All’armi son fascisti!

Enzo Ferrara

Questo testo è da intendere come contributo di analisi teorica e proposizioni pratiche, viste da una prospettiva nonviolenta, alla costituzione del coordinamento cittadino All’armi son fascisti! Torino reagisce lanciato attraverso Volere la luna da Gastone Cottino, Maria Chiara Acciarini, Alessandra Algostino, Amedeo Cottino, Livio Pepino e Marco Revelli, rivolto “alle associazioni e alle organizzazioni democratiche cittadine, ai movimenti che operano in difesa di diritti, libertà e ambiente, alle donne e agli uomini, giovani e meno giovani, per i quali la Resistenza e la Costituzione sono i punti di riferimento da cui partire per cambiare rotta e per uscire dalla crisi che sta vivendo il nostro Paese”.

La pace partigiana

Se s’intende la lotta di liberazione come in grandissima parte è stata – di guerriglia, boicottaggio e sacrificio più che militare, e perciò politica e culturale più che armata – si può comprenderne l’evoluzione e la prospettiva pacifista e internazionalista assunta (o solo mantenuta) nei decenni successivi.

Questa trasformazione è ben raccontata da Matteo Pucciarelli nel suo recente Guerra alla guerra (Laterza 2023), in un capitolo intitolato Pace partigiana che racconta l’alternarsi nelle icone delle tessere ANPI di articoli della Costituzione (due volte l’art.11, nel 1968 e nel 1988) e di richiami al disarmo (1962, 1982) e all’internazionalismo (1955 e 1989).

Un percorso – dalla lotta armata all’impegno per la costruzione della pace – che nella nostra formazione personale abbiamo conosciuto grazie al lavoro e ai libri di Nuto (Revelli) dal secco e rivendicativo Mai tardi (… a farvi fuori![sottinteso: voi nazisti e fascisti]) diario di un alpino della campagna di Russia edito nel 1946, al riconoscimento del nemico come essere umano sventurato e anch’esso vittima nel Disperso di Marburg (1997) – un libro trascritto in un ventennio, segno di un’evoluzione personale faticosa, quasi subita, ma chiara e inequivocabile – fino alla storia di Don Raimondo Viale, Il prete giusto (1998) di Borgo San Dalmazzo (CN) esempio di resistenza non armata, riconosciuto come giusto fra le Nazioni nel 2000 dallo Yad Vashem di Gerusalemme.

Un percorso storico in cui si ritrova il nostro Centro Studi, nato per documentare i problemi di partecipazione, sviluppo, pace e sostenibilità, fatta chiara la priorità per la lotta nonviolenta, la disobbedienza, il boicottaggio, l’obiezione di coscienza – cui con Primo Mazzolari, Aldo Capitini e Lorenzo Milani riconosciamo un primato razionale più che morale rispetto alla lotta armata – come forme di resistenza alle ingiustizie e al mancato riconoscimento dei diritti di tutti e di ciascuno.

Le crisi in corso

Viviamo un’eccezionale congiuntura di crisi, le cui risposte in termini di fatti – o meglio di misfatti – e negazionismi (soprattutto) non possono non essere colte anche nel loro insieme di deriva antidemocratica. “Che tempi sono questi in cui un discorso sugli alberi è quasi un delitto, perché sottintende il tacere su così tante stragi”, scriveva Bertolt Brecht in una sua raccolta dedicati ai tempi bui e a coloro che verranno.

Sappiamo – lo chiarì Piero Gobetti – che la risposta fascista (autobiografia di una nazione serva) nasce da una visione infantile dei bisogni e della realtà: “Il fascismo in Italia è un’indicazione di infanzia perché segna il trionfo della facilità, della fiducia, dell’entusiasmo … La lotta tra serietà e dannunzianesimo è antica e senza rimedio. Bisogna diffidare delle conversioni, e credere più alla storia che al progresso, concepire il nostro lavoro come un esercizio spirituale, che ha la sua necessità in sé, non nel suo divulgarsi” (Elogio della ghigliottina – 23 novembre 1922).

Per questo, ammoniamo a non illudersi che il pericolo fascista possa essere circoscritto all’ideologia della comunità popolare, nazionale o etnica, perché questa – come ci insegnava Renato Solmi, di cui citiamo qui il saggio di commento a l’ideologia fascista di Reinhard Kühnl (pubblicato sulla rivista Lo Straniero, n. 193, luglio 2016) – ha in realtà il “compito precipuo di mascherare e di negare i contrasti sociali, e di spacciare gli interessi della classe dominante per quelli della collettività intera”.

“Questa ideologia – scrive Solmi – trova la sua forma più estrema e radicale nel razzismo e tende a risolversi in esso. La tesi che la propria razza sia superiore fornisce enormi possibilità alla demagogia: anche la persona più umile può provare così il sentimento di far parte del popolo eletto, e trovare riscatto dalla propria condizione di debolezza e di dipendenza. Né questa sensazione di superiorità è del tutto illusoria poiché la sottomissione di altri popoli e paesi può fornire la possibilità anche alle classi inferiori del paese imperialista, di avvantaggiarsi del loro sfruttamento o del loro saccheggio, partecipando almeno alle briciole del festino e della preda comune”.

I segnali interni ed esterni

“L’ideologia della comunità si collega al principio del capo e all’esigenza dello stato forte – aggiunge ancora Solmi. – Per garantire l’unità e l’omogeneità della comunità popolare, bisogna modellare tutta la società sulla base del criterio del comando e dell’obbedienza, e rafforzare l’autorità in tutti i campi della vita sociale (quella del padre nella famiglia, quella dell’insegnante nella scuola, quella dei superiori nell’amministrazione, quella dell’industriale nella fabbrica).

Il culto del capo viene incontro anche a un bisogno più generale di identificazione e di sicurezza, profondamente vissuto da chi si sente schiacciato e dominato dai meccanismi impersonali della società capitalistica, che si sottraggono alle sue possibilità di comprensione e di risposta razionale, o che si presentano ai suoi occhi come forze oscure e imperscrutabili”.

Ci fermiamo in questa disamina per osservare che in contrapposizione a queste forme di deriva politica e sociale che ci sono state perfino durante i regimi nazi-fascisti risposte di edificazione scientifica e culturale aperte ai valori della collettività e del solidarismo: la più rilevante fu il rapporto redatto da William Beveridge a Londra nel 1942 – sotto le bombe della Luftwaffe – che costituì la prima elaborazione compiuta del welfare, o stato sociale.

Una conquista che in Italia abbiamo raggiunto più tardi, un lascito dei movimenti degli anni ’60 e ’70 che con il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) e lo Statuto dei lavoratori hanno concretizzato il dettato Costituzionale, bellissimo ma – al contrario della semplificazione infantile – per nulla semplice da praticare.

La difesa della costituzione e dei diritti

Occorre ricordare che per quanto riguarda i programmi, il fascismo è generico e indeterminato, “limitandosi a formulare l’obbiettivo della conquista del potere e riservandosi di stabilire di volta in volta gli obbiettivi ulteriori a seconda delle necessità e delle circostanze [anche se non fece mai mistero dei propositi espansionistici e imperialistici in politica estera Nda]” – osserva sempre Solmi.

“Tuttavia, la funzione che il movimento fascista svolse effettivamente nella politica interna fu in realtà precisa e univoca rivolta contro le organizzazioni operaie. Nella lotta pratica, l’antisocialismo ebbe il sopravvento su tutti gli altri elementi dell’ideologia fascista. La principale conseguenza dell’ascesa e dell’avvento al potere del fascismo in Germania e in Italia fu la distruzione dalle fondamenta di tutte le istituzioni realizzate nel corso di mezzo secolo dal movimento operaio e di ristabilire il controllo esclusivo dei padroni sulla disponibilità materiale e sulla docilità politica della manodopera (…) L’ideologia fascista riconosce che la sua classe di riferimento (i piccoli operatori economici indipendenti, contadini, artigiani, negozianti ecc.) è minacciata dalle grandi imprese industriali e commerciali che li schiacciano con la loro concorrenza e dalle banche da cui dipendono per i loro crediti e che li defraudano in gran parte dei loro profitti e assume infatti un carattere anticapitalistico che si ritrova nella sua ideologia e nella sua propaganda senza visioni propriamente socialiste quanto piuttosto espresso con sentimento anti-internazionalista in un’utopia retrospettiva e reazionaria mirata alla instaurazione di un’economia composta di piccoli commercianti e produttori, in cui essi non sarebbero minacciati né dal grande capitale né dalle rivendicazioni dei sindacati – che sono spesso, per loro, più gravose e intollerabili di quanto non lo siano per i grandi capitalisti”.

Va ribadito – come insegnava Luciano Gallino – che questo modello è superato dalle mega-macchine sociali del Finanzcapitalismo (Einaudi, Torino 2011) il sistema entro cui le grandi organizzazioni gerarchiche riescono a usare masse di esseri umani come componenti o servo-unità della rendita finanziaria.

Priorità

Anche per queste ragioni la difesa della partecipazione democratica, dei presidi della Sanità e della Scuola pubbliche, così come della dignità e sicurezza sul lavoro devono essere priorità scientifiche e culturali del pensiero democratico e antifascista. Sappiamo che non è facile, che i presupposti del pensiero neoliberista – non appena subentra una crisi – derivano pericolosamente su crinali antidemocratici e anti-partecipativi: gli attacchi “liberisti” al SSN nato nel 1978 datano già agli anni ’90 dello scorso secolo, anche se il progetto di mercificare la salute e fare profitto della malattia si compie in teoria e si realizza in pratica nei decenni di questo secolo, parallelamente all’attacco dei diritti dei lavoratori che sempre meno possono tutelare la propria salute psicofisica attraverso la partecipazione negli ambienti di lavoro.

Chi pensa che non sia così e che grazie a nuove conoscenze la situazione stia migliorando, consideri che nel frattempo con gli accordi internazionali di libero scambio, il diritto di proprietà e di profitto ha acquisito la supremazia nelle contese commerciali internazionali – gli stati non possono più tutelarsi dall’invasività delle multinazionali.

Si vadano altrimenti ad ascoltare le arringhe delle difese del magnate svizzero Stefan Schmidheiny proprietario dell’Eternit al processo in corso a Novara per i 392 morti d’amianto di Casale Monferrato, si consideri che la legge 257/92 che vietò in Italia 10 anni prima che in Europa la lavorazione delle fibra di amianto, con la prima firma posta da Bianca Guidetti Serra prevedeva all’articolo 58 l’istituzione della sorveglianza sanitaria per i lavoratori ex-esposti, morti nei decenni successivi a migliaia e che questa sorveglianza sanitaria in una regione ricca e avanzata – come il Piemonte ambisce definirsi – più di 30 anni dopo non l’ha ancora istituita.

Si consideri inoltre che proprio per le miglior conoscenze sviluppate appare ancor meno giustificabile l’esposizione prolungata di lavoratori, territori e popolazione a sostanze chimiche persistenti, come accade con gli PFAS (sostanze perfluoro alchiliche) qui in Piemonte alla Solvay di Spinetta Marengo (AL) e in Veneto con la Miteni di Trissino (VC) su un’area di circa 180 km2 fra Padova, Verona e Vicenza.

La legge 833/1978 istitutiva del SSN, indicava fra le priorità a tutela della salute nei luoghi di vita e di lavoro il primato della partecipazione attiva dei cittadini e le attività di prevenzione – due concetti che in democrazia, nella scienza, nella cultura, devono assumere un senso quasi di sacralità. Andiamo a vedere come è praticata la partecipazione nei luoghi di crisi ambientale e climatica – dalla Sardegna, prima una miniera ora un poligono militare, alla Valle di Susa militarizzata che dopo Chiomonte ha visto sorgere 7 siti di interesse strategico nazionale corrispondenti ai luoghi dove dovrebbero agire i cantieri del nuovo TAV Torino-Lione, oltre a Torrazza Piemonte nel chivassese – un record, com’è un record nazionale che in Piemonte vi siano 5 siti di interesse nazionale per le bonifiche, 4 % del territorio dove la mortalità è sistematicamente più elevata che nella media della popolazione italiana.

Capri espiatori

Altro ingrediente fondamentale della concezione fascista e nazionalsocialista è la filosofia del capro espiatorio. “Il disagio che l’uomo comune prova nella civiltà industriale e capitalistica in cui vive, e di cui non riesce a comprendere e a penetrare i meccanismi decisivi, alimenta il bisogno di una spiegazione semplificatrice, che permetta di addossare tutti i mali di cui soffre a una causa unica e precisa e facilmente individuabile, su cui egli possa scaricare il suo risentimento ed esercitare i suoi impulsi aggressivi”.

Il ruolo di questo nemico originale può essere ricoperto da gruppi sociali o popoli diversi, oltre che, naturalmente, dagli avversari politici principali. Il gruppo che si prestava meglio ad assolvere a questa funzione fu rappresentato dagli ebrei, “che appartengono, da un lato, alla nazione stessa, operano nel suo ambito e sono quindi sotto gli occhi di tutti” (è difficile accollare le colpe dei propri mali a un popolo straniero che vive al di là dei confini e con cui si hanno scarsi contatti).

Oggi in questo ruolo si trovano le popolazioni migranti o nomadi, così come tutte quelle comunità che per una ragione o per l’altra non possono confluire entro una determinata categoria professionale o sociale prestabilita, sono distinguibili quindi per stirpe e per tradizione dagli altri membri della comunità e possono perciò essere indicati e individuati con relativa facilità.

La necessità del cambiamento

Sottolineiamo infine la necessità di rispondere evolvendo – in perenne tensione al cambiamento – alla natura profondamente conservatrice dell’ideologia fascista, che tende a considerare le condizioni sociali formatesi storicamente (e quindi modificabili) come naturali, immutabili e originarie.

“La sinistra, e tutti coloro che vorrebbero cambiare il mondo, appaiono come un elemento nocivo che deve essere sradicato. La componente attivistica del fascismo, che lo distingue dalle ideologie conservatrici tradizionali, può quindi trovare sfogo in quest’opera di repressione e di pulizia interna, come accadeva nelle imprese di conquista e di espansione programmate e realizzate in sede di politica estera. La dinamica interna della società deve rimanere congelata e bloccata in uno schema immobile, nella liturgia quasi mitica del regime”.

Militarismo

“Tutti gli elementi che abbiamo passato in rassegna finora culminano e confluiscono nell’esaltazione del militarismo, da cui i movimenti fascisti sono scaturiti e a cui tendono per una sorta di spinta irresistibile. Il militarismo conferisce al fascismo la sua ultima coerenza e integra i suoi elementi divergenti in una forza compatta. I principi gerarchico-autoritario trovano nelle forze armate la loro espressione più rigida e più coerente, per cui quelli che fanno parte di questa gerarchia hanno ampie occasioni di esercitarsi alla sottomissione all’autorità altrui e di esercitare a loro volta la propria” – conclude Solmi.

Perciò temiamo come superstizioni le pretese scientifico-culturali delle pratiche militari, l’esaltazione della tecnologia bellica – come accade a Torino attorno al Distretto Aerospaziale Piemontese, lobby dell’industria militare camuffata da associazione senza scopo di lucro, un’agenzia in cui confluiscono e si integrano tutte le derive scientifiche e culturali citate: l’infantile visione della realtà, l’interesse capitalistico-finanziario, l’esaltazione gerarchica del sistema sociale –– e i progetti “educativi” dell’esercito nelle scuole, le visite scolastiche nelle caserme dove si praticano l’alzabandiera, le marce e il cameratismo – ci chiediamo quale bibliografia o filologia fa da riferimento a queste pratiche e le riconduce a percorso pedagogico-educativo – o  l’istituzione della Giornata della memoria e del sacrificio degli alpini che glorifica una strage di giovani italiani, russi e tedeschi in una guerra d’invasione – momento cruciale e di svolta del popolo italiano verso la redenzione dal nazifascismo:

Ricordare e raccontare, parole d’ordine che cominciano a diventare false, perché ognuno le adopera per tirare l’acqua al proprio mulino (…) le vostre tronfie parole vuote non sono che l’ultimo insulto ai nostri morti” scriveva Nuto Revelli in Mai Tardi.


 

 

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