La Liberazione e vecchi e nuovi fascismi

Amedeo Cottino

«Dopo la liberazione, i fascisti rialzano la testa e incominciano le denunce contro i partigiani» (Nuto Revelli)

Cento anni fa, il 15 aprile a Milano, Filippo Tommaso Marinetti arringa una piccola folla di borghesi, di fascisti, di Arditi. È il poeta che, con il suo Manifesto del futurismo nel 1909, aveva celebrato la distruzione dei musei, delle accademie di ogni specie, aveva esaltato la guerra – da lui definita sola igiene del mondo -, il militarismo, aveva celebrato il disprezzo per la donna. Ma il 15 aprile è anche il giorno in cui centinaia di migliaia di proletari sono radunati all’arena di Milano a respirare l’aria di una possibile rivoluzione.

Ma da questa massa enorme si è staccato un corteo di qualche migliaio di persone che si dirige verso il centro. Lo scontro con i fascisti è inevitabile. Ed anche la sproporzione tra le due fazioni è enorme, il corteo dei socialisti ha la peggio: come ha commentato Scurati, «A scavare un abisso tra le due schiere entra un diverso rapporto con la morte». I fascisti sparano sulla folla, e poi la caricano, a bastonate. La strada si vuota e i fascisti ora si dirigono vero la sede dell’Avanti, il quotidiano socialista. Il locale viene devastato, i macchinari distrutti, l’edificio incendiato.

Perché ricordare quel giorno a Milano? Perché, a mio modo di vedere, è rappresentativo delle componenti fondamentali del fascismo: la violenza, il disprezzo per la cultura e l’esaltazione della guerra. Ma è anche l’anno in cui nascono molte di quelle donne e di quegli uomini che faranno l’altra Italia. L’Italia della Costituzione repubblicana. L’Italia dei diritti. Quella libertaria che si sarebbe espressa appunto nella Costituzione del 1° gennaio 1948. Ed è sempre l’anno in cui, qualche mese dopo, per l’esattezza il 22 luglio, nasceva Nuto Revelli, comandante partigiano, storico della seconda guerra mondiale e della resistenza, ma lui rifiutava il titolo di storico, affermando di essere un semplice testimone. Un testimone alla ricerca della verità. Poco più che ventenne, scriveva dal fronte russo:

«Cercavo la verità anche se mi feriva: tentavo di buttare il falso per far posto al vero, a costo di sentirmi l’animo vuoto ma pulito». (p.7).

Dunque una stessa data, ma due percorsi opposti. L’uno fondato appunto sulla celebrazione delle armi, sulla prevaricazione del forte sul debole, dell’uomo sulla donna, sul razzismo, sul disprezzo per la cultura; l’altra che avrà sul suo programma il rifiuto della guerra (Nuto scriveva dal fronte: «mai più una guerra!»), la solidarietà, il rispetto dell’Altro, del diverso. Che, soprattutto affermerà la centralità dell’umano, la sua universalità. Il primo nutrito di menzogne, il secondo orientato alla ricerca della verità. Una ricerca che costò moltissimo: ricordiamoli questi dati, quasi cinquantamila morti, trentamila deportati politici di cui 10.000 non fecero ritorno. Per non parlare degli ebrei deportati, dei deportati militari e dei costi pagati dalla popolazione civile, dalle Fosse ardeatine a Marzabotto, a Boves…

Oggi siamo qui a dialogare nuovamente con loro, con quei resistenti, e non soltanto perché lo riteniamo giusto, ma perché, con le testimonianze che ci hanno lasciato, è nostro compito, oggi più che mai, di riaffermarle quella verità, Anzi, di ridare loro quella luce che, col tempo, si è molto indebolita. E oggi più che mai dobbiamo farlo, ché, lasciatemelo dire, abbiamo il peggior governo ed il peggior clima di  intolleranza da quando il nostro Paese si è liberato dai nazifascisti.

Abbiamo un governo che nella sua componente più autoritaria e razzista – e che proprio per questi aspetti incontra purtroppo una crescente approvazione nell’elettorato italiano -fa pensare ad una continuità con gli anni della dittatura. Perché, badate bene, quegli ingredienti ci sono tutti, anche se, inevitabilmente in vesti diverse e pertanto non immediatamente riconoscibili. Allora erano visibili, erano oggetto di vanto, elementi portanti di quella nuova barbarie, ora compaiono qua e là come segni o segnali della presenza di una nera corrente sotterranea che mai ha smesso di scorrere, e se non siamo preparati, rischiamo di esserne travolti una seconda volta. Prenderò in considerazione tre aspetti di questa eredità.

Il primo, la violenza e il razzismo che l’accompagnano; il secondo, l’imbarbarimento culturale; il terzo l’accettazione della guerra come strumento di soluzione dei conflitti.

Partiamo dalla violenza. E qui voglio richiamare l’attenzione non tanto sui pur ripetuti episodi di aggressione al ‘diverso’ (rom e migranti) da parte di nazifascisti come Casa Pound o da singoli suprematisti, quanto sui rigurgiti razzisti dell’italiano comune. (forse anche ispirati da vergognosi precedenti, quali gli insulti rivolti da Calderoli ad una collega, nel sostanziale silenzio del Parlamento). Mi riferisco alle aggressioni verbali e non rivolte a donne, uomini e bambini, che non appartengono ad uno specifico gruppo, la cui unica colpa è il non essere bianchi. Sono senegalesi, ivoriani, indiani, pakistani e via discorrendo. Gli hanno urlato: negro di merda, puzzi di morto, potresti far schifo ai clienti.

Gli hanno ricordato che il loro colore è sbagliato: non vogliamo essere serviti da cameriere di colore; non voglio essere servita da un negro. Sono stati minacciati:mi fai schifo, ti taglio la testa. Sono stati aggrediti fisicamente: presi a calci e pugni, spintonati e gettati a terra. Gli hanno sparato, con l’intento di ucciderli.  Dal loro canto, neppure gli aggressori sembrano esibire qualche tratto specifico. Tra loro ci sono adolescenti – quelli che hanno proposto di dipingere di bianco il loro compagno di scuola, africano, dell’episodio di Bari – o che aggrediscono i bambini rom; ci sono donne che fanno la spesa al supermercato; ci sono clienti di ristorante; ci sono titolari di esercizi pubblici; ci sono conducenti di autobus di linea.

Non sono persone con caratteristiche particolari. Sono persone come noi. Certo, mi direte, sono episodi isolati. E che, dunque, è sbagliato generalizzare. E infatti ciò che preoccupa non sono loro, bensì coloro che hanno assistito alle aggressioni ed hanno girato la testa dall’altra parte. Sono gli spettatori. Non sapremo mai quanti sono, ma sappiamo per certo che sono troppi! Sono gli italiani in preda a due sentimenti che si rafforzano a vicenda: la paura, la paura del diverso da un lato, l’indifferenza dall’altro lato. La prima costruita ad arte dall’attuale classe politica. La seconda che esprime la perdita di valore dei legami sociali, il venire meno di quelle trame di solidarietà che ancora, nell’immediato dopoguerra, noi adolescenti avevamo percepito e che hanno reso, nella memoria, quella stagione la più felice della nostra vita.

E poi, ad ispirare e soprattutto a legittimare quegli atteggiamenti, la sistematica, calcolata politica di messa in mora della Costituzione, di smantellamento dello stato di diritto da parte degli attuali governanti. Perché di questo si tratta. Dico cose conosciute ma da appuntare.

Andiamo dalla delega ai cittadini ad autodifendersi – ma non dovrebbe  pensare lui a difenderci, il ministro degli interni proprio per il suo ruolo istituzionale?-, agli ordini al Capo della Polizia, al Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri, al Comandante Generale della Guardia di Finanza, al Capo di Stato Maggiore della Marina Militare e al Comandante Generale della Capitanerie di Porto di vigilare sulla nave “Mare Jonio”, per impedire che possa compiere altri salvataggi in mare, alle ordinanze dei Prefetti  che permettono alle forze dell’ordine di allontanare da alcune zone della città, le “zone rosse” appunto, chi è stato denunciato per percosse (uno schiaffo), lesioni, rissa, spaccio di stupefacenti. E chi ha ricevuto contestazioni relative alle regole del commercio. In pratica i venditori ambulanti. Denunciato, notate bene. Non chi ha violato la legge! Insomma, nelle migliori delle ipotesi un’apartheid all’italiana.

Nella peggiore uno spazio di arbitrio per allontanare chiunque abbia in qualche modo manifestato in pubblico il proprio dissenso, nel corso, ad esempio, di una manifestazione non autorizzata, o di un blocco stradale. E in linea con questa politica ricordiamo le ordinanze anti-barboni, a cui sindaci leghisti ricorrono sempre più frequentemente in nome del decoro urbano. Ordinanze che colpiscono gli ultimi degli ultimi, per affermare, attraverso la loro colpevolizzazione, che oggi, contro i principi fondamentali dello stato di diritto (primo fra tutto, l’habeas corpus, e cioè il diritto dell’arrestato di conoscere la causa del suo arresto e di vederla convalidata da una decisione del magistrato) basta essere colpevoli per ciò che si è (rom, migranti, comunisti?); non è necessario aver violato la legge. Precedenti che aprono lo spazio a qualunque tipo di arbitrio.

La guerra

Certo non sbandieriamo più il nostro esercito come il migliore del mondo, con quella becera arroganza dei discorsi dei generali alle sfilate ufficiali delle nostre truppe in partenza per il massacro russo, e neppure sappiamo quanto prudano le mani ai nostri generali dalla voglia di menarle. Ma le occasioni non sono mancate – vedi la guerra nella ex Jugoslavia – e a leggere le intenzioni del nostro padrone, gli Stati Uniti, le occasioni potrebbero non mancare. Perché noi siamo nella NATO, un’organizzazione che, come ha recentemente ricordato il più attento studioso della politica estera americana, Choussudowki, ha come obiettivo “l’occupazione militare dell’Europa occidentale”. Su altre parti del mondo hanno da tempo provveduto le 500 e passa basi militari.

E a qualcosa serviranno! E se non siamo ancora diventati ciechi del tutto grazie alle menzogne sistematiche della stampa borghese, non possiamo non vedere come la NATO, a comando statunitense, sta minacciando in misura crescente i delicati equilibri politici mondiali attraverso una politica aggressiva nei confronti della Russia. La versione ufficiale, naturalmente, è che è la Russia ad essere aggressiva. E noi produciamo armi, tante, e le esportiamo, a massacrare, ad esempio, le popolazioni civili dello Yemen.

Infine la cultura. Marinetti nel 1919 voleva distruggerla. Le biblioteche, i centri…  Noi, e non da oggi, ci siamo messi su quella strada, non soltanto attraverso un sistematico depauperamento delle risorse investite nell’Istruzione (siamo i penultimi in Europa in termini di investimenti) e nel totale abbandono dello straordinario capitale culturale storico del nostro Paese, ma anche più in generale in un diffuso disprezzo per tutto ciò che sa di cultura. Infatti oggi vogliamo chiudere i giornali, non quelli al servizio della borghesia e del capitale, ma quelli indipendenti (v. Il Manifesto e L’Avvenire) e spegnere quella voce – Radio radicale – che ha l’unico torto di raccontare ciò che la classe politica è disposta a farci sapere.

Certo, verranno colpiti anche i giornali di destra (ad esempio «Il Foglio»). Ma forse è la nota strategia di colpire nel mucchio per colpire qualcuno in particolare. Il linguaggio fa parte di questo imbarbarimento. Pensiamo ad esempio ad un termine come sgombero. Un tempo si sgomberavano magazzini, i garage, mansarde, e che so io. Oggi sgomberiamo donne e bambini, la cui unica colpa è di avere fatto valere il diritto costituzionale a un’abitazione, li sgomberiamo perché sono merci, ma merci non in vendita sul mercato, perché merci scadute.

In realtà, assistiamo da tempo a un vero e proprio ribaltamento della realtà. A spacciare come verità le menzogne. Emblematica è la lettura ufficiale della conclusione della prima guerra mondiale.  L’autunno scorso ne è stato celebrato il centenario. Ma quale vittoria?  I 650.000 morti, chiamati caduti? Per contare soltanto i nostri morti, perché i nemici non sono morti anche loro?  Eppure, riabilitazione della guerra, elogio del massacro, il tutto accompagnato dal rituale del milite ignoto tumulato, non a caso, nel vittoriano il 4 novembre del 1921.

Disattenzione: continuità con il passato

Pochi ci avevano messo in guardia. Tra questi, Nuto Revelli, che scriveva nel suo Le due guerre: «Dopo la liberazione, i fascisti rialzano la testa e incominciano le denunce contro i partigiani» e ancora come ha inizio l’epurazione nell’esercito: «nelle file del nuovo esercito è più gradito un fascista che un partigiano, che un sospetto comunista. Altro che nuovo esercito nato dalla resistenza, nato dalla lotta di liberazione». Non è un caso che chi coglieva questi segnali non si rassegnasse. C’è un episodio, poco noto ma assai significativo, l’episodio di Sante Libera: «una sessantina di partigiani, in una situazione ormai normalizzata, […], con armi e bagagli si sistemano a caposaldo, occupano una collina al confine tra le province di Cuneo e di Asti.

È il 20 agosto, e questi giovani partigiani, amareggiati per il provvedimento di amnistia che rimette in libertà i fascisti e per l’inadempienza del governo De Gasperi nei confronti delle rivendicazioni dei partigiani, decide di riprendere le armi per ottenere giustizia. È una manifestazione di protesta che rischia di estendersi a macchia d’olio, perché corre voce che i partigiani siano tornati in montagna. Pochi giorni, poi l’episodio si risolve con un compromesso, realizzato a Roma da Pietro Nenni vicepresidente del consiglio […],Tutto rientra nella norma». Insomma,  anche grazie alla stessa retorica ufficiale che molto presto ingessò, disumanizzandola, e rendendolo pertanto inoffensiva la Resistenza,  le pulsioni fasciste hanno continuato a vivere nel corpo della nostra società.

Sono ritornate malamente camuffate nella politica del Movimento Sociale Italiano (MSI), e nelle istituzioni, dove i vecchi fascisti hanno riconquistato le loro posizioni negli apparati dello Stato, dalla burocrazia alla giustizia. E non sollevò nessuno scandalo, nessuna voce indignata si alzò per denunciarla, una delle scelte più ignobili e più rappresentative del clima post liberazione, quando a capo della Corte Costituzionale dopo la Liberazione, venne eletto Lazzariti Gaetano, un signore che poteva vantare, nel suo curriculum, niente di meno che l’essere stato il Presidente del Tribunale per la purezza della razza.

Invertire la rotta

Invertire la rotta, ma come? Sicuramente è importante continuare a raccontare le storie di coloro che hanno cercato la verità. Vuol dire allora raccontare dei Revelli, dei Fillak, dei Galimberti, e prima ancora, dei Gobetti, dei Gramsci, dei Matteotti, dei fratelli Rosselli, e che nessuno venga dimenticato. Storie da ‘sbattere in faccia’ per svegliare i sonnolenti, per scuotere gli indifferenti, per convincere gli scettici, per rassicurare i paurosi, spiegando a tutti che non è mai tardi. Senza dimenticare che anche gli esseri comuni, gente come noi, hanno potere e possono fare storia.

Esempi passati lo dimostrano. La messa in sicurezza dell’intera comunità ebraica in piena occupazione nazista da parte di comuni cittadini danesi, il salvataggio di centinaia di antifascisti e di ebrei da parte degli abitanti di un villaggio del sud della Francia  occupata dalle truppe tedesche sono gli esempi più noti. Ci sono esempi oggi. Esempi importanti, straordinariamente esemplari come l’esperienza di Riace, un progetto messo in piedi dal sindaco Mimmo Lucano e dai suoi abitanti, che inizia alla fine degli anni 90, con i primi sbarchi. Un progetto dove lavoro, accoglienza e cultura condivisa dimostrano in maniera inconfutabile che l’integrazione è possibile e che ha successo, se si è disposti a rendere operanti i valori della nostra Costituzione anche se ciò può avere dei costi.

Perché dietro ogni Antigone c’è sempre un Creonte. E Antigone fa paura! Altrimenti come spiegare il feroce accanimento del Ministro degli Interni contro l’intero progetto e il suo sindaco? Ed è soltanto di qualche giorno fa la notizia che si sta per aprire un nuovo processo nei confronti di Mimmo Lucano, e che, naturalmente, il Ministero degli Interni si costituisce parte civile! Una violenza questa – perché di violenza si tratta – che sa di fascismo. E mi sento di dirlo con ragione di causa, perché io quella violenza l’ho vissuta e so dunque riconoscerla.

E poi, è doveroso menzionare almeno ancora un’altra vicenda, a proposito di gente comune. Quella del bar Hobbit di Ventimiglia, quando all’ordinanza del sindaco PD di Ventimiglia che vieta «la somministrazione di cibo ai migranti», ha risposto Delia, la titolare del bar, continuando a tenere aperto il suo bar ai migranti, per dare loro la possibilità di un panino e un luogo in cui sedersi e parlare. Delia diventa così, per i migranti, Mamma Africa. Ma, la sua scelta ha dei costi. A poco a poco, perde i clienti tradizionali e subisce anche insulti e minacce. Poi cominciano a mancare i soldi. La chiusura del bar è vicina. Ma la storia finisce sui giornali e sui social e finalmente si attiva una catena di solidarietà. Il bar Hobbit, per ora, è salvo, ma non bisogna abbassare la guardia.

Bene, queste storie – e tante altre di cui abbiamo sentito parlare – ci dicono che raccontare va bene, ma che la narrazione non può essere scissa dall’azione, dalla pratica, dalla militanza. Anche e forse soprattutto nel quotidiano, attraverso scelte che non mettano più al centro quella ingannevole parola che è il progresso, ma la natura con l’uomo dentro, all’insegna di un modello di sviluppo alternativo.

Il mio augurio pertanto è che questa sensazione forte che stiamo provando in questo momento, la sensazione di condividere una stessa visione del mondo e il consapevole orgoglio di possederla, ci accompagni nelle pratiche quotidiane e si trasmetta, come un felice contagio, ai nostri figli, ai nostri nipoti ai nostri amici.

E perché non fare nostra la piccola ma preziosa ribellione che ci suggerisce Vaclav Havel, scrittore, uomo politico, presidente della repubblica cecoslovacca, attraverso la bella metafora dell’ortolano – dell’uomo ordinario – nella società totalitaria? Costui, a un certo punto, decide di non più esporre, tra le sue verdure, il cartello che recita “proletari di tutto il mondo unitevi”. Egli ne ha riconosciuto la falsità e, con quel gesto, fa sapere che, da quel momento, non intende più vivere nella menzogna. A questo punto, una cliente che fa la spesa da lui nota l’assenza del cartello e, tornando all’ufficio, decide anche lei di togliere ciò che è affisso alla sua porta. E forse pure il collega dell’ufficio accanto rimuoverà il suo cartello. E forse…

Che non si debba nuovamente constatare che, come scriveva Giacomo Matteotti l’anno prima di essere assassinato (1924), «l’arbitrio si è sostituito alla legge, lo Stato asservito alla fazione, e divisa la nazione in due ordinamenti, dominatori e sudditi». Rifacciamolo nostro quello che Revelli ha chiamato il miracolo della resistenza, e continuiamo a seminare dei partigiani autentici, delle ’teste calde’. E diciamo tutti assieme: viva la Resistenza!

LACE S. Donato, xxv aprile 2019

La Liberazione


 

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