Il Paese più corrotto – Pietro Polito
Secondo stime attendibili il costo della corruzione nell’Unione Europea equivale ogni anno pressappoco all’intero budget dell’Unione: 120 miliardi di euro. In Italia, secondo la Corte dei Conti, raggiunge i 60 miliardi. Le cifre parlano chiaro: siamo “i più corrotti dell’Occidente”.
Secondo il “Corruption Perception Index”, che dal 1995 viene stilato da “Trasparency International”, il nostro paese nel 2001 era al 29° posto su 91 paesi esaminati, nel 2010 è sceso al 67° posto collocandosi tra Ruanda e Georgia. L’unico paese occidentale che tocca un analogo livello di corruzione è la Grecia.
Accade oggi: il governo della Regione Lazio è affondato nell’abuso privato del denaro pubblico, la Finanza è entrata negli uffici regionali dell’Emilia e del Piemonte, un assessore regionale in Lombardia è stato arrestato perché comprava i voti direttamente dalla ‘ndrangheta, Reggio Calabria è stata commissariata perché i clan comandavano la cosa pubblica.
Scrive il direttore di “Repubblica” Ezio Mauro: “Siamo davanti a un pervertimento della politica, divenuta per molti un mestiere, un sistema di collocamento ad alta rendita, dove spariscono valori, ideali, tradizioni e difesa di interessi legittimi, i quattro elementi che fanno muovere le bandiere di un partito e parlano ai cittadini, offrendo identità, testimonianza, partecipazione e rappresentanza. Qui si ruba per comandare e si comanda per rubare. La politica troppo spesso è ridotta a strumento del potere, meccanismo di supremazia, sistema di garanzia. Le istituzioni, invase e dominate in molte parti d’Italia da questa nuova classe di potentati famelici, diventano semplicemente il luogo fisico dove avviene questo scambio sotterraneo e continuo tra una politica disincarnata da ogni dignità e l’arricchimento dei singoli o delle loro bande”.
Perché siamo i più corrotti dell’Occidente?
Ragioniamo. Qual è la ragione più profonda del dilagare della corruzione? Il berlusconismo?
Giustamente Michele Ciliberto denuncia la stagione berlusconiana come “una regressione alla natura della dimensione civile e sociale”. In questo senso il berlusconismo è stato “un incentivo alla corruzione”. Ma subito dopo, in una prospettiva storica più larga, lo studioso non si e non ci nasconde che per sconfiggere la corruzione “occorre impegnare una lotta sul piano dell’ethos, dell’autocoscienza civica, etica e anche religiosa della Nazione”.
La malattia è più grave, riguarda ambiti più vasti, sia pure in diversa e maggiore o minore misura tocca e la destra e la sinistra, per curarla non basterà estirpare la mala pianta del berlusconismo, in cui Norberto Bobbio ha visto acutamente “l’autobiografia della nazione”.
La malattia italiana – trasformismo, cortigianeria, unanimismo, la ricerca permanente di protezioni e di transazioni – ha radici ben più antiche.
In questo Paese l’aggiramento della legge e l’impunità anche a livello popolare sono diventate un diritto acquisito secondo la stragrande maggioranza degli italiani. Alla concezione etica del voto – “il voto è una premessa, una pregiudiziale necessaria della personalità” (Piero Gobetti) – è subentrata una considerazione pratica del voto né più né meno come una merce da scambiare, tanto che la compravendita dei voti come di altri beni materiali e morali viene percepita come una normale manifestazione della logica del mercato.
Dal confronto tra sette paesi (non solo l’Italia, dunque, ma il nostro è il Paese europeo che ha il più vasto grado di ramificazione territoriale della criminalità) emerge che il panorama delle democrazie si è popolato di figure sconcertanti: boss degli enti pubblici, cassieri di partito, portaborse, professionisti protetti, burocrati con tessera di partito.
Secondo Donatella Della Porta e Yves Meny, sia i politici d’affari sia i cittadini-clientes sono convinti che è “giusto” considerare le risorse pubbliche alla stregua di risorse private (Corruzione e democrazia, Liguori, Napoli 1995. Di Della Porta vedi anche Lo scambio occulto, il Mulino, Bologna 1992).
Sta qui l’essenza della corruzione politica, che è da un lato “uno scambio di decisioni pubbliche per denaro” e dall’altro “uno scambio di favori per suffragi elettorali”.
La storia stessa della democrazia sembra dare ragione a uno dei suoi più accaniti nemici. In uno dei libri più antidemocratici mai scritti, Considerazioni sulla violenza (1909), Georges Sorel scrive: “L’esperienza mostra che in tutti i paesi in cui la democrazia può sviluppare liberamente la sua natura viene alla luce la più scandalosa corruzione, senza che nessuno ritenga utile il dissimulare le proprie mascalzonate.” Paragonando l’etica democratica all’etica del mercante e la democrazia alla borsa, Sorel prosegue: “La democrazia elettorale assomiglia assai al mondo della Borsa; nell’un caso come nell’altro, occorre operare sulla ingenuità delle masse, comprare l’appoggio della grande stampa, e aiutare il caso per mezzo di una infinità di astuzie; non vi è una grande differenza tra un finanziere che introduce sul mercato affari che fanno molto chiasso e che andranno a picco nel giro di pochi anni, e il politicante che promette ai suoi concittadini una infinità di riforme che non sa come fare a ottenere e che si convertiranno soltanto in una pila di scartoffie parlamentari”.
Sembra di sentire non so se un Di Pietro o un Grillo, quando Sorel afferma che il politicante e il finanziere hanno lo stesso scopo: “tosare il contribuente senza che questi si rivolti” oppure quando senza mezzi termini scrive che democratici e uomini d’affari usano gli stessi metodi e “hanno una scienza tutta particolare per fare approvare le loro furfanterie alle assemblee deliberanti”.
Non è stato inventato nulla.
Già all’inizio del secolo scorso l’autore delle Considerazioni sulla violenza pensava che “il regime parlamentare è truccato allo stesso modo delle riunioni di azionisti” e che “probabilmente è per via delle attività psicologiche profonde, derivanti da questi modi di operare, che gli uni e gli altri [i democratici e gli affaristi] si intendono in maniera tanto perfetta”.
La democrazia italiana avrebbe ampiamente confortato lo scrittore francese nella sua convinzione che “la democrazia è il paese della cuccagna sognato dai finanzieri privi di scrupoli”.
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