Mubarak Awad e la nonviolenza in Palestina

Mubarak Awad e la nonviolenza in Palestina: «Quando portano via 100 alberi, ne piantiamo 4000»

Michael Nagler, Mubarak Awad

Il celebre attivista e studioso della nonviolenza discute il suo percorso fino agli Stati Uniti e i recenti atti di violenza nel Medio Oriente: Mubarak Awad e la nonviolenza in Palestina


Questa settimana Nonviolence Radio ospita Mubarak Awad, fondatore del National Youth Advocate Program, un piano che offre affidamento e strumenti di consulenza alternativi a giovani considerati “a rischio” e alle loro famiglie. Awad è inoltre il fondatore del Centro Palestinese per lo Studio della Nonviolenza con sede a Gerusalemme e di Nonviolence International, associazione che lavora con gruppi e organizzazioni in tutto il mondo. Michael Nagler intervista Mubarak sul suo percorso dalla Palestina agli Stati Uniti, sul suo primo impegno con i bambini nelle prigioni, sulla sua lunga dedizione alla nonviolenza (appresa da sua madre), e sui recenti scontri in Medio Oriente. Mubarak risale le profonde ed intricate radici dei problemi tra Palestinesi e Israeliani alla ricerca di chiarezza e speranza.

C’è sempre un’alternativa. Non importa quale sia il conflitto, quale sia il problema, bisogna creare un’alternativa. Spesso le persone arrivano [al Centro Palestinese per lo Studio della Nonviolenza] e dicono, “i soldati israeliani, i coloni israeliani sono arrivati e hanno sradicato tutti gli ulivi centenari”. E io rispondo, “va bene, cosa volete che faccia? Che ritrovi quegli alberi e li riporti indietro?”. Mi dicono, “No, non sappiamo dove si trovano”. “D’accordo”, dico, “formiamo dei gruppi. Facciamo venire anche degli Israeliani con noi, e poi andiamo”. Loro hanno preso 100, 1000 alberi. Noi ne pianteremo 4000 in modo da avere, in futuro, più alberi di prima. Ed è così che è iniziato tutto.

Awad sottolinea la necessità da entrambe le parti di ascoltarsi e rispettarsi a vicenda a dispetto delle proprie convinzioni, per quanto differenti esse siano. “Il nostro ideale di comprensione è rispettare le opinioni altrui. Non importa se ci credi o no, loro ci credono. E’ importante.” Egli enfatizza il bisogno di uguaglianza tra le persone, “gli Israeliani devono capire che non sono migliori o peggiori dei Palestinesi, noi siamo loro pari. Quella parità è importante”.

Secondo Mubarak, soluzioni creative, rispetto e uguaglianza sono tutti aspetti essenziali per assicurare una nonviolenza viva, attiva ed efficace.

L’intervista

Michael: Salve a tutti e benvenuti su Nonviolence Radio. Io sono Michael Nagler, del Metta Center. Siamo molto lieti ed orgogliosi di presentarvi un’intervista con un amico di lunga data, palestinese e importantissimo promotore della nonviolenza, Mubarak Awad, che ha fondato il Nonviolence International Center a Washington D.C. e ottenuto risultati ancora più importanti in Terrasanta.

Iniziamo con l’intervista.

Mubarak: Mi chiamo Mubarak Awad. Sono nato a Gerusalemme nel 1943. A quei tempi faceva ancora parte della Palestina. Nel 1948, quando avevo cinque anni, hanno sparato e ucciso mio padre. Mi rimasero sette fratelli e sorelle, e mia madre. Dovemmo seppellire mio padre dentro casa nostra perché fuori c’erano scontri dappertutto. Già allora mia madre ci disse, “colui che ha ucciso vostro padre non sa che mi ha lasciato a badare a sette bambini da vedova. Una cosa che raccomando a tutti voi, non siate mai in possesso di una pistola. Non uccidete una persona, non ha senso uccidere, non c’è alcuna giustificazione, non importa quale. Non uccidete.”

Quello è stato l’inizio del mio percorso di nonviolenza, inteso come non uccidere, non possedere armi. E’ un principio che seguivamo tutti, in famiglia. L’ho fatto quando frequentavo le scuole superiori – durante il periodo Giordano, eravamo sotto la Giordania – quando il preside della St. George’s School fece arrivare dei soldati per addestrarci. Mi sono completamente rifiutato. Mi misero pure un’arma in mano, e mi fecero sputare addosso dagli altri. Con convinzione dissi “non userò un’arma”. Mi sono completamente rifiutato.

Il mio impegno iniziò allora, quando non avevo ancora alcuna idea di che cosa fosse la nonviolenza o la risoluzione dei conflitti. Era come se mia madre mi ripetesse all’orecchio “no, non farlo”. Non potevo alimentare quel lupo arrabbiato che c’era dentro di me. Invece, alimentavo il lupo della pace. Davvero, mi semplifica la vita.

Michael: Che storia meravigliosa, Mubarak, e che meraviglioso modo di vivere. Non tutti hanno avuto una madre come la tua, ma possiamo prendere esempio dalla tua esperienza, imparare questa lezione. Mubarak, tu hai vissuto proprio a Sheik Jarrah. E’ così?

Mubarak: Sì, abitavo lì. Ho ottenuto una borsa di studio per Yale e per un altro college, il Lee College di Cleveland. È una scuola religiosa, Pentecostale. Mi davano soldi da spendere, 100 dollari al mese. Qui, passare da un orfanotrofio ad avere 100 dollari al mese negli Stati Uniti è grandioso. Non mi importava che cosa Yale potesse offrirmi – non mi avrebbero certo dato 100 dollari. Perciò sono andato al Lee College, senza possedere nulla. E ho odiato ogni minuto di quell’esperienza, perché erano gli ultimi anni 60, primi anni 70.

Il mio interesse era studiare religione. Ma quando ho visto come veniva trattata la gente, come i bianchi trattavano i neri, ho capito che non si trattava di un college religioso. Loro non credono nella Bibbia. Ne parlano, ma non ci credono.

Michael: Possedevi quella capacità di giudizio che vorrei più persone avessero.

Mubarak: Non sono stato in grado di finire la scuola perché non mi piaceva per niente. Non mi piaceva l’America. Pensavo che l’America e gli Americani fossero degli ipocriti nella loro concezione di religione. Si dice “bisogna rispettare tutti quanti” – a quei tempi portavo una riproduzione della Statua della Libertà ovunque andassi e leggevo l’iscrizione praticamente ogni giorno. Ma in realtà non lo pensano davvero. Non lo pensano davvero quando hanno a che fare con i neri.

E quando hanno a che fare con le minoranze, con i Nativi Americani.. per me è difficile. È stato molto difficile. Così quando ho lasciato la scuola, sono tornato a casa e mia madre mi ha detto “ti abbiamo mandato che eri molto religioso. Quando sei tornato, sei tornato senza religione.” Le risposi, “mamma, lì non posso farcela.” Poi ho iniziato ad insegnare alla scuola Mennonita, un orfanotrofio, cosa che amavo fare perché anche io ho frequentato la scuola da orfano.

Ha completamente cambiato la mia visione sugli Americani. Quei Mennoniti erano da ammirare per il loro stile di vita, per il modo in cui guardavano le cose. Erano gli anni del Vietnam e i Mennoniti aiutavano anche i Vietnamiti dando loro del cibo. E frequentavano gruppi di pace. Mi sono sentito ottimista a riguardo, e ho ristabilito la mia fiducia negli Stati Uniti.

Michael: Questa è un’altra bella storia. Vorrei poter dire che i Mennoniti sono un esempio più conosciuto degli Stati Uniti, al posto di altre persone che hai incontrato. Almeno esistono. Ricordo che quando stavamo lavorando a quello che ora viene chiamato Unarmed Civilian Peacekeeping, i Mennoniti erano sempre un passo avanti rispetto agli altri. Avevano stabilito da dove sarebbe stato ricavato il budget, ed erano molto innovativi nel loro modo di pensare.  I Mennoniti, insieme ai Quaccheri (Quakers), hanno sempre mantenuto una posizione di avanguardia che vorrei più persone condividessero.

Mubarak, posso dedurre che sia stata la tua esperienza di gioventù a portarti alla creazione dell’Ohio Youth Advocates. E’ stato dopo il tuo ritorno negli Stati Uniti a causa della tua deportazione?

Mubarak: No, ho avviato l’Ohio Youth Advocate Program quando – un Mennonita a quel tempo mi disse “è triste che tu abbia vissuto solo due anni negli Stati Uniti. Se venissi al college di Bluffton, in Ohio, che è un college mennonita, saremmo lieti di averti con noi.” Stavo lavorando con i Mennoniti e decisi di tornare in Ohio per studiare assistenza sociale e sociologia. In una delle classi che stavo frequentando, quella di sociologia, mi assegnarono una tesi sui bambini presenti in una delle prigioni di Lima, in Ohio – che sarebbe una grande città vicino a Bluffton.

Ero così fuori di me, così arrabbiato che ci fossero dei bambini dietro le sbarre, bambini insieme agli adulti. Sono andato dal giudice e gli ho detto “c’è qualcosa di sbagliato qui, io sono Palestinese e non mettiamo mai i bambini dietro le sbarre. Non mettiamo mai dei bambini insieme agli adulti. Non hanno nessun parente a cui essere affidati? Nessuno zio, o una nonna, o chiunque altro, invece di metterli in prigione?”

Il giudice era arrabbiato con me. Diceva, “lei non conosce la nostra cultura, non ne ha idea”. Risposi, “i bambini sono bambini, non ho bisogno di conoscere alcuna cultura. Quando voi fate questo a dei bambini, ciò si riflette moltissimo nel loro futuro. Quando sono sconvolti e arrabbiati poi si convincono che questo è il modo in cui trattate le persone, punendole. Non possiamo trattare i bambini in questo modo. Sono ragazzini. Hanno 12, 13, 14, 15 anni. Non potete mettere dei bambini nelle celle.”

E poi il giudice mi disse, “Bene, se insiste, li porti fuori di qui e sia lei ad averci a che fare.” Frequentavo il college, ero uno studente a Bluffton, e ho portato quei bambini fino al dormitorio. È così che ho avviato l’Ohio Youth Advocate Program. I miei compagni di studi portavano cibo per i bambini al dormitorio, per aiutarli. In seguito, il presidente scolastico di allora venne da me e mi disse “questa non è assistenza sociale, devi avere una licenza. Non puoi fare questo senza una licenza, se non vuoi che ti capiti qualcosa.”

Allora decisi che avrei trovato qualcuno che avrebbe aiutato quei bambini. Avevo ancora a cuore la situazione. Sono andato dal pastore mennonita e gli ho detto “ecco un bambino, prendetelo. Dio vi ha dato questa casa e dovete prendervi cura di questi bambini.” Sono persino andato dal giudice che mi aveva lasciato quei ragazzini. Gliene ho affidato uno in modo che se ne prendesse cura. È così che ho iniziato il programma.

Michael: Oh wow.

Mubarak: In seguito il presidente del Bluffton College mi disse “ti aiuterò. Diventerò il presidente per conto tuo, ma dobbiamo ottenere una licenza.” Questa era la situazione. Dopodiché, iniziarono ad arrivare molti bambini dall’Indiana e dalla West Virginia, entrambi stati confinanti con l’Ohio. Mi sono detto, “questo non può funzionare perché mi piacerebbe avere i ragazzi a prescindere da dove vivono le loro famiglie. È importante perché una volta che i genitori hanno risolto i loro problemi vorremmo riportare i bambini nelle loro case.”

Così ho avviato la West Virginia Youth Advocate Program. Poi l’ho affidata a qualcun altro affinché ne portasse avanti la gestione. Il suo nome è Marlena Twigg. È straordinaria. All’improvviso abbiamo avuto problemi al confine, bambini che non hanno alcuna scelta e che vengono presi dalle loro famiglie. Ho scritto una proposta formale al governo, e ci hanno dato 150 milioni di dollari.

Michael: Oh mio Dio.

Mubarak: Servivano a formare genitori affidatari, assistenti sociali e supervisori latino-americani che fossero in grado di accogliere quei bambini. Una volta ottenuti centinaia di genitori affidatari latino-americani abbiamo iniziato a prenderci cura di quei bambini. Il mio cuore è con loro. E non parlo solo di bambini Palestinesi, ma di ogni bambino che ha sofferto, che è stato privato o cacciato di casa, o che proviene da una famiglia mista e di conseguenza non viene voluto da nessuno. O un ragazzino che non ha ancora compreso il suo orientamento sessuale. È un maschio o una femmina? Non importa, noi li accogliamo. Non mandiamo mai via un bambino, per nessuna ragione.

Ora accogliamo circa 3000 bambini al giorno grazie al National Youth Advocate Program.

Michael: Wow.

Mubarak: È una grande organizzazione che si è sviluppata in diversi stati.

Michael: È davvero importante.

Mubarak: In questo modo le persone se la stanno cavando bene. Noi non chiediamo un penny a nessuno, e non raccogliamo fondi. Non lo facciamo perché fin dal primo giorno ho insistito affinché chi voglia affidarci un bambino paghi per quei servizi – che sia il governo federale, una contea, una città o chiunque altro. Questo è il prezzo da pagare per aiutare un bambino. Abbiamo un budget annuale di 100 milioni di dollari senza raccogliere un penny.

Michael: Wow.

Mubarak: Siamo soddisfatti. Non sono in tanti a sapere che mi occupo di questo, sai?

Michael: È il tuo stile.

Mubarak: Bisogna sostenere i bambini. Dopo sono andato in Palestina e ho avviato il Palestinian Counseling Center. Quel centro si occupa delle famiglie. Succede che i bambini vengano uccisi oppure che le famiglie vengano messe in prigione. Il padre o la madre finisce dietro le sbarre e noi dobbiamo trovare un modo per lavorare con i bambini. Se un uomo ritorna a casa dopo 15, 16 anni di galera, come si gestisce la situazione? Quel programma è stato un grande, grande successo. Mentre mi ne occupavo, tenevo a mente come fare in modo che i Palestinesi usassero metodi nonviolenti per liberarsi dall’occupazione, perciò ho affidato la gestione del centro ad un altro gruppo, uno molto professionale e che ha vissuto in quei luoghi per lungo tempo. Poi ho aperto il Centro Palestinese per lo Studio della Nonviolenza e ho iniziato a dirigere i Palestinesi verso metodi nonviolenti.

Michael: Hai anche partecipato attivamente all’azione quando eri in Palestina. Non era solo studio, hai coinvolto delle persone nel reimpianto di ulivi, cose del genere. Parlaci di quello di cui ti sei occupato in quegli anni.

Mubarak: È stata una mia idea quella di iniziare a studiare consulenza, di studiare psicologia. C’è sempre un’alternativa. Non importa quale sia il conflitto, quale sia il problema, bisogna creare un’alternativa. Bisogna fare qualcosa, anche se la gente penserà che si tratti di uno sforzo insignificante, se diventa importante – avranno fatto qualcosa.

C’è sempre un’alternativa. Non importa quale sia il conflitto, quale sia il problema, bisogna creare un’alternativa. Spesso le persone arrivano [al Centro Palestinese per lo Studio della Nonviolenza] e dicono, “i soldati israeliani, i coloni israeliani sono arrivati e hanno sradicato tutti gli ulivi centenari”. E io rispondo, “va bene, cosa volete che faccia? Che ritrovi quegli alberi e li riporti indietro?”. Mi dicono, “No, non sappiamo dove si trovano”. “D’accordo”, dico, “formiamo dei gruppi. Facciamo venire anche degli Israeliani con noi, e poi andiamo”. Loro hanno preso 100, 1000 alberi. Noi ne pianteremo 4000 in modo da avere, in futuro, più alberi di prima. Ed è così che è iniziato tutto.

Abbiamo scoperto una legge in Israele che dice che se vengono piantati degli alberi in un terreno – alberi da frutta, là gli ulivi sono considerati alberi da frutta – allora quel terreno non può essere sequestrato. Quindi se la tua terra veniva sequestrata, noi lo sapevamo. Poi di notte andavamo a piantare degli alberi cosicché gli Israeliani non potessero confiscare quel terreno. Abbiamo piantato migliaia di acri, li abbiamo salvati dal sequestro da parte dei coloni Israeliani. Mi piaceva essere arrestato ogni volta che lo facevo. Sono uno di quelli a cui piace, e che ride e sorride. C’è sempre un grosso sorriso sulla mia faccia al momento dell’arresto.

Gli Israeliani si arrabbiavano e dicevano “sei l’unico che sorride felicemente quando vi arrestiamo”. E io rispondevo loro, “amo parlare ai Palestinesi, e quei Palestinesi che state arrestando sono persone che lavorano per la fine dell’occupazione. Ci radunate tutti nello stesso luogo, e io amo parlare con loro.” Davo lezioni mentre ero in prigione, credimi. Ma poi gli Israeliani se ne sono accorti, e iniziarono a mettermi in un piccolo angolo isolato dopo avermi arrestato, in modo che nessun prigioniero potesse sentirmi o vedermi.

Michael: Quindi sono abbastanza svegli da capire che la nonviolenza è pericolosa. Abbiamo infatti intervistato più di un palestinese che ci ha detto di aver imparato cos’è la nonviolenza in prigione, perciò non mi stupirebbe se fossi stato proprio tu uno di quegli insegnanti.

Mubarak: Ti dirò una cosa per me particolarmente importante. Io sono cristiano. La maggior parte dei Palestinesi sono musulmani, e quando abbiamo sentito parlare di Abdul Ghaffar Khan – ok, non era cristiano ma musulmano, ed è diventato nonviolento perché sentiva che l’Islam era una religione nonviolenta. Ero così felice di aver avuto accesso alle sue opere – e tu hai contribuito con A Man to Match His Mountain. Lo abbiamo tradotto in Arabo ed è stato letto da molte persone. C’era chi ha apprezzato molto il fatto che ci fosse qualcuno della loro religione che pensava che la nonviolenza fosse parte dell’Islam, ed è bello poiché, da cristiano, non ero stato in grado di condividere questo pensiero nello stesso modo di Abdul Ghaffar Khan.

Michael: Ha senso. È previsto un corso quest’estate e la mia assistente, Safoora Arbab, è una pashtun. È un’esperta di Abdul Ghaffar Khan. Sarà un grosso passo avanti. Ciò che posso trarre da tutto quello che hai detto fino ad ora, Mubarak, è che la nonviolenza ha la capacità di trasformare il danno in qualcosa di positivo, il male in bene, la morte in vita. Ognuno deve realizzarlo nel suo cuore affinché quel processo funzioni. A me sembra che sia proprio questo il modo con cui spiegare chi sei e quello che fai. Tu capisci l’essenza della nonviolenza, e la metti in pratica in modo che sia davvero creativa e appagante.

Ora, pensiamo a che punto siamo un questo momento. È stato ordinato un cessate il fuoco durante questo orribile conflitto. So che molti Americani sono sconvolti da questa violenza, ma allo stesso tempo ci sentiamo impotenti. Sarebbe molto, molto utile se tu potessi condividere delle risorse, per esempio dove possiamo rivolgerci, cosa possiamo fare per aiutare a promuovere la nonviolenza in questa situazione.

Mubarak: Penso che il recente conflitto tra Palestinesi e Israeliani non sia qualcosa di nuovo. Sfortunatamente accade ogni quattro, sei, otto anni, ritorna più e più volte. Questo cessate il fuoco non può terminare senza che si capisca perché i Palestinesi sono arrabbiati e perché questo conflitto continua da tempo. Le persone che ci danno ascolto devono davvero pensare ai perché, è una cosa molto importante. I Palestinesi sono persone religiose, specialmente quelli che vivono a Gerusalemme.

La Cupola della Roccia è il terzo luogo di culto più importante per i musulmani in tutto il mondo. Da quel luogo sacro [Incomprensibile 00:22:45.3] Maometto è andato in Paradiso, no? Se non sei musulmano puoi scegliere di crederci oppure no, ma questo è quello in cui i musulmani credono. Dobbiamo rispettare il loro credo, come quello dei cristiani e degli ebrei. Il nostro ideale di comprensione è rispettare le opinioni altrui. Non importa se ci credi o no, loro ci credono. È importante.

Michael: Quindi cosa possiamo fare noi, come Americani? Dove possiamo andare a cercare informazioni per capire questa lotta, cosa possiamo fare per aiutare? A chi possiamo scrivere? Se puoi fare il nome di alcune risorse per i nostri ascoltatori.

Mubarak: Come Palestinesi, abbiamo bisogno di essere capiti. E come Palestinesi, non importa cosa succeda – non ci arrenderemo mai. Non importa quanti Palestinesi verranno uccisi, quanti verranno distrutti o quante volte Israeliani li puniranno con blocchi, con posti di controllo, rinchiudendo persone in prigione, mettendo i bambini in galera. Questo non servirà a far arrendere i Palestinesi e a farli innamorare degli Israeliani. Più loro continueranno a comportarsi seguendo una politica di punizione e più i Palestinesi insisteranno di avere ragione.

Sono passati molti anni eppure gli Israeliani non sembrano volerlo capire. Nemmeno la politica Americana lo ha capito. Il governo Americano supporta tutto quello che fa Israele – e sta facendo la cosa sbagliata. Sai, è come un bambino birichino: devi correggerlo, questo bambino. Ma gli Stati Uniti non sono per niente disposti a correggere Israele e sostiene tutto quello che fa, specialmente alle Nazioni Unite e quando tratta con altri Paesi.

E colgono ogni occasione per rendere la vita difficile ai Palestinesi. Questo è un aspetto da considerare. In secondo luogo, noi abbiamo difficoltà a capire gli Israeliani. Ci sono Arabi, Israeliani e Palestinesi che hanno un passaporto Israeliano, che sono cittadini di Israele e che sono stati sotto il loro controllo dal 1948 fino al giorno d’oggi. Non sono mai stati trattati come loro pari. Quindi aggiungere Palestinesi ad altri è stata la mossa sbagliata, non è accettabile. Anche se un palestinese dovesse entrare a far parte del Knesset, ovvero il parlamento Israele, non avrebbe diritto di parola. Non avrebbe il permesso di esprimersi. Verrebbe ignorato.

Detto questo, c’è bisogno di uguaglianza, gli Israeliani devono capire che non sono migliori o peggiori dei Palestinesi, noi siamo loro pari. Quella parità è importante. Il terzo aspetto, per noi, è l’ipocrisia degli Americani e degli Israeliani, d’accordo? Loro dicono “Israele è un Paese democratico”. Che significato ha se vengono ignorati 7 milioni di Palestinesi? A Gaza, in Cisgiordania, ovunque.

Se vengono ignorati, dov’è la democrazia? Anche nei più recenti avvenimenti hanno spinto Abu Mazen, il Presidente della Palestina, a non avere delle elezioni. Perché diamine gli Americani sollecitano elezioni dappertutto ma non in Palestina?

Queste cose logoreranno i Palestinesi e vedremo le cose diversamente – perché siamo Palestinesi. Ci vediamo come gli afroamericani negli Stati Uniti. Ci vediamo come i Nativi Americani negli Stati Uniti, e noi esistiamo in Palestina da ancora più tempo. Là è giusto che ci siano diritti per tutti – diritti umani e internazionali. Questi ci sono stati portati via.

Un altro aspetto è che bisogna informarsi su ciò che sta succedendo a Gaza. Non si può tenere due milioni di persone completamente sotto assedio. Non si può andare in mare, o viaggiare e lasciare il Paese. Il problema di Gaza è che vogliono sentirsi come i Palestinesi a Gerusalemme. Un ragazzino di diciassette anni non ha mai visto Gerusalemme. Non può andarci.

Quando Gerusalemme è stata sgomberata – la gente veniva sfrattata dalle proprie case e la Cupola della Roccia è stata attaccata – hanno creduto di voler fare qualcosa che facesse pensare “ehi! Sono i nostri! Anche se viviamo lontani da Gaza, separati dagli Israeliani”. Questa mentalità va capita. L’America non può capirla, ma Israele deve perché vivono insieme a noi.

Noi siamo molto, molto molto tribali. Se hai cinque figli e tre di loro muoiono, non dimenticheranno mai chi li ha uccisi. Cresceranno. Così anche i figli degli Israeliani. E così via. Non c’è amore tra le due comunità, non c’è empatia. Cerchiamo di far avvicinare e lavorare insieme Palestinesi e Israeliani che hanno perso i loro figli in questo conflitto, secondo i principi della nonviolenza. Entrambe le parti dicono “basta violenza, non abbiamo bisogno di altri bambini morti”. E siamo riusciti ad ottenere dei risultati.

Ci sono quindi delle persone da entrambe le parti che sono disposte a fare tutto ciò. Eppure, abbiamo ancora dei governi che non lavorano per la popolazione, ma per il proprio tornaconto. E io sono costretto a dirti che l’operato di Netanyahu non era nell’interesse degli Israeliani o dei Palestinesi, ma per il suo desiderio di farsi rieleggere e non finire in prigione. Lo sai anche tu, lo sappiamo noi, persino i bambini lo sanno. Chiunque ne è a conoscenza. Qui non se ne parla molto. Dobbiamo dire agli Americani che questo è quello che sta succedendo.

I Palestinesi non sono bravi a pubblicizzare e mandare avanti la propria causa. Per niente. Gli Israeliani sono mille molte più bravi a raccontare la propria storia, sono in grado di farlo nonostante abbiano torto. E lo fanno talmente tante volte che la gente ci crede.

Un’altra cosa importante da capire è la religione. Non puoi farti dire di essere il popolo prescelto, chiaro? Se così fosse, che ne sarebbe dei musulmani e dei cristiani? Non sono anche loro prescelti? Se Dio crea un solo popolo prescelto, che Dio è?

Michael: Non solo, ma a me sembra che se un popolo viene scelto, viene scelto per compiere atti di nonviolenza. Sei stato scelto per crescere.

NONVIOLENCE REPORT

Michael: Salve a tutti. Sono Michael Nagler dal Metta Center per la Nonviolenza con un nuovo episodio di Nonviolence Report in un momento particolarmente critico nel mondo riguarda lo sviluppo della nonviolenza a causa di questo intenso conflitto nel Medio Oriente, in questo momento momentaneamente sospeso, per così dire, è in corso un cessate il fuoco. Noi ci auguriamo che questo cessate il fuoco duri a lungo e che, cosa più importante, venga utilizzato come tempo di riconoscimento e resa dei conti. Ci sono alcune cose in loco che non cambieranno e abbiamo bisogno che la comunità internazionale e Israele in particolare siano consapevoli di questa nuova situazione.

Tra i Palestinesi c’è la sensazione diffusa – tra tutti i Palestinesi che vivono a Gaza e in Cisgiordania, i territori occupati – che “non ci sia più nulla da perdere”. Questo è un concetto fondamentale. Ora dicono “non c’è nulla da perdere. Non si torna indietro.” Questo principio è stato definito da un sociologo di nome Ted Gurr in un libro dal titolo Why Men Rebel. Ha spiegato che c’è una differenza qualitativa tra l’essere in povertà ed essere nella miseria. Nel primo caso c’è la possibilità di sopravvivere, anche se la situazione non è piacevole. Ma quando vivi nella miseria, quando stai morendo di fame, quando i tuoi figli sono nullatenenti, allora bisogna fare qualcosa. È a quel punto che di solito ci si ribella.

Questo è l’aspetto economico, ma c’è una situazione simile nel conflitto attuale secondo la quale, come affermato dai Palestinesi, per quante punizioni vengano inflitte su di loro dai militari israeliani – l’IDF, appoggiato pienamente dagli Stati Uniti, purtroppo, come sempre – per quante punizioni possano essere inflitte loro non si arrenderanno, non cederanno, non faranno ciò che gli Israeliani vogliono.

Allora, questa è una situazione con cui tutte le parti coinvolte devono fare i conti, sia all’estero che in Israele. La politica di Netanyahu costituita da violenza, ancora violenza e ancora più violenza avrà come unico risultato la devastazione dell’umanità Palestinese. Ciò segnerebbe anche la terribile rovina dello spirito Israeliano, per quanto lui non lo riconosca. Questo è ciò che i fruitori di violenza non riescono a capire: la violenza è dannosa per lo spirito umano. È letale sia per coloro che la infliggono che per chi la subisce. Ebbene, questo è uno dei principi cardini di Nonviolence Radio.

Per prima cosa ecco alcune informazioni riguardo al conflitto in Medio Oriente, attualmente sospeso. Spero che abbiate avuto la possibilità di ascoltare la profonda e istruttiva intervista che abbiamo appena registrato con Mubarak Awad, il fondatore del Centro Palestinese per la Nonviolenza – per lo studio di essa, ma si occupa anche di azione diretta. Qui negli Stati Uniti ha creato Nonviolence International, con sede a Washington D.C.

Riguardo alle risorse a noi utili per informazioni e consigli su ciò che possiamo fare, lunedì scorso Dima Khalidi, una Palestinese nata a Beirut e cresciuta negli Stati Uniti, ha pubblicato un editoriale su Truthout. Khalidi è la fondatrice e direttrice di Palestinial Legal, un’organizzazione no-profit di sostegno e assistenza legale che lavora per proteggere le persone che parlano a favore della libertà dei Palestinesi dagli attacchi sui civili e dei loro diritti costituzionali.

Ecco alcuni estratti. Scrive Dima,

insieme a questo disperato dolore e a una rabbia impotente esiste una familiare sensazione riguardo al fatto che siamo al limite. Non si torna indietro. La verità è stata svelata. La nostra gente non può più contenere il bisogno di resistenza verso uno stato coloniale di insediamento che ha diretto per generazioni l’eliminazione, oppressione e tutte le menzogne diffuse per giustificare la nostra disumanizzazione.

Questa dichiarazione di Dima Khalidi è molto forte. E penso che sia importante per noi leggerla perché rappresenta cosa provano i Palestinesi.

Come ha precisato Mubarak nella nostra intervista, questa è la prima volta in cui tutti i Palestinesi si sono uniti nella resistenza. È importante che si riconosca il significato di ciò dal punto di vista della resistenza nonviolenta. Quando essa stessa è fratturata, perde molta legittimità e influenza. Ma quando non lo è, quando è unita e coesa come lo è adesso – ricorderete quanto tempo ci ha messo Gandhi a preparare le persone e a unirle per la resistenza prima di avviare le sue attività.

In aggiunta a quell’editoriale c’è una lunga lista di risorse ad opera di un prolifico autore Palestinese che capo del Center for Biodiversity a Gerusalemme. Il suo nome è Mazin Qumsiyeh, scritto Q-U-M-S-I-Y-E-H. Mazin Qumsiyeh. Oltre a possedere una scrittura molto potente, Qumsiyeh ha elencato numerose risorse sul sito che sono sicuro possiate trovare a quel nome.

Ora, c’è un giovane di nome Cody O’Rourke, membro del Good Shepherd Collective, a sua volta parte dei Christian Peacemaker Teams, il loro Comitato di Difesa di Hebron. O’Rourke fa anche parte della Gioventù di Sumudsumud è uno dei vari termini Arabi per nonviolenza. Significa pazienza. Difensori dei diritti umani e l’International Solidarity Movement – ve ne parlerò in un secondo.

Loro chiedono che gli attivisti negli Stati Uniti si occupino di spingere il New York Attorney General a investigare le organizzazioni occupanti e hanno una petizione che potete firmare su The Action Networks. Le organizzazioni che vogliono contribuire possono presentare il loro appoggio internazionale inviando una mail, saranno felici di collaborare.

http://actionnetwork.org/petitions/dismantle-the-ghetto-take-the-settlers-of-out-of-hebron-2

Bene, l’aver parlato dell’International Solidarity Movement mi permette di fare una pausa per dire questo. L’ISM non è sempre stato un movimento nonviolento, non nel senso che difendesse e facesse uso di violenza – non sia mai. Ma non si poteva definire imparziale, quindi non poteva rientrare in quello che è un intervento nonviolento da parte di esterni o in pacate iniziative civili di mantenimento della pace che promuoviamo sempre su questo programma. L’ISM era completamente pro-Palestina. Non sto dicendo che non avessero diritto ad avere questa posizione. Certo, possono prendere qualsiasi posizione che ritengono giusta, ma ciò non da il diritto di essere un’organizzazione esterna se non si è imparziali.

Ora, presso la Nonviolence International, che ho appena citato, il nostro amico David ha intervistato due importanti Palestinesi, Mubarak Awad e un amico in comune, Jonathan Kuttab, un avvocato estremamente autorevole che vive per la maggior parte negli Stati Uniti. Dall’intervista si è ricavata una pagina di risorse. Questo mi ricorda il primo video realizzato dal Metta Center, si chiamava “Nonviolence in the Holy Land” e consisteva in un’intervista con Mubarak Awad.

Poi ci sono i video di un’importante organizzazione chiamata Combatants for Peace. È formata – come suggerito dal nome –  da ex soldati dell’IDF ed ex combattenti Palestinesi. All’inizio si trattava di un piccolo gruppo, ma ora si tratta di una compagnia molto grande ed influente che ogni anno organizza dei memoriali per ricordare le persone che sono morte durante il conflitto. L’anno scorso si è svolto il sedicesimo memoriale ed è stato seguito da circa duecentomila persone, sia presenti di persona e muniti di mascherine che a distanza via collegamento web. Troverete un discorso molto eloquente tenuto da Mubarak Awad e suo nipote Sami Awad, fondatore dell’Holy Land Trust a Betlemme.

Sempre parlando di risorse utili, ci spostiamo per un momento verso occidente per parlare di quattro organizzazioni che, insieme al nostro Metta Center, varrebbe la pena tenere d’occhio. Una è Peace Alliance, insieme a Pace e Bene, di origine Francescana – di rilievo è il loro progetto Campaign Nonviolence. Ne abbiamo parlato diverse volte. Esiste anche Waging Nonviolence, dove troverete tutti gli scritti del Metta Center e di molti altri.

Pace e Bene ha un nuovo progetto entusiasmante chiamato The Soul of Nonviolence Podcast, condotto da Veronica Pelicaric. È una educatrice alla nonviolenza di vecchia data presso Pace e Bene ed è la co-autrice di una guida allo studio della nonviolenza pubblicata qualche tempo fa, chiamata Engaging Nonviolence. Il programma è questo: ogni mercoledì verrà caricato un podcast di 5-10 minuti centrato su una delle frasi che mandano attraverso la loro serie This Nonviolent Life.

Vi ho lasciato una lista intera di risorse, tra cui Pace e Bene, This Nonviolent Life, e ora parleremo del progetto The Soul of Nonviolence.

Dal 4 al 6 Giugno si terrà la sesta Annual Global Conference organizzata da World Beyond War. Ci saranno educatori alla nonviolenza e all’azione diretta, organizzatori ed attivisti da tutto il mondo che condivideranno i migliori modi per contribuire, ma anche i peggiori. Arriveranno dalla Nuova Zelanda, dal Canada, dall’Inghilterra e dall’Australia, descrivendo come degli attivisti siano stati in grado di sospendere definitivamente delle esposizioni di armi. E’ un evento culturale molto importante da far crollare, ed è importante capire quali lezione si possa imparare da queste campagne di arresto che hanno avuto luogo in Montenegro e Repubblica Ceca.

Qual è la differenza c’è tra l’organizzazione di un’azione diretta nonviolenta in Iraq e negli Stati Uniti? Si rifletterà inoltre sugli stereotipi che possiamo abbandonare incontrando persone che provengono da Paesi che sono stati sanzionati e demonizzati come l’Iran.

Ora ci occuperemo di alcuni passi che potete intraprendere voi – ancora una volta molti di questi fanno riferimento al Nonviolence International, con il contributo di Mubarak Awad e Jonathan Kuttab. C’è una dichiarazione da firmare, potete trovarla sul sito di Nonviolence International. Vengono inoltre sponsorizzati numerosi gruppi come l’organizzazione U.S. Boats to Gaza, che quest’estate si occuperà di sfidare il blocco delle navi verso Gaza. Ci stanno provando da anni, ovviamente, ma questa si tratta di un’occasione preziosa perché sembra che l’opinione pubblica e la posizione degli Stati Uniti si stiano iniziando a staccare da Israele, cosa che dal punto di vista della nonviolenza si può considerare uno sviluppo promettente.

Tra l’altro, nei recenti conflitti, scontri e attacchi a Gaza, la sollevazione popolare a Sheik Jarrah e in altre zone della Gerusalemme Palestinese – intendo dire Gerusalemme Est – che è stata incitata recentemente, è stato indetto uno sciopero generale, ma non sono sicuro di che fine abbia fatto dopo la proclamazione del cessate il fuoco. Questo evento ha coinvolto Ebrei e Palestinesi e c’è stata una manifestazione a questo proposito a Midtown, nella città di New York. È stata coordinata dall’associazione Jewish Voice for Peace.

Tutto ciò mi ha fatto pensare che forse quello a cui stiamo assistendo sia l’inizio di qualcosa che potremmo chiamare Terza Intifada. Come sapete, Mubarak è stata una figura preziosa per l’avvio della prima, ma ai tempi della seconda era già di ritorno negli Stati Uniti dopo essere stato deportato da Israele. Ora, un ulteriore ed importante elemento nello scenario delle recenti rivolte, seppur già visto, è proprio la collaborazione tra Ebrei e Palestinesi svoltasi sia a Midtown che in Palestina.

Spostandoci verso altri avvenimenti, troviamo un ottimo resoconto di quello che è successo a Minneapolis, riguardo a quello che è stato fatto da alcuni gruppi di intervento, in particolare Nonviolent Peaceforce, che per caso negli Stati Uniti ha la propria sede vicino a dove vive Mel Duncan. A proposito vorrei festeggiare proprio il compleanno di Mel Duncan, che cade il giorno di questa registrazione, il 22 Maggio, e anche ricordare, già che ci sono, che poco tempo fa è stato il cinquantesimo anniversario della pubblicazione dei Documenti del Pentagono da parte di Dan Ellsberg. Sono entrambi dei miei cari amici non-violenti e piuttosto famosi.

Tornando a noi, parliamo di due reporter, Kalaya’an Mendoza e Manu Lewis. Hanno riferito che ci sono stati dieci interventi finora e che da febbraio hanno formato ben 320 persone. Per esempio, erano presenti l’8 Marzo e ancora il 19 e 20 Aprile per il processo a Chauvin. Hanno assistito 19 feriti e fornito assistenza protettiva a tre ragazzi neri. Un gruppo di quattro persone è riuscito a farli uscire dall’area di conflitto e a metterli in salvo, hanno detto che tra la folla una signora nera più ha detto loro “andate subito con queste persone”.

Sono felice di riportare che al termine di questi corsi di formazione una donna ha dichiarato “ora penso di poter uscire da casa mia in sicurezza a Minneapolis”.

Nella città di Glasgow, in Scozia, centinaia di persone si sono mobilitate recentemente per protestare contro l’arresto di alcuni immigrati. Questo movimento si chiama Nothing is More Beautiful than Solidarity. Potete trovare informazioni andando su Common Dreams. Centinaia di residenti si sono radunati e hanno passato l’intera giornata a fare in modo che quegli uomini venissero rilasciati in sicurezza. Hanno completamente circondato un furgone – uno della polizia – dove erano stati messi un paio di “immigrati clandestini”, come si dice qui, presi per essere deportati. Lo hanno circondato. Un protestante si è sdraiato sotto al furgone per impedirne la partenza. È una nota tecnica di nonviolenza. Certamente non basta a convincere l’opposizione a farlo di persona come in altre situazioni, con condizioni ideali e più tempo a disposizione. Ma è un importante esempio di protesta nonviolenta.

L’ultima volta che sono stato in Germania, ormai tempo fa, ho tenuto un intervento in un convento nella città di Dinklage. È la stessa città dove quattro suore si sono inginocchiate a pregare per bloccare un auto della polizia che era arrivata per allontanare e poi deportare una famiglia turca che aveva precedentemente trovato rifugio presso di loro. Entrambi questi episodi che ho riportato hanno avuto esito positivo.

La nostra cara amica Rivera Sun ha recentemente elencato ben tredici esempi di nonviolenza vincente su Waging Nonviolence, la sua Nonviolence News. Un altro episodio di protesta del genere consiste nel raduno di attivisti alla Trident Nuclear Submarine Base di Bangor, nello stato di Washington. E’ successo il giorno prima della Festa della Mamma. Cinque persone hanno bloccato l’ingresso autostradale principale tenendo degli striscioni che dicevano “il Congresso vuole finanziare le testate nucleari con 1 triliardo di dollari, cosa resterà per i nostri figli?”. Altri dicevano “il Trident minaccia la vita sulla Terra”, il che è indiscutibile. Ci sono otto sottomarini Trident schierati a Bangor. Solo uno di loro ha la forza distruttiva di, per esempio, 1200 bombe atomiche.

Passiamo ora ad alcune risorse fornite da Jewelia White: per queste ci si potrà registrare sul sito PaceeBene.org tra pochi giorni, dal 25 Maggio. Ricordate tutte le iniziative di Pace e Bene? Questa si chiamerà Disarming Conversations, collegamenti attraverso le differenze. È un programma di otto settimane che potrete trovare sul sito di Pace e Bene.

Inoltre c’è un’iniziativa sul sito ActionNetwork.org/ticketed_events il 18 luglio – c’è ancora del tempo – ma ci si può registrare già adesso. Si chiama War and Environment, ed è un corso online.

Quando una ditta statunitense ha realizzato un gasdotto senza consultare gli Yaqui in Messico, la comunità lo ha dissotterrato e venduto i rottami. È importante che sappiate che prima di farlo hanno cercato senza sosta di far sentire le proprie voci, ma quando la ditta li ha ignorati hanno preso la situazione nelle loro mani e letteralmente spostato il gasdotto illegale.

Se si guarda questa vicenda da un punto di vista nonviolento, si è trattato di un intervento estremo, cioè esattamente ciò che si dovrebbe fare – cercare in tutti i modi di comunicare prima di passare all’azione e di cambiare strategia solo quando costretti. Ricordate sempre la formula che seguiamo al Metta Center, gli approcci costruttivi sono la norma, quelli distruttivi vanno utilizzati solo quando ce n’è davvero bisogno. In più si trattava di un’area un po’ grigia, di distruzione di proprietà non persuasiva. Tutto ciò che fa è mettere blocchi. Ancora, questo non vuol dire che non avrebbero dovuto farlo, perché non avevano altra scelta. Ma bisognerebbe riconoscere che se si ha la possibilità di formarsi si possono compiere azioni più generalmente non-violente ed ottenere così risultati più efficaci proprio per questa ragione.

In 50 città degli Stati Uniti e sette altri Paesi ci sono state delle manifestazioni per spingere le banche a togliere i fondi per la Line 3 Pipeline. Stanno mettendo pressione anche al Presidente Biden. L’idea è che se si riuscisse a fermare i fondi allora si riuscirebbe a sospendere il progetto. Sappiamo che la rimozione delle cime in Appalachia è stata fermata – scusate, non lo pronuncio “Appa-lah-chia”, come fa qualcuno. Comunque, quell’operazione è stata fermata perché la gente ha protestato contro le banche finché non hanno ottenuto il blocco dei fondi.

Il Sunrise Movement, l’equivalente statunitense di Extinction Rebellion, ha recentemente intrapreso una marcia di 400 miglia da New Orleans a Houston e presenterà al Presidente Biden un piano per l’ottenimento di buoni posti di lavoro per tutti e l’istituzione di un corpo civile per il clima. Vogliono che sia incluso nel suo piano infrastrutturale da 2.6 trilioni di dollari. Da una parte si tratta di una protesta, ma dall’altra il Sunrise Movement si fermerà in numerose città lungo il percorso, organizzerà rallies e visioning sessions con le comunità locali. Si uniranno a loro leader politici, di giustizia ambientale e molti altri. Questo è un vantaggio.

Infine, vicino casa, un esempio di approccio costruttivo. A Oakland la gente si è riunita per creare un piccolo centro abitato sotto un cavalcavia autostradale. È stato pensato come rifugio per i senzatetto che popolavano un campo nelle vicinanze. Sono state costruite delle piccole, bellissime strutture con materiali di recupero e che dispongono di docce calde, cucine complete di attrezzatura e un ambulatorio. C’è persino un negozio che offre vestiti e libri gratuitamente e, ovviamente, è presente un bagno compostabile.

Secondo chi ha costruito il centro, la cosa più importante è che stia unendo le persone, creando un senso di comunità e dignità. È per questa ragione che lo cito come esempio importante di approccio costruttivo e non-violento. E lo hanno realizzato in cinque mesi. Stanno inoltre organizzando un programma di condivisione delle competenze (“skill-sharing”) per circa 320 persone che vivono in campi limitrofi, e sperano che questa possa essere una soluzione alternativa per affrontare il problema dei senzatetto negli Stati Uniti. È ciò che ci auguriamo sempre, che una struttura non-violenta vincente sia riproducibile.

Bene, questo è solo un assaggio di ciò che sta succedendo nel mondo della nonviolenza in questo momento. È stato bello comunicarvelo e speriamo di sentirvi presto – spero di poter condividere altre notizie con voi in futuro. Qui è Michael Nagler per il Nonviolence Report del Metta Center, passo e chiudo.


Fonte: Waging Nonviolence, Nonviolence Radio

Traduzione di Enzo Gargano per il Centro Studi Sereno Regis

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