Marcia Perugia Assisi: l’assurda polemica contro il manifesto

Marco Labbate

Quando si entra in un clima di guerra, prende il sopravvento un pensiero bellico, dicotomico, che cancella gli spazi di confronto. Mi sembra un esempio lampante la polemica nei confronti di uno degli appuntamenti tradizionali e più limpidi del pacifismo: la marcia Perugia Assisi, ideata da Capitini e poi rinnovata con una certa continuità a partire dagli anni Ottanta.

Le marce della pace sono state forse spesso accolte con un sorriso di sufficienza da parte di chi le considerava un’utopia di sognatori, ma mai nessuno aveva pensato di accusare gli organizzatori di quell’appuntamento pacifico e festoso di reggere il moccolo a qualche dittatore o al paese aggressore di un conflitto. Questa volta invece una parte tutt’altro che marginale della stampa nazionale ha trovato negli organizzatori della marcia un nuovo bersaglio a cui affibbiare l’etichetta infamante di filoputinismo.

Oggetto della riprovazione è stato il manifesto della marcia nel quale la scritta “Fermatevi! La guerra è una follia” sovrastava il disegno di un bambino e una mamma abbracciati, mentre due proiettili schizzavano accanto al loro spavento. La Repubblica, Il Foglio, Il Quotidiano Nazionale e Il Giornale, uno a ruota dell’altro, hanno trovato un materiale sufficiente per imbastire una polemica sulla presunta volontà degli organizzatori di equiparare il paese aggressore, la Russia di Putin, e il paese aggredito, l’Ucraina.

Per carità i manifesti possono non piacere e possono essere criticati laddove si prestano a interpretazioni molteplici e talvolta ambigue. Ma prima di muovere accuse infondate e ingiuste un giornalista, sia per onestà intellettuale, sia a beneficio dei lettori, dovrebbe sforzarsi di intendere la semantica di un manifesto e il contesto in cui si colloca e presentarlo. Proviamo a farlo ora:

a) La marcia Perugia Assisi nasce nel 1961 come marcia per la pace e la fratellanza dei popoli. Il suo messaggio è ecumenico, universale, richiama alla responsabilità di ciascun paese nel fare il possibile per ridurre le situazioni che possono causare la guerra e implementare le occasioni di pace. Rappresenta uno spazio largo, inclusivo, volto a denunciare i contesti che possono favorire la guerra, come ad esempio un riarmo indiscriminato, e quelli che possono impedirla, come un accordo tra le nazioni.

b) Il manifesto imputato richiama evidentemente quello della Marcia per la pace del 1999 durante la guerra del Kosovo. Era la prima volta che si teneva una marcia per la pace straordinaria, evocata da un conflitto preciso. Il disegno era identico, al posto di “Fermatevi!” era scritto” “Cessate il fuoco”. L’utilizzo della stessa immagine intendeva ricordare proprio il rinnovarsi di quell’evento eccezionale.

c) Può darsi che lo slogan del 1999 fosse migliore, ma questo “Fermatevi! La guerra è una follia” era un evidente richiamo alle parole di papa Francesco e alla sua politica di pace rispetto al conflitto in atto. Si può discutere se il rimando sia stato funzionale da un punto di vista comunicativo, ma si devono anche rendere le reali intenzioni di un messaggio senza travisarlo: che è quello di un impegno collettivo verso la de-escalation. È legittimo dissentire e chiedere un’accentuazione maggiore sulle responsabilità dell’aggressore: ma, appurato che non è questo il messaggio tradizionale della marcia, meriterebbe magari qualche credito chi crede che il congelamento della diplomazia in una stasi che sembra avere come unico orizzonte il perpetuarsi della guerra in vista di una vittoria finale sia l’anticamera del baratro.

d) Secondo l’ultimo rapporto di Caritas italiana, precedente alla guerra in Ucraina, i conflitti nel mondo erano 22. Per quanto la marcia per la pace straordinaria guardi in primo luogo al conflitto in Ucraina, in quel “Fermatevi” gli occhi erano rivolti anche alle altre 22 situazioni di guerra. La Marcia per la pace ha sempre avuto uno sguardo globale. Credere che in quel “Fermatevi” collettivo ci fosse non uno sguardo più ampio che abbracciava la Siria, la Libia, l’Etiopia, la Birmania, il Kurdistan, il Saharawi ma la volontà di tenere insieme aggressori e aggrediti, è un lapsus scusabile per un internauta occasionale, poco avvezzo ai linguaggi della marcia della pace, ma sintomo di un’isteria tutt’altro che candida quando compare in testate nazionali.

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