato alla fine della metafisica, Vattimo è tornato ripetutamente su questi due autori ed è riuscito a mostrarceli sotto un’altra luce, ricavando dalle loro opere, con uno sguardo sostanzialmente antitetico a quello di Lukács, delle istanze di liberazione piuttosto che di asservimento.

Sulle fondamenta delle filosofie di Heidegger e Nietzsche, secondo Vattimo possiamo infatti trovare gli elementi per costruire società meno oppressive, più pluraliste, più democratiche. Un ribaltamento critico insomma, che è confluito in quella visione di fondo che si è poi condensata nella fortunata formula “pensiero debole”, ma tale istanza “debolista” ha tra le sue radici fondanti anche questo modo nuovo di guardare a Nietzsche e Heidegger. Se va certamente ricordato che in quegli anni Vattimo non è stato l’unico a coltivare questa novità – si pensi ad esempio a Massimo Cacciari che, sotto questo aspetto, ha seguito un itinerario non troppo dissimile –, è altrettanto indubbio che il contributo da lui dato a questo nuovo paradigma interpretativo è risultato di primaria importanza.

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