La conta dei salvati
Anna Bravo, La conta dei salvati. Dalla Grande Guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato, Laterza, Bari 2013, pp. 245, euro 16,00
Noi siamo figli loro
In copertina parla una foto silenziosa: la bambina che, a Sarajevo, nella casa distrutta, protegge il suo bambolotto, con le manine raccolte e col bacio. È delicata e forte come la pace, fragile, timida, e felice, e vigile. Le fai subito un monumento (cioè: ammonimento), che non chiede piazza né marmo, ma solo il tuo sguardo nel suo sguardo, perché ti rimanga dentro, con la tenacia della speranza mai rassegnata.
Il nuovo libro di Anna Bravo, affermata storica della Resistenza civile, raccoglie documentati fatti di pace-dentro-le-guerre, di arte del “vivere e lasciar vivere” in mezzo alla fiera dell’uccidere: la terza via tra uccidere e morire, indicata dalle donne. «Tra uccidere e morire c’è una terza via: vivere» (Christa Wolf, Cassandra, Tascabili e/0, 1997, p. 147).
Non si tratta solo di memorialistica – certo anche questa, di cui l’Autrice, come altre storiche, è magistrale raccoglitrice, e tanto meno si tratta di leggende buoniste – ma di lavori e ricerche documentate in ogni pagina.
Dopo un’introduzione “Violenza, nonviolenza, storia”, i capitoli sono dedicati alle guerre evitate (anche da diplomazie e governi) tra ‘800 e ‘900, poi alle molte tregue spontanee e alle fraternizzazioni fra “nemici” da trincea a trincea nella guerra – che non era inevitabile – 1914-18 (l’anno prossimo la ricorderemo con mostre e convegni); un capitolo su Gandhi; due capitoli su “Senza armi contro Hitler” (il titolo della classica raccolta di Semelin), in Italia e in Danimarca; un capitolo sul Kosovo e uno sul Tibet.
La storiografia ufficiale rimbomba di guerre, ma, come la politica, in generale non ha occhi né orecchie (emblematica l’ignoranza della lunga esemplare resistenza nonviolenta del Kosovo, prima della guerra) per le arti della pace “invece” delle guerre, e persino “dentro” le guerre. Nessun libro sulle guerre balcaniche racconta la protezione reciproca tra alcuni villaggi bulgari e turchi.
La conta dei salvati (ma il vero più giusto titolo è Storie di sangue risparmiato) è un libro d’amore, ricco di documentazione, che “salva la vita” perché salva dalla rassegnazione disperata alla violenza, usurpatrice regina della storia; salva dal vedere la storia umana solo come quell’«immenso mattatoio» che dicono Hegel, Bobbio, e troppi altri. «Le guerre scoppiano quando si smette di cercare la pace», chiarisce Anna Bravo. Ci sono guerre evitate, c’è, prima e persino dentro le guerre, molto “sangue risparmiato”. Se ciò è possibile, se è tante volte avvenuto, allora è doveroso. Il principio “si vis pacem para bellum” è ridicolo e pericoloso come dire ad un alcolizzato “se vuoi guarire vivi in un pub”.
«E’ un’idea malsana – scrive Anna Bravo – che quando c’è guerra c’è storia, e non quando c’è pace. Il sangue risparmiato fa storia come il sangue versato». Non esagero se mi viene in mente ciò che scrive Leone Ginzburg dell’immenso affresco tolstojano: «Guerra è il mondo storico, pace il mondo umano», dove storia è la storia degli eserciti imperiali, non quella degli umani utilizzati come loro gambe, tra i quali c’è Andrej e c’è Karataev.
Come nei suoi lavori precedenti, Anna Bravo ascolta e racconta con amore e scienza questa storia della vita contro la morte. Dice che la nonviolenza non è onnipotente, ma è potente.
C’è, anche dentro le guerre, una nonviolenza senza nome e senza teoria, senza saper nulla di Gandhi, che è l’istinto umano profondo del non uccidere, del non distruggere, perché solo a questa condizione si vive da umani. Questo libro è una intelligenza illuminata sul bene della storia, sulla pace sottostante a tutti i mali e i dolori, nascosta alla vista breve dell’occhio del potere, della storiografia di corte e di accademia. La violenza è da denunciare e da smontare nei suoi meccanismi materiali e psicologici, proprio perché la pace è possibile, e la guerra è stupida, sempre assolutamente senza ragioni proporzionate al danno che infligge, come sa l’intelligenza dei semplici e delle donne.
Annita Santemarroni non è medaglia d’oro, perché è già d’oro la sua vita, portata a morire a Mauthausen, colpevole di aver fatto vivere, lei madre di figli altrui in pericolo. Perché aiutare chi ha bisogno di tutto, rischiando tutto? «Non c’è che fa’: s’à da esse boni», risponde una contadina ciociara, senza medaglia, né nome nei patrii annali.
Mi pare che una tesi del libro sia questa: il sistema internazionale può essere pacifico, la guerra non è mai inevitabile. Allora, perché scoppia? L’industria degli armamenti, e l’idea fallace che le armi difendano, per cui si affamano i popoli per supernutrire gli eserciti antropofagi, insieme alla patologia della paura aggressiva, insieme al calcolo cinico dei profitti di guerra, insieme alla insufficiente convinzione nei popoli del loro potere di veto nonviolento, con la non-collaborazione: queste cause accumulate accendono i fuochi di guerra.
L’aumento degli armamenti riduce la sicurezza (lo mostrava già Kant, e lo dimostra la vita privata nelle società più armate, come gli Usa). Diamo per un momento ancora la parola a Christa Wolf: «Non esiste una pace armata. La pace o è disarmata o non è pace – qualsiasi cosa uno pensi di dover difendere. Per due volte, in questo secolo, dalla “pace armata” è nata la guerra, e ogni guerra è stata più dura della precedente. Brecht disse esattamente la stessa cosa negli anni Cinquanta: “Se non ci armiamo avremo la pace; se ci armiamo, avremo la guerra”. Non vedo come si possa pensarla diversamente» (da Premesse a Cassandra).
Il capitolo su Gandhi demitizza il Mahatma, non per screditarne (come fa Domenico Losurdo) il lascito di esperienza e di possibilità che ci ha consegnato, ma per farlo risaltare realisticamente attraverso i concreti limiti personali. (Così fa anche Giuliano Pontara in AA.VV., Tra etica e politica. Nuovi saggi su Gandhi, Editrice Apes 2013).
Dice Anna Bravo, nel dibattito avvenuto presso il Centro Studi Sereno Regis, che la seconda guerra mondiale non l’ha vinta nessuno: può essere stata necessaria, tardivamente necessaria, ma non giusta. Un libro di storia come questo, che percorre il secolo lungo di guerre vecchie e nuove, è una contestazione nei fatti di quella violenza filosofica, di quella antropologia militaresca, che afferma la violenza come il vero sé dell’essere umano. L’uomo è indotto e si lascia indurre alla violenza contro l’uomo, ma è ugualmente capace di riconoscersi nel nemico. Come quel fante tedesco traumatizzato che urla: «Vedete il nemico laggiù? Ha un padre e una madre. Ha una moglie. Io non lo uccido».
I vincitori, i generatori di umanità sono questi, i tantissimi che hanno negato la guerra inceppando dall’interno il suo meccanismo mostruoso, per arrivare domani a demolirlo. Noi siamo figli loro.
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