Rotta balcanica e umanità interrotta

Autrice
Serena Tarabini


A distanza di mesi dall’incendio del campo di Lipa, al confine tra Bosnia e Croazia poco o nulla è cambiato. Migliaia di migranti afgani e pakistani vivono in condizioni abominevoli lungo la rotta balcanica

Rotta balcanica

Umar ha 56 anni e viene da Meydan Shahar, una città dell’Afghanistan centrale molto vicina a Kabul. È un Hazara, gruppo etnico minoritario di origine turco-mongolica e di fede sciita, dedito prevalentemente all’allevamento e che nelle città costituisce un sottoproletariato oggetto di discriminazioni diffuse. In Afghanistan faceva il carrozziere e se ne è andato per motivi politici. «Mio padre è stato messo in prigione dai talebani due volte» racconta uno dei figli. «lo accusavano di parlare con i militari, lo consideravano una spia, lo minacciavano di morte». Si sono messi in cammino più di un anno fa e la loro meta è Francoforte. È una grande famiglia che dispensa sorrisi anche mentre racconta delle violenze subite dalla polizia croata durante l’ultimo tentativo di passare il confine pochi giorni fa.

SIAMO IN BOSNIA Erzegovina, ma sembra di essere su di un altipiano dell’Asia centrale. In una grande radura pianeggiante disseminata di tende e tappeti, uomini, donne e bambini dai tratti caucasici parlano, cucinano, lavano, riposano, giocano. Sono almeno 300, vengono tutti dall’Afghanistan, fra di loro etnie diverse, anche Pashtun. Ci troviamo a Velika Kladuša, sul confine con la Croazia e questo grande accampamento si è formato in primavera. A lato di un piccolo corso d’acqua, usato per lavarsi e cucinare, e di un tubo rotto che fornisce l’acqua da bere.

In tutto il cantone di Una Sana la presenza delle persone in transito è impressionante. Quelli noti sono almeno 4 mila, di cui più della metà fuori dai campi. Sono ormai parte del paesaggio. Li vedi accampati nei prati, a bagnarsi nei fiumi, a riposarsi o in cammino sul ciglio della strada, con gli zaini e i sacchetti della spesa. Sono per la maggior parte ragazzi afghani e pakistani, ma non mancano le famiglie con bambini come quelle dell’accampamento di Kladuša.

A PORTAGLI AIUTO in questo angolo sperduto della Bosnia Erzegovina c’è Alma, un’insegnante di inglese locale: lo fa da tre anni, da quando questo tratto di rotta balcanica si è intensificato investendo un paese povero ancora alle prese con le conseguenze della guerra dei Balcani. Inizialmente in maniera spontanea e informale, poi per evitare i problemi con la polizia, ha fondato un’associazione. Oltre a portare cibo e vestiti, lei e i suoi 5 soci hanno creato un servizio di lavanderia e delle docce. Cercano di fare tutto senza dare troppo nell’occhio, perché sentono su di loro la pressione delle autorità e della gente. «Io però non li biasimo. Anche fra la popolazione locale c’è molta povertà ed è comprensibile che non capiscano chi aiuta migranti. Ci vuole tempo, per noi questo è un fenomeno nuovo».

La gestione pubblica della presenza delle persone in transito è diventato un tema anche per le autorità bosniache. Negli ultimi tempi gli sgomberi degli insediamenti informali sono aumentati di frequenza. Anche realtà formalizzate, come il campo per soli uomini di Miral sempre a Velika Kladuša, chiuderà. Motivo? Si trova nel centro abitato. La stessa ragione per cui a Bihac, il capoluogo della regione, nel settembre 2020 le autorità cantonali decisero di chiudere il campo di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati di Bira, nella periferia della città, e trasferire le persone a Lipa, a 25 km di distanza nelle campagne.

DOPO L’INCENDIO del dicembre 2020 che ha portato sotto gli occhi inorriditi dei cittadini europei la catastrofe umanitaria che da anni si verifica alle sue porte, i migranti che si trovano a Lipa vivono nelle tende da campo messe a disposizione dalla Croce Rossa Bosniaca; gli unici bagni sono dei container sanitari riservati a chi ha problematiche dermatologiche, gestiti dall’associazione locale SOS Bihac; mentre delle docce e dei lavabi sono stati messi dalla Omg italiana Ipsia, che dentro il campo svolge anche attività di aggregazione, molto amate dai migranti, le cui condizioni sono disumane anche per la sospensione delle relazioni familiari e della appartenenza a una comunità. Altre fonti di una disperazione in cui non è facile trattenersi dal cadere.

Una nuova Lipa è in costruzione: con un po’ di ritardo rispetto ai tempi previsti entrerà presto in funzione. I soldi li ha messi l’Unione Europea, per un campo dalla capienza maggiore, da 1000 a 1500, che disporrà di acqua ed elettricità. La gestione passa da Oim, l’Organizzazione per le migrazioni delle Nazioni Unite, che ha ricevuto forti critiche per le condizioni del vecchio campo, all’Sfa, il servizio affari esteri bosniaco in campo al Ministero della Sicurezza.

ANCHE IN RELAZIONE a questo passaggio va probabilmente letto lo sgombero avvenuto in questi mesi dei grandi squat presenti all’interno della città, come la «Factory» o il «Dom Penzionera». Ex fabbriche abbandonate dove centinaia di persone in transito trovavano un tetto sulla testa e niente più e che ora, oltre che svuotate, vengono chiuse con le grate; come l’intensificarsi degli interventi della polizia nei confronti delle persone in transito che sono accampate nei boschi, le cosiddette «jungle», che secondo quanto ci segnalano sono diventati ordinaria amministrazione e vengono esibiti come trofei sulle pagine social delle forze di polizia locali; anche nel corso della nostra permanenza veniamo a sapere di uno sgombero in corso e ci rechiamo sul posto con gli operatori di JRS, Jesuit Refugee Service, il cui staff internazionale opera a Bihac dal 2018.

Nei pressi di una casupola senza finestre e dal tetto sfondato, tra i rifiuti e l’erba alta ci sono i 3 ragazzi che sono riusciti a sfuggire alla polizia correndo. Fra di loro c’è Mohammed, pakistano di 18 anni. Il suo viaggio è iniziato quando era ancora un bambino. 7 anni fa, assieme alla madre ha lasciato il Pakistan perché «dove vivevamo era come stare in guerra. Tutto il giorno avevamo a che fare con armi, terroristi, soldati, e poi le esplosioni, sempre»; è in una di queste esplosioni che suo padre è morto.

Il suo viaggio segue lo schema di sempre; Iran, Turchia, Grecia, Macedonia, Serbia e poi Bosnia Erzegovina, dove è arrivato due anni fa. Ha provato quello che tutti chiamano comunemente il game, il tentativo di passare il confine, più di 20 volte. Racconta di come la polizia croata gli abbia spezzato un braccio prima di scaricarlo di nuovo fuori dai suoi confini. Ci proverà ancora: «Vogliamo solo una vita normale, per favore non trattateci così». In quel luogo prima erano in 30, gli altri sono stati caricati su un autobus e portati a Lipa. Ma nei prossimi giorni torneranno, perché a Lipa i migranti non ci vogliono stare.

I MOTIVI SONO VARI: le condizioni non sono mai state accettabili, né prima né dopo l’incendio. Il cibo è poco e terribile. Ajmal, apolide in quanto la famiglia Afghana è dovuta scappare in Pakistan, racconta che per tutti i 40 giorni del Ramadan, durante il quale si digiuna nelle ore diurne, ha potuto mangiare solo riso bollito. E poi Lipa è nel mezzo del nulla, a decine di km dal primo centro abitato, l’alienazione totale. Infine, Lipa è fuori rotta. Per fare il game i migranti devono tornare a Bihac e quindi ripercorrere a piedi decine e decine di km.

ECCO PERCHÉ LE PERSONE in transito preferiscono accamparsi in un prato o occupare una casa abbandonata: per quanto le condizioni materiali siano più difficili, a volte terribili, hanno più libertà di movimento e autonomia. In alcuni casi questi accampamenti informali appaiono più dignitosi dei campi; tende solide regalate da qualche associazione, cucine comunitarie, teli di copertura, piccoli generatori fotovoltaici di corrente. Sempre che non arrivi la polizia a distruggere tutto, costringendoli a ricominciare da capo.

ALLA LUCE DI TUTTO CIÒ, il nuovo campo di Lipa risulta una pezza insufficiente e male in arnese; ma l’intenzione delle autorità bosniache è quella di renderlo il luogo di accoglienza per chiunque arrivi in Bosnia Erzegovina attraverso la rotta balcanica, andando incontro a quello che chiede l’Unione Europea e nascondendo il più possibile i migranti dagli occhi dei propri concittadini.


Fonte: il manifesto, 15 settembre 2021

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