L’ambientalismo dei poveri – Joan Martinez-Alier
In questo breve articolo l’Autore riassume le caratteristiche principali e le tappe storiche dell’ “Ambientalismo dei poveri”, testimoniato dai conflitti in cui sono state e sono sempre più coinvolte comunità povere e/o indigene in tante parti del mondo: conflitti che vedono queste popolazioni lottare per conservare luoghi e stili di vita contro lo scavo di miniere, le grandi dighe, l’estrazione di biomassa e il furto delle terre, lo sfruttamento di petrolio e di gas.
Sono comunità contadine e indigene che, a partire dagli anni 1980 e 1990, rappresentano il nucleo centrale del movimento globale per la giustizia ambientale.
Introduzione
La crescita del metabolismo sociale è una delle principali cause delle ingiustizie ambientali locali e globali. La scala ormai globale dell’economia capitalistica contemporanea porta la linea di confine dei conflitti ambientali per l’estrazione di risorse sempre più vicina alle comunità povere e indigene.
A partire dai sempre più numerosi ‘casi studio’ alcuni ricercatori hanno incominciato a produrre statistiche sui conflitti generali dall’uso crescente di risorse (dall’estrazione allo smaltimento). La principale causa di resistenza è il controllo sulla terra da parte delle multinazionali, che produce la perdita degli usi locali degli ecosistemi, e talvolta l’allontanamento delle comunità locali dai loro luoghi di abitazione e di vita.
Le ‘armi dei deboli’ che vengono messe in campo vanno dal dialogo al confronto diretto, dalla lotta locale al coinvolgimento internazionale (spesso ONG). Dimostrazioni, blocchi di strade, cause legali, occupazioni di luoghi naturali sono le manifestazioni più frequenti.
Secondo l’Autore, gli attivisti in molti paesi conoscono e usano il concetto di ‘ambientalismo dei poveri’. Come ha spiegato efficacemente Sunita Naraian in un articolo del Businness Standard (del 10 gennaio 2011), [le comunità locali] sanno che quando la terra viene scavata per estrazioni minerarie e quando gli alberi vengono abbattuti le fonti d’acqua inaridiscono e si perdono pascoli e terreni agricoli. Essi sanno di essere poveri. Ma stanno dicendo, con voce forte e chiara quanto possono, che ciò che noi chiamiamo sviluppo li renderà ancora più poveri. Questo è ciò che ho chiamato ambientalismo dei poveri… Ma la questione ora è: dove andiamo? Io credo che abbiamo bisogno di continuare ad ascoltare quelle voci, invece di respingerle e soffocarle etichettandole come contrarie alla crescita o addirittura sostenitrici dei Naxaliti 1…
[…] Dobbiamo capire che il nostro futuro sta nell’essere parte attiva dell’ambentalismo dei poveri, perché questo movimento obbligherà tutti noi a cercare nuove risposte a vecchi problemi.
La tesi dell’”ambientalismo dei poveri” non afferma che di regola la gente povera senta, pensi e si comporti da ambientalista. Non è così. La tesi afferma che in molti casi di conflitti legati all’ estrazione di risorse e allo smaltimento di rifiuti i poveri si trovano dalla parte della conservazione della natura, contro le multinazionali e lo stato. Questo comportamento è coerente con i loro interessi e valori.
L’ambientalismo dei poveri è basato sulla giustizia sociale, include rivendicazioni al riconoscimento e alla partecipazione, e si basa sulla premessa che le lotte per i diritti umani e per l’ambiente sono inseparabili.
Esso si esprime in preoccupazioni e azioni in situazioni dove l’ambiente è fonte di sussistenza, ed è rinforzato da altri valori, come la difesa dei diritti territoriali dei popoli indigeni, o l’affermazione di sacralità di particolari elementi della natura (una montagna, una foresta, anche un albero).
Cause dei conflitti ambientali e diritti dei popoli indigeni
Le basi dello scontro tra economia e ambiente derivano da due fatti:
la crescita della popolazione: si stima che il ‘picco’ sarà raggiunto intorno al 2045, con 8 miliardi e mezzo di persone
Il metabolismo sociale delle economie industriali: l’energia non può essere riciclata, per cui quella proveniente dai combustibili fossili viene usata una volta sola, e occorre continuamente attingere a nuove risorse alle ‘frontiere delle merci’. I materiali possono essere riciclati solo in parte, per cui – anche in un’economia che non crescesse – ci sarebbe bisogno di rifornimenti continui di minerali di ferro, di bauxite, di rame.
Mentre la gente ricca del Nord ha perso in generale l’idea che l’ambiente sia fonte di sussistenza, le popolazioni del Sud, ancora largamente rurali e povere, sono molto più connesse con l’ambiente, e hanno una comprensione più intima della posta in gioco se non si gestisce l’ambiente con prudenza.
Da questi conflitti possono emergere elementi interessanti: nuove istituzioni, per esempio, o reti di collaborazioni. Oilwatch è un network che si occupa di problemi di biodiversità, inquinamenti, deforestazione, ecc. Nel corso degli anni, movimenti per la giustizia e movimenti per la difesa ambientale hanno incominciato a collaborare in molte parti del mondo.
Il 13 settembre 2007 l’Assemblea Generale delle NU ha adottato la ‘Dichiarazione dei Diritti dei popoli indigeni’, che riguarda circa 370 milioni di persone in tutti i continenti. Mentre le ‘frontiere delle merci’ per l’acquisizione di minerali, combustibili fossili, biomassa si estendono sempre più in territori abitati da popolazioni indigene, questa Dichiarazione si propone di difendere i territori indigeni contro l’abbandono di rifiuti (art. 29.2) e l’estrazione di risorse (art. 32.2) senza il consenso informato.
Nell’esperienza dell’Autore, alcuni rappresentanti di popoli indigeni sono contrari all’espressione ‘ambientalismo dei poveri’, perché non si riconoscono come poveri: piuttosto, sono stati impoveriti attraverso il furto della terra e il lavoro forzato.
Secondo Martinez-Alier in questi conflitti possono essere usate espressioni e motivazioni molto diverse: sussistenza, diritto umano alla vita e alla salute, sacralità della terra, diritti dei tribali, lotta contro il razzismo ambientale, ecc. Sono diverse dal linguaggio delle valutazioni economiche e delle esternalità negative che si usano nelle corti di giustizia… In molti casi comunità povere e indigene hanno cercato di fermare il degrado ambientale argomentando non in termini di costi economici ma in termini di diritti territoriali, diritti umani, o sacralità. I linguaggi della valutazione spesso non sono trasferibili tra loro, non sono commensurabili.
Ma chi ha il diritto, o il potere, di imporre un particolare linguaggio di valutazione?
Conclusioni
I poveri non sono sempre ambientalisti, e gli ambientalisti non sono sempre poveri. Tuttavia, con lo spostarsi delle ‘frontiere delle merci’ in aree sempre più periferiche del mondo, sempre più si è andato delineando e globalizzando un movimento di giustizia ambientale che coinvolge le comunità rurali e indigene povere.
Le ingiustizie ambientali a loro volta non sono solo locali, ma anche globali, come il commercio ecologicamente iniquo (per esempio, l’esportazione di materie prime da paesi poveri, acquistate in loco a basso costo e poi vendute sul mercato globale a prezzi elevati) , o il debito ecologico (come l’uso sproporzionato dei serbatoi di carbonio – aria e oceani – da parte dei paesi più industrializzati) senza riconoscere, e tantomeno senza pagare questo uso squilibrato dei servizi degli ecosistemi.
Lo sforzo congiunto e sinergico di tanti diversi movimenti per la difesa dell’ambiente e per la giustizia sociale può contribuire a orientare le società e l’economia verso la giustizia sociale e la sostenibilità ecologica.
Martinez-Alier J. The environmentalism of the poor. Geoforum 54, 239–241, 2014.
(sintesi e traduzione: Elena Camino, Gruppo ASSEFA Torino – www.assefatorino.org)
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