In ricordo di Mimmo La Grotteria – Marco Scarnera
Mercoledì 24 giugno nella mattina presso l’ospedale Molinette di Torino si è spento Domenico La Grotteria dopo una malattia lunga e sfibrante. Per il progetto Irenea del Centro Studi Sereno Regis aveva partecipato al gruppo Arti Figurative, curando la mostra Esperimenti di arte e nonviolenza, ospitata nelle sale Poli e Magosso dall’11 al 23 aprile del 2014. Di certo non possiamo dimenticare l’amico schietto ed espansivo, il collaboratore generoso e affidabile, il cercatore esuberante e impegnato; ma, se al cospetto del mistero di una vita limitare la retorica cede spazio all’ascolto, conviene ricordarlo con parole sue, segni di un’offerta profonda e ancora operante. Lo scritto che segue, è la sintesi di un colloquio tenuto con me nella primavera del 2008.
Polittico di Mimmo La Grotteria
dalla voce di lui stesso e per la mano di Marco Scarnera
I Uso lo sfumato perché non mi interessa riprodurre esattamente ciò che a me sembra la realtà, ma porre l’interrogativo se ciò che vediamo, sia la realtà oppure una nostra interpretazione. Chiunque è capace di fare un disegno come una foto, però l’arte non coincide con la tecnica e la fotografia non restituisce la bellezza della realtà. Infatti esistono fotografie bruttissime. La foto necessita di un’abilità che non è tecnica. La tecnica è corollario, ingrediente dell’arte, ma non il principale. La realtà oggettiva esiste, però noi ne prendiamo solo una parte e la utilizziamo come ci conviene. Quindi l’interpretazione della realtà, nel mio caso il disegno, è una cosa che attuiamo liberamente.
L’urgenza non sta nel rifare la realtà, ma nel dire che nella realtà si trova un progetto. E’ un’istanza esistenzialista: dentro la realtà c’è un progetto significativo che è il tuo, il mio; è questo che mi fa prendere contatto e consapevolezza della realtà, non la riproduzione fedele. Non ci adeguiamo alla realtà delle passioni o degli eventi esteriori; non siamo amebe che si conformano all’habitat; siamo persone che fanno scelte, delle quali abbiamo responsabilità se non di fronte ad un principio etico superiore, di fronte alla storia sia personale sia universale.
Quanto facciamo ha un risvolto significativo sulla nostra vita e sulla vita degli altri. Quello che ha voluto dire per me la mia vita, cerco di metterlo nell’opera. Secondo me l’arte serve a ridestare l’attenzione mia e degli altri, in un rapporto complementare: finché gli altri sono sollecitati, anch’io sono sollecitato; se ho relazioni con altri, ne ho anche con me stesso. Perciò richiamo sia me sia gli altri al fatto che in ogni caso, in positivo o in negativo, non possiamo non scegliere: viviamo la vita attraverso le scelte. E’ importante rendercene conto per poter migliorare, evolverci, costruire.
Agiamo. A volte solo per agire. Talvolta è necessario, come quando chi si è intossicato con un overdose viene costretto a camminare per evitare di perdere conoscenza. Nella vita l’agire per agire, il muoversi anche senza scopo, tiene lontani dalla narcosi che deriva dalla mancanza di stimoli e di principi. Quando non hai un progetto, muori, entri in letargo e comprometti la vita tua e degli altri. Sono terrorizzato dalle persone che hanno solo lo scopo di sopravvivere. Questo significa accettare compromessi e rendersi complici di nefandezze. Spesso mi accusano di essere agitato, di fare troppi progetti. Ma tutto quello che fai, non è mai troppo. La jungla prende il sopravvento quando tutto si riduce a pochi bisogni elementari. Allora è il degrado: quando non agisci, non progetti, ti addormenti e non hai più motivo per vivere.
II Non credo di essere “l’artista convinto”. Per lui l’arte è tutta la vita e vive di arte, mentre per me l’arte è passaggio: prima di essere artista cerco di essere umano. Mi piace fare arte, ma non vorrei che si esaurisse in autoglorificazione.
Mi pare che tanti artisti si prendano troppo sul serio. Se non avessimo gusto estetico, le opere non sarebbero che oggetti, cose. Siamo noi a dare senso alla vita, quindi alle opere. E’ per noi che il linguaggio ha senso. Se non ci fossero parole, non ci sarebbe neppure arte. Quando assistiamo ad uno spettacolo naturale, la sua bellezza si rivela a noi. Qualsiasi cosa è riducibile a materia, ma la bellezza dell’essere umano sta nella produzione di cose meravigliose. All’interno della danza degli atomi, c’è l’uomo capace di lettura estetica. Tuttavia, prima della lettura estetica, deve venire quella etica. E’ la lettura etica a dare senso. Non basta essere un bravo artista: se non avverto intorno a me un mondo che può morire o vivere, la bellezza dei miei quadri non serve a nulla. Senza la ricerca esistenziale, che dà senso alla vita a partire dalla vita, l’arte sarebbe assurda.
L’attuale dilemma dell’arte è che stiamo sviluppando una caratteristica nobile e fondamentale dell’essere umano per un discorso estetico fine a se stesso. Ma la ricerca del bello per se stesso trascura l’essere umano. E’ più bello un bambino di qualsiasi quadro. Se faccio bei quadri, è perché sono belli i bambini. Se loro soffrono, non giova fare bei quadri. In questa prospettiva il genitore fa molto più dell’artista.
L’opera deve lasciarsi comprendere. Se apriamo una distanza tra il suo significato e la comprensione dei fruitori, come accade di frequente nell’arte contemporanea, impediamo il cambiamento interiore. Si potrebbe parafrasare il passo evangelico: “pur vedendo non vedono e pur udendo non odono…” [cf. Mt 13, 13-15]. Invece la cultura è etica, deve servire a tutti, come la scienza e la tecnica che emancipano l’uomo dalla schiavitù della materia, della malattia, del dolore.
Per questo organizzo mostre, perché l’arte non si limita ad un fatto individuale. In una mostra le persone si incontrano per un fine che non è solo estetico. Leggere la realtà sociale – come sta diventando la mia arte che si rivolge a temi sempre più spesso, per dire così, politici – costringe a guardare e ad analizzare la gente, a riconoscersi nella realtà dipinta, ad immedesimarsi in ciò che è ritratto. Sono innamorato di quello che dipingo: ritraggo te, perché sei rappresentativo di altri, rappresenti l’etica della vita. E io racconto la vostra storia.
L’arte per me è raccontare le storie. Ho cominciato col dipingere fumetti, che si distinguono per la sequenza animata – una prerogativa della vita – e sono arte popolare. Perfino chi non sa ancora leggere bene, legge volentieri i fumetti, che veicolano molteplici significati. Così pure le scene di caccia preistoriche rappresentano l’evoluzione, il movimento.
Il fumetto è lo sviluppo del quadro, il passo precedente – cronologicamente – al cinema, ma supera il cinema: lo ha ispirato, ma oggi si presenta in un’altra forma specifica ed autonoma. Dall’estetica del fumetto io assumo la storia, che implica l’etica. Senza storia, l’uomo non esiste. Oltre ad essere ragione, l’uomo è storia: si racconta a sé ed agli altri, si relaziona agli altri attraverso il racconto per capire e far capire chi è. Per questo ci vuole la sequenza della narrazione in cui risiede ogni significato. Nelle relazioni umane il racconto è la modalità per dare significato, per interpretare la realtà.
Se si rende conto che c’è tempo, origine, fine, l’autocoscienza si progetta come storia. Attraverso le domande fondamentali (Chi siamo?, Da dove veniamo?, Dove andiamo?) formuliamo una storia, una biografia che dà senso e continuità alla nostra vita. Ed accanto alla mia storia, esiste quella degli altri, universale. Noi tutti siamo collegati attraverso la storia.
III Spesso mi lascio prendere dalle foto che trovo su internet, le stampo, le ritaglio. E fotocopio di tutto. Una volta per me le fotocopie non avevano valore. Ma quando mi sono reso conto che riproducono la realtà con la definizione di un disegno, ho incominciato a lavorare con fotocopie di oggetti concreti, poi ho continuato fotocopiando su cartoncino i miei disegni, intervenendo in seguito con i colori.
La realtà convenzionale nella sua fissità oggettiva è morta; ma l’arte può immettere nel dato oggettivo l’interpretazione, una potenzialità soggettiva – la personalità, la propria biografia. La fotocopia non riproduce la realtà. La realtà è lì, irriducibile. Una situazione di vita non può essere riprodotta. Forse è possibile riprodurre l’aspetto della realtà, alcuni aspetti della realtà, ma la fotografia è altro da essa. E la fotocopia è un ulteriore passaggio, non semplice riproduzione passiva. Con essa la distanza viene ancora amplificata: si capisce benissimo che non è la realtà. Inoltre la fotocopia ha bisogno di essere fissata. La polvere del toner si deteriora e tende a svanire, come un disegno.
La fotocopia è l’esempio perfetto della società dei consumi. Per costruire una macchina devi avere la scienza ed il materiale adatto; ma le fotocopie che produce, non hanno il pregio dell’originale. Tutti le gettano. Invece a me fa orrore il loro spreco. Nella prima mostra che avevo allestito, ho ricoperto il pavimento con le fotocopie dei miei disegni in modo che tutti si accorgessero che stavano calpestando uno spazio significativo fondamentale, non il vuoto, ma la copia di quello che vedevano appeso alle pareti. Se davano valore all’opera appesa, allora anche la fotocopia aveva valore. Inoltre ci lavoravano sopra, passandoci con i piedi. In questo modo molti le distruggevano. Ma mi ha stupito quando alcune donne anziane si sono prese le fotocopie. La mia intuizione era giusta: il valore del disegno è quello che viene attribuito dal fruitore. E’ il discorso dada, del ready made: dal momento che affermo che una cosa ha valore, allora ce l’ha. Però non è questione di stravaganza o di disprezzo. Al contrario, do significato a qualcosa che nella nostra società ha perso valore, così denuncio la mancanza di senso della nostra vita.
La fotocopia alla quale attribuisco valore, conferendole lo statuto dell’arte, è metafora di tutto ciò che non ha dignità. Perciò il mio tentativo di fare un disegno a partire dal medium meccanico consiste in un investimento affettivo. La fotocopia è come i tanti volti anonimi degli immigrati che non contano nulla e possono essere scartati ed eliminati. Eppure quello che viene fotocopiato è talmente bello che dispiace buttarlo.
Il mio intento però non è la ricerca del puro bello. Desidero avviare la riflessione sul perché di ciò che facciamo. Noi rischiamo di buttare addirittura la vita nostra e di chi amiamo, perché non ci soffermiamo su chi siamo e su ciò che facciamo. Mi riferisco ad una fatica della riflessione che reclama un cambiamento esistenziale e non si arresta al piano teorico.
IV Uso le linee per inquadrare le immagini, come nei fumetti. A volte appaiono sezioni cancellate, ad esempio attraverso una croce convenzionale, oppure indico un orientamento mediante le frecce, come se suggerissi una direzione. I tratteggi manifestano la concezione della storia e della sequenza. Voglio far capire che le immagini non sono assemblate casualmente, ma compongono una storia. Nei primi lavori che ho fatto con i fumetti, non davo per scontato lo svolgimento da A a Z. Ero sempre attratto dalle alternative della storia. Per me la storia non è sempre lineare. Tendo a non operare sintesi. Disoriento chi legge la storia, se è abituato ai binari convenzionali che intrappolano la mente. Ma la storia non dovrebbe imprigionarti. E’ il dito che indica la Luna, ma non è la Luna: indica altrove, aldilà della sequenza. Io indico che c’è la storia, attraverso segnali, ma dico anche che aldilà c’è altro. Certo, se ne può discutere, magari è solo una mia visione.
Il tratteggio è fondamentale. Associa e collega per dare un senso possibile, ma lascia che sia l’osservatore ad immaginarlo. Faccio affiorare un linguaggio poetico all’interno dell’opera ed un modo di connettere le cose che può avere significato. Ad esempio, sono convinto che ci ritroviamo nello spazio espositivo per sfuggire alla solitudine. I miei quadri riproducono spesso la solitudine. Io lo suggerisco, ma la percezione dell’osservatore è personale ed imprevedibile. Perciò lo invito a comporre storie a partire da un elemento dell’opera, seguendo un procedimento simile a quello che ho adottato io per eseguirla.
Il tempo viene evocato dalle cornici nere che dipingo: richiamano il gioco dei bambini, “la settimana”, che consiste nel saltare tra le caselle disegnate per terra, secondo la successione dei nomi dei giorni. I popoli nordici avevano un modo di divinare: a seconda di come cadevano le pietre gettate all’interno di una griglia, traevano gli auspici. Noi oggi conosciamo il gioco del “tris”, che consiste nel formare un allineamento di segni identici all’interno di uno schema. E’ come un tentativo magico di spiegare il caotico, di dare senso ad ogni vissuto, di narrare la storia delle nostre esperienze… In fondo il gioco è un modo per far sì che il tempo non trascorra inutilmente. Mentre giochi, cerchi di dare senso al tuo tempo. Come la religione arcaica predeterminava le nostre azioni a partire dall’interpretazione degli avvenimenti quotidiani, per me raccontare le storie è cercare significati. Voglio far riflettere sul nostro bisogno di dare senso, per andare alla radice del vivere con la dignità di essere umano.
Uno dei miei prossimi lavori sarà la lettura di “Giobbe”, ricavata dalle persone incontrate per strada. E’ in questione il significato della sofferenza. Si tratta di cercare un senso per la vita – non dico di dominare la vita. Avevo sentito da un partigiano che chi non si ricorda della storia, è destinato a ripeterne gli errori. Capire che c’è una storia, che c’è una concatenazione, significa orientarci nella vita. Perciò esiste un ordine nei miei lavori, ma non dichiaro quale. Il lettore stesso è il narratore che costruisce il racconto. La bellezza di un film ad esempio sta nella possibilità di immedesimarsi nelle vicende esibite, cogliendo l’affinità tra l’opera e la propria vita, dimenticando la recitazione, la finzione. Allo stesso modo io non intendo far emergere che sono l’autore dei quadri, condizionarne la lettura, come se l’artista fosse l’eroe protagonista dell’esperienza estetica. C’è innanzitutto il lavoro, all’interno del quale lo spettatore si rispecchia. Non c’è separazione tra narratore, lettore, narrato, ma flusso. Sta all’osservatore comporre una storia con le immagini che gli presento. Io so che una storia esiste, ma non la impongo.
Anche le scritte o i numeri che uso, alludono a un prima e a un dopo, a un significato che io ho scoperto. Fanno parte integrante della storia, come le immagini. La parola scritta piace in se stessa, per la sua forma sensibile, non solo perché rimanda ad un contenuto. Così provoco l’osservatore ad aggiungere le proprie parole al quadro, nel quale cerco di offrire del mio meglio, per condividere, per testimoniare un legame tra me e lui. A volte certe immagini più sono banali e meno sono caratterizzate, più evocano un significato, proprio grazie alla loro neutralità. E’ come se mettessi a disposizione un sacco di lettere dal quale estrarre quelle per formare nuove parole. Posso anche inserire parole di una lingua che non conosco. L’importante è renderci conto che il nostro destino, il nostro compito comune, è costruire, agire, elaborare, vivere insieme.
Nell’arte non è in questione l’inerzia della mistica, per quanto la ami: non approvo il castello nel quale si sta rinchiudendo, come nel convento della contemplazione estetica solitaria che protegge dalle incongruenze del mondo. Mi fa venire in mente il rifugio nel virtuale – dell’avatar, del nickname – che permette di presentarsi come ci piacerebbe essere, evitando il confronto col reale. Purtroppo ciò rende fragili e non consente di prestare aiuto al vicino. Così certi artisti più sono tali e più sono disumani ed immaturi, come adolescenti che non hanno risolto i propri conflitti interiori. L’ambizione di assomigliare a Prometeo che porta la scintilla della conoscenza, dà l’illusione dell’illimitatezza. Mi ricorda l’onnipotenza capricciosa del Dio descritto da Jung in “Risposta a Giobbe”: accettando la sfida di Satana, rivela la debolezza di un arbitrio che lo rende disumano.
Con l’arte cerco di denunciare il pericolo dell’onnipotenza, soprattutto quella aggressiva e maschile; mentre per la donna, molto più intuitiva, l’essenziale non è tanto conseguire l’obbiettivo, quanto lottare per esso. Stiamo attenti, perché con il desiderio della perfezione a tutti costi, finiamo per ammazzare anche il cavallo che ci sta portando, uccidiamo noi stessi: dimentichiamo la rovina dei figli di Giobbe e tutta la sua sofferenza pur di esaltare la sua perfezione. Il delirio di onnipotenza fa perdere tutto: gli amici, i congiunti, l’umanità stessa, perché l’onnipotenza non è mai umana. Dio diventa umano scendendo sulla Terra; noi, quando abbandoniamo l’Olimpo, cessiamo di essere bambini senza argini ed accettiamo la condizione naturale.
L’onnipotenza è una visione unilaterale di sé che fa smarrire le relazioni con sé stessi e con gli altri. Lo possiamo constatare in certi ambienti poverissimi, come nelle favelas, dove chi possiede una pistola diviene superiore, ma perde l’umanità, perché è disposto ad uccidere per un vantaggio miserevole. Analogamente perdo l’amore di un figlio, quando da lui pretendo la massima perfezione, a prezzo della sua e della mia felicità. Così l’arte non è un hobby, ma prima viene la vita. L’arte manifesta la vita, ma non è la vita. Senza l’arte la vita sarebbe povera, ma senza la vita l’arte sarebbe niente. Lo dico per criticare una mentalità che confonde lo scopo dell’arte con l’autoesaltazione dell’artista e considera la perfezione delle sue opere superiore, per esempio, all’indagine dello scienziato o all’impegno del genitore. In realtà sono pari, perché ciascuno a modo suo contribuisce a costituire un’umanità meravigliosa.
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