UN’ALBA CUPA: ECCO LA NUOVA ERA NUCLEARE

Jake Lynch

Friends of the Earth (Amici della Terra), l’associazione di protezione ambientale con sede nel Regno Unito ha salutato, quasi con giubilo, il piano del governo britannico annunciato questa settimana per consistenti tagli nell’emissione di gas-serra. Una nota d’agenzia stampa citava il direttore esecutivo Andy Atkins:

“Gli annunci odierni sono un passo importante verso la creazione di un futuro a basso tenore di carbonio, sicuro e pulito”.

Il ministro dell’ambiente Ed Miliband prevede entro il 2020 un taglio del 34% rispetto ai livelli d’emissione del 1990 — il ‘biglietto d’oro’ di un arduo obiettivo transitorio richiesto dai partecipanti alla campagna — da conseguirsi mediante una “triade energetica” di fonti rinnovabili, quali i venti e le maree, l’uso del carbone ‘con cattura di carbonio’ e centrali nucleari di nuova generazione. Costruirle e farle funzionare entro il prossimo decennio sarebbe “difficile”, secondo un editoriale del verdeggiante «Guardian», ma da “perseguire energicamente”.

In Australia, frattanto, un servizio d’indagine del «Sydney Morning Herald» chiariva che Peter Garrett, omologo di Miliband ed ex-rock star ambientalista, aveva approvato una proposta per una nuova miniera d’uranio fatta da un “miliardario solitario” di nome James Neal Blue. Blue, indicava il giornale, era “uno dei maggiori trafficanti d’armi” e fornitore, mediante la sua azienda General Atomics, dell’aereo-robot Predator in uso nelle guerre in Afghanistan e Iraq.

La nuova miniera Four Mile, nell’Australia del Sud, utilizzerebbe la stessa “tecnica a corrosione da acido” per estrarre uranio dalle falde, ha scritto il reporter d’ambiente Ben Cubby, della vicina miniera di Beverly, di cui si sono registrati 59 distinti sversamenti di materiale radioattivo nello scorso decennio. Cubby non ha sollevato il punto, ma allo stesso tempo sono affiorate concrete paure che l’Australia del Sud potrebbe rimanere a corto d’acqua, con la sua capitale Adelaide afflitta dalla salinità e dalla siccità. Sembrerebbe che lo sfruttamento di una risorsa ad alto valore di mercato avesse la precedenza sulla conservazione di una risorsa con proprietà vitali uniche.

Cionondimeno, nel suo editoriale l’«Herald» osservava che il “mondo è cambiato” dai verdi anni di Garrett come indiscusso uomo di punta del suo gruppo musicale, Midnight Oil, allorché si opponeva sia all’estrazione di uranio sia all’alleanza militare con gli USA. Aprire un’ “importante fonte di reddito con l’esportazione” dalle più importanti riserve mondiali australiane di minerale d’uranio yellowcake era “logico”, continuava il giornale, dato il potenziale d’abbattimento del riscaldamento globale dell’energia atomica. Sembra quindi che l’opposizione all’energia nucleare sia effettivamente ammutolita, in quanto le preoccupazioni per l’inquinamento e i danni agli ecosistemi per le attività minerarie lasciano il passo a quello che l’Herald ha chiamato “un drammatico cambiamento nel dibattito”.

Al momento sto partecipando a una conferenza presso l’Università di Melbourne intitolata ‘Giornalismo nel 21° secolo’, e ho avuto il privilegio di ascoltare una collega giornalista divenuta accademica, Barbie Zelizer, riguardo la “cannibalizzazione della memoria” da parte di potenti interessi, intenti a calpestare “schemi mnemonici” particolari, locali – l’opposizione comunitaria a sviluppi minerari, per esempio – in favore di narrazioni “globali” incapsulate, in questo caso, nel titolo dell’editoriale «Herald»: “il mondo s’inclina verso l’uranio”. Troppo spesso, asseriva Zelizer, il giornalismo si dimostra servo di tali progetti, facendo sparire senza tanti scrupoli dalle prime pagine aspetti importanti della conoscenza relegandoli nei bui recessi della memoria collettiva.

Sarebbe tempo allora di ripescare alcune sfumature che altrimenti rischiano di venire dimenticate, ma che sono state utilmente enfatizzate in due nuovi libri, Plutonium: A History of the World’s Most Dangerous Element [Plutonio: una storia dell’elemento più pericoloso al mondo] di Jeremy Bernstein (Cornell University Press) e In Mortal Hands: A Cautionary History of the Nuclear Age [In mani mortali: una storia ammonitrice dell’ era nucleare] di Stephanie Cooke (Black Inc Books).

Fra le affascinanti notizie del primo c’è la storia di come Otto Hahn venne a sapere di essere stato insignito del premio Nobel per la chimica: da un giornale britannico consegnato a Farm Hall, dov’era internato con parecchi colleghi tedeschi alla fine della seconda guerra mondiale. Ciò avvenne poco dopo l’esplosione di due bombe atomiche sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, e Hahn – onorato per la scoperta della fissione nucleare – cadde in profonda disperazione per le implicazioni del suo lavoro di una vita.

Fra le altre dramatis personae nella piacevole narrazione di Bernstein ce ne sono alcune il cui nome il lettore generico può ricordare dalle lezioni di fisica a scuola: Rutherford, Bohr, Becquerel e Röntgen. Le riviste scientifiche vengono descritte come “monumentali” o “magistrali”.

L’eccitazione per i loro exploit, che penetravano sempre più a fondo nei segreti dell’atomo, è ovviamente smentita dalle gravi conseguenze. Un altro punto di svolta giunse nel 1942, nel progetto nucleare americano, che appaiò e sorpassò il suo rivale tedesco, quando “l’esercito, nella persona del generale Leslie Groves, requisì e radunò tutte le opportunità disponibili”.

Bernstein stesso è un attore secondario nella storia che racconta, la sua preoccupazione, durata tutta la vita, per la fisica nucleare si manifestò nel torrido deserto del Nevada, al culmine della guerra fredda nel 1957, quando assistette a un test nucleare e tenne in mano il nucleo di una bomba atomica. Lavorava presso il laboratorio nucleare militare di Los Alamos, prima di optare per una carriera accademica e iniziare a collaborare per il «New Yorker».

L’elemento centrale delle armi più letali dell’umanità è il plutonio, e Bernstein descrive la scienza che conduce alla sua produzione finale in quantità sufficienti a fabbricare bombe, evocandone gli intrighi lungo il percorso seguito dai protagonisti in fuga dalla persecuzione nazista e diretti a ovest, attraverso i confini della Mitteleuropa. Il plutonio è un sottoprodotto dei reattori nucleari civili, e Bernstein termina con un sarcastico commento sulla sua assoluta inutilità salvo che per scopi militari. Dalle quantità iniziali di laboratorio misurate in milionesimi di grammo, il mondo è ora “inondato” da 155 tonnellate di plutonio.

Il problema è come liberarsene, e qui è dove gli apostati, come Peter Garrett e /Friends of the Earth/, dovrebbero urgentemente consultare le loro banche della memoria. La Gran Bretagna, per esempio, tuttora non ha definito un singolo sito di stoccaggio a lungo termine delle scorie dei suoi attuali impianti nucleari. Il costo, ora stimato a ben oltre 70 miliardi di sterline, ossia circa 120 miliardi di dollari, è stato rifilato al governo, mentre le attraenti opportunità di nuovi impianti, con i loro flussi di profitti garantiti, vengono assegnate al settore privato come forma di sostegno aziendale.

Il guaio è che nessuno vuole scorie nucleari sull’uscio di casa. Per resistere, con la prof. Zelizer, alla cannibalizzazione della mia memoria, ricordo di aver partecipato, da adolescente loquace, all’incontro inaugurale di HAND, Humberside Against Nuclear Dumping che riuscì a impedire un progetto di stoccaggio a South Killingholme, un villaggio sulla riva sud dell’estuario dell’Humber. In seguito, il governo Blair, al culmine della sua popolarità nei primi anni di questo secolo, propose, per poi lasciarlo cadere, un ‘documento verde’ per esentare le decisioni di localizzazione strategica dall’incombenza di negoziare procedure di pianificazione locale.

Oltre Atlantico, il reattore Hanford che produceva plutonio per Los Alamos è stato “messo in naftalina” da lungo tempo, come fa notare Bernstein. Quando era ancora in funzione, fu nascosto il rischio di perdite a valle del reattore a danno di nuotatori e pescatori lungo il fiume Columbia, ma ora esso costituisce una bomba a orologeria da 10 miliardi di dollari che potrebbe — forse — essere resa relativamente sicura all’incirca entro sei anni.

Bernstein si ferma prima di entrare nel merito delle questioni filosofiche più profonde sollevate da questi eventi. Si limita invece a citare la valutazione di uno degli scienziati coinvolti, secondo il quale la guerra costava mezzo milione di vite al mese, e doveva essere decisamente fermata.

C’è dell’altro in merito, ovviamente, e per un’ulteriore esplorazione dobbiamo rivolgerci alla “storia ammonitrice dell’era nucleare” di Stephanie Cooke. Lei accetta come possibile necessità razionale l’uso di una bomba per terminare le ostilità, ma due? La vera ragione per la seconda, dice, era per dimostrare potere, e la disponibilità a usarlo, giacché “la prima nazione a far scoppiare un’arma basata sull’energia all’interno dell’atomo avrebbe controllato il mondo”. Inoltre, lo spirito di apertura che aveva permesso il fiorire di una libera democrazia era ora relegato al passato: “per il nuovo ordine, erano essenziali sicurezza e segreto. L’America divenne una nazione segreta, al tempo stesso temibile e paurosa”.

Il suo libro prova quindi a sollevare il coperchio sui calcoli politici, e le motivazioni e i dubbi umani, dietro la versione ufficiale delle panacee dell’era nucleare. Le centrali atomiche dovevano produrre elettricità “troppo a buon mercato per doverla misurare”, e Cooke solleva il punto sicuramente essenziale: il loro vero scopo era conquistare l’accettazione pubblica, come ‘vantaggio aggiuntivo’ fortuito, di un arsenale in rapida espansione per dimensioni e potenziale distruttivo.

Oggi, Gran Bretagna e Australia sono entrambe membri del Nuclear Suppliers Group, che l’amministrazione Bush sfruttò per insidiare il Trattato di Non-Proliferazione passando combustibile nucleare all’India, simultaneamente tentando di frustrare qualunque ‘ambizione’ nucleare da parte dell’Iran. Nel frattempo la Gran Bretagna è in procinto di sostituire i suoi missili installati sui sottomarini Trident – un momento opportuno, forse, perché l’energia fissile acquisti una nuova faccia sorridente.

Cooke incontra Joseph Rotblat, il fisico che abbandonò il Progetto Manhattan e fondò il gruppo Pugwash, dedito a promuovere la comprensione fra le superpotenze: prova, nella sua traiettoria personale, che non era affatto inevitabile da parte degli scienziati acconsentire a mettere la loro conoscenza al servizio di fini marziali. E Cooke racconta dei vani sforzi diplomatici sotto la guida di Henry Kissinger per evitare che Israele acquisisse capacità nucleari, perché, come diceva lui stesso, era “più propenso di quasi qualunque altro paese” a usarle.

I nemici giurati di Kissinger a Washington, i neo-conservatori, alla fine ebbero il loro momento di successo, naturalmente, e Cooke conclude considerando la caduta, con l’amministrazione Bush, delle soglie per il primo uso delle armi nucleari da parte degli stessi USA. In campo civile, il “rinascimento nucleare” ora in corso crea un mercato lucrativo per i fornitori d’uranio come l’Australia, ma osserva Cooke, moltiplica anche il rischio di incidenti e di proliferazione.

Abbiamo bisogno di una rete di siti di stoccaggio sotto controllo internazionale, sostiene Cooke, in cui poter depositare i sistemi d’arma da smantellare. E ci serve “un programma aggressivo di ricerca delle soluzioni per soddisfare la futura domanda di energia”, che indaghi sulle fonti alternative all’energia nucleare e sia caratterizzato dal mettere in evidenza il pericolo della possibile costruzione di armi nucleari.

La fissione nucleare, un artefatto della modernità, rappresenta una grande conquista di progresso, ma potrebbe por fine a tutta la vita umana. Tale paradosso ha contribuito più di ogni altro a sospingerci in uno condizione post-moderna, in cui siamo più pessimisti circa la capacità umana di plasmare il mondo circostante. Saremo in grado di passare attraverso l’era nucleare per creare un più sicuro futuro condiviso? Azzarderei di sì, possiamo, forse in definitiva per motivi non migliori di quelli espressi da Ernest Rutherford, citato da Bernstein, quando gli chiedevano di giustificare la sua valutazione di un nuovo esperimento: “Lo sento nella mia acqua!” Tuttavia, stando alle tendenze in atto, l’esatta composizione chimica di quell’acqua, qui in Australia, potrebbe essere più ardua da predire.

Questo articolo è un adattamento di una recensione di libri apparsa nel «Sydney Morning Herald» di sabato 18 luglio 2009


COMMENTARY ARCHIVES, 17 Jul 2009 Jake Lynch

Titolo originale: A DARK DAWN: THE NEW NUCLEAR AGE IS WITH US

Traduzione italiana a cura di Miki Lanza per il Centro Sereno Regis