L’unico mondo che abbiamo

Cinzia Picchioni

Wendell Berry, L’unico mondo che abbiamo, Piano B, Prato 2018, pp. 160, € 14,00

«La “disoccupazione”
è una diretta conseguenza
della sostituzione
dei lavoratori umani
con la tecnologia industriale
», p. 22.

L’unico mondo che abbiamoMa allora non sono sola – con pochi altri – a pensarla così! Allora non è un pensiero reazionario e passatista. Allora non è un errore attribuire sempre agli altri – in questo caso gli industriali cattivoni – la colpa di ciò che succede, anche noi vogliamo cambiare il frigorifero col modello più nuovo invece di farlo riparare (da un artigiano); anche noi compriamo le scarpe dai cinesi – fatte dalle macchine – invece di pagare un calzolaio per farci aggiustare quelle «vecchie»; anche noi facciamo corsi per usare il computer invece di imparare a cucire…

Dunque vediamo: ho aperto la recensione con quella frase perché ci racconta subito dell’autore, Wendell Berry. E spero che tutti voi che leggete conosciate il suo Manifesto del contadino impazzito, che racchiude il «Berry-pensiero» (e da quando l’ho letto anche il Cinzia-pensiero, se interessa qualcuno. E ringrazierò per sempre Wendell Berry).

Il libro che presentiamo questa settimana è una raccolta di 10 saggi scritti – e a volte «parlati», nel senso che li ha proposti in conferenze, dibattiti e discorsi – dal saggista, ambientalista, romanziere* Wendell Berry (1934). La meritoria casa editrice torinese Lindau ha deciso di pubblicare la sua opera, e la ringrazio dal cuore, perché in Italia non è abbastanza conosciuta.

* per chi fosse interessato ai romanzi di Wendell Berry, sarà pubblicata qui una segnalazione di Un posto al mondo, ora disponibile presso la Biblioteca del Centro Studi Sereno Regis (oltreché nelle librerie).

Guerra/Terra

Ne scriviamo qui, tra le «pagine» del sito del Centro Studi Sereno Regis, anche – e non solo – per alcune fulminanti riflessioni sulla violenza, come questa, a pagina 29 del libro:

«La sostituzione delle nostre fattorie a conduzione familiare con le tecnologie derivate dall’industria bellica ha implicato una violenza contro la terra e contro le persone, una violenza apparentemente accettabile e generalmente accettata. Con ciò abbiamo stabilito un’analogia tra uso della terra e guerra, che persiste con eccezionale coerenza nelle nostre attuali guerre e nelle loro tecnologie trasferibili di “precisione”, osservazione e controllo remoto. Ciò che le unisce è un terribile pragmatismo che assegna un predominio assoluto del fine sui mezzi, in sprezzo – o in completo oblio – di qualsiasi legge naturale o morale che possa frapporsi come ostacolo. Nelle economie industriali della terra, dall’agricoltura all’estrazione mineraria, qualsiasi cosa nasca dalla terra e che non possa essere venduta viene trattata alla stregua di un nemico, incluse le comunità umane e naturali».

O come quest’altra, sulla guerra, a pagina 21:

«La soluzione – ovviamente folle, assai più difficile e complessa – sarebbe quella di smettere di considerare la guerra come unica via per la pace; smetterla di ritenere il danno permanente all’ecosfera come unica strada per la ricchezza».

O ancora questa, sulle armi, a pagina 107:

«[…] non c’è alcuna differenza significativa tra le armi di distruzione di massa e le tecnologie della produzione industriale».

O infine, sulle macchine, a pagina 37:

«[…] l’andatura più congeniale al pensiero agrario e alla sua sensibilità è il camminare. È l’atto più idoneo all’osservare con attenzione, più prudente nell’uso della terra e delle attrezzature, e il più disponibile al fermarsi a guardare o pensare. Macchine, multinazionali e politici corrono. I contadini che osservano i loro campi vi camminano a piedi»

Pace e società industriale

Negli Stati Uniti (L’autore vive a Port Royal, un villaggio lungo il fiume Kentucky, nell’omonimo Stato) esiste un riconoscimento – il Dayton Literary Peace Prize – conferito ad autori che abbiano promosso – con il loro lavoro letterario – la causa della pace tra i popoli. Wendell Berry lo ha ricevuto nel 2013, e ne fu grato. Ma un po’ stranito: «C’è qualcosa di strano, dopotutto, nel conferire un premio legato alla pace a un qualsiasi membro di una società industriale, poiché l’economia industriale – dall’agricoltura alla guerra – è di gran lunga la più violenta che il mondo abbia mai conosciuto, e perché tutti noi tutti siamo complici di questa violenza», p. 106.

Ma poi da lì, durante la cerimonia di consegna del premio ricevuto, Berry fa tutto un discorso che coinvolge la bomba atomica, la difesa, la sicurezza nazionale, la fame, la violenza, la libertà, la privacy e Snowden! Bene dunque che abbia ricevuto quel premio, che l’abbia ritirato e che abbia còlto l’occasione per dire la sua.

E noi? Come siamo?

Un cattivo guardaboschi
va nel bosco pensando a ciò che potrebbe estrarre.
Un buon guardaboschi
va nel bosco pensando a ciò che dovrebbe lasciarci, p. 136

Non è lo stesso anche per tutti noi quando andiamo «nella natura»? Andiamo nel bosco e dobbiamo raccogliere qualcosa (a volte andiamo solo per raccogliere qualcosa). Andiamo in montagna e dobbiamo «prendere» qualcosa (sciare, per esempio). Andiamo al mare e dobbiamo «fare» (acquascooter o altro). Andiamo al lago o al fiume e dobbiamo pescare… Andiamo in alta montagna, dove non c’è niente da raccogliere? Dobbiamo «prendere» le immagini, fotografando… Siamo proprio dei predatori… guardare, annusare, «sentire» i luoghi non è previsto. Salire su una montagna e poi sedersi a contemplare ciò che si vede non è… contemplato (appunto!). Dobbiamo (vogliamo) sempre fare qualcosa. Essere non siamo capaci. Vogliamo risultati.

Un po’ di Vangelo…

L’autore riassume in un verso evangelico alcuni dei suoi modi di pensare, e ci ricorda che: «”non siate dunque in ansia per il domani” è sempre un ottimo consiglio» (p. 147). E invece com’è il consumatore ideale, tanto caro alle multinazionali? Berry ce lo ricorda in Quarta di copertina, quasi che tutti possano leggerlo, per vedere se si riconoscono:  «Preoccupato per la salute, spaventato dalla morte, annoiato, insoddisfatto, vendicativo, ignorante, avido e ingenuo».

… e un po’ di lodi agli Amish

Non potevano mancare alcune pagine dedicate alle comunità Amish «di questo paese» [quello di Wendell Berry, NdR], con frasi poetiche come questa: «[…] se vi capita di guidare attraverso una delle buone comunità Amish, vedrete un sacco di persone indaffarate e fuori di casa. Vedrete che hanno onorato i loro luoghi con i segni visibili di un buon lavoro svolto con amore». E ripenserete con acuita tristezza alle “aziende”, quasi sempre deserte, fatte di migliaia di acri di mais e soia» (p. 45).

Un inventario

Meraviglioso l’inventario (anzi un inventario) «di risorse che abbiamo a portata di mano e che ci potranno essere d’aiuto nel tentativo di migliorare. Wendell Berry lo introduce con queste parole: «[…] Voglio solo mostrare che abbiamo a disposizione abbastanza, e che dobbiamo solo prestarvi attenzione (p. 64)!

  1. Guardare come fa la natura e prendersi cura della terra
  2. Considerare l’agricoltura tradizionale o contadina (Vandana Shiva)
  3. Lo Stato e l’economia dello Stato dipendono dalla terra
  4. Preservare le competenze e le buone pratiche di agricoltura e selvicoltura (sopravvissute nelle comunità Amish e non solo)
  5. Impegnarsi in economie locali, sì, anche nella città e nei dintorni. Produrre cibo anche in città
  6. Biologico, non più «eccentrico»
  7. 50 Year Farm Bill (erosione del suolo, tossicità, perdita di biodiversità, distruzione delle comunità rurali) è una proposta che esiste da circa 6 anni [quindi dal 2009. Il libro originale è del 2015, NdR]
  8. Sistema economico/amministrativo più inclusivo e onesto, guardando alla base economica in natura: ci sono costi da contabilizzare, come l’inquinamento dell’acqua (che andrebbero riversati sulle industrie che inquinano e sui loro clienti)
  9. Rinnovare e applicare il nostro imperativo culturale di amore verso il prossimo e verso il lavoro».

Due proposte

Attraverso un meccanismo di pensiero perfettamente oliato e rigoroso, il grande filosofo? Saggista? Agricoltore? Ivente sulla Terra? Pensatore? Ecologista? Wendell Berry giunge a formulare una proposta, fin nei dettagli (pp. 78ss.):

«[…] se la terra e le persone dovranno essere salvati, essi sarano salvati dalle comunità locali […] in modi che sono sociali, conviviali e generosi, ma anche pratici ed economici […]: 1. Dovremmo respingere l’idea – promossa da politicanti, commentatori ed esperti vari – che […] le soluzioni ultime siano politiche. Se il nostro progetto è […] salvare la terra e le persone, il vero lavoro dovrà essere fatto localmente; 2. […] dovremo riuscire a pensare a “soluzioni eleganti basate sull’unicità di ogni luogo”; 3. Le idee dominanti della nostra attuale e assai distruttiva economia nazionale e internazionale sono: competizione, consumo, globalismo, redditività aziendale, efficienza meccanica, progresso tecnologico […] – e in tutte queste è implicita l’approvazione di una violenza accettabile contro la terra e gli uomini. Noi […] dobbiamo pensare di nuovo a cose come reverenza, umiltà, affetto, familiarità, vicinato, cooperazione, frugalità, appropriatezza e fedeltà locale: ci riporteremo al meglio del nostro patrimonio. Ci riporteremo a casa; 4. Anche se molti dei nostri peggiori problemi sono decisamente grandi, essi non richiedono per forza grandi soluzioni. Molte delle modifiche necessarie dovranno essere compiute nelle vite individuali, nelle famiglie e nelle comunità locali; […] 8. Ogni comunità e regione deve conoscere il più esattamente possibile il proprio fabbisogno di prodotti locali; […] 11. […] sviluppare associazioni di proprietari terrieri e lavoratori per la pianificazione dell’uso del suolo […]».

Coprire la terra

La proposta è semplice: «tenere il terreno coperto, e tenercelo, preferibilmente, con colture perenni». Questo intento è contenuto nella proposta «50 Year Farm Bill*» del Land Institute di Salina, in Kansas.

Wendell Berry ha raccontato – qui tra p. 141 e p. 146 – gli scopi del 50 Years Farm Bill durante un discorso (nel 2012) in 21 punti da leggere assolutamente: scopriremo che l’80% della superficie agricola è coltivata con piante annuali e solo il 20% «gode della benefica copertura delle perenni» (p. 144); che per «colture perenni» si intendono foraggi e cereali; che se invertissimo queste percentuali si ridurrebbero le arature, praticandole solo in «terreni meno vulnerabili», riducendo così anche l’erosione del suolo; diminuirebbe anche l’inquinamento agricolo, perché le perenni sono più autosufficienti e hanno meno bisogno degli aiuti chimici rispetto alle monoculture annuali.

Non vi sembra tutto logico? Anzi, eco-logico?

Il 50 Year Farm Bill si basa sulle leggi per la conservazione del suolo proposte da Albert Howard alla metà del Novecento. Ma molti ambientalisti non conoscono nulla di questo, pur essendo preoccupati del cambiamento climatico.

Diciamo a loro – e a tutti noi – che il 50 Year Farm Bill «definisce un programma di riforme che potrebbe essere avviato subito e che aiuterebbe a mitigare il cambiamento climatico: però deve iniziare ora» (p. 151). Wendell Berry diceva queste parole nel 2013. Son già passati 6 anni da quell’«ora».

* 50 Year Farm Bill «vuole affrontare i problemi più urgenti del nostro modello dominante in agricoltura: erosione del suolo, inquinamento tossico della terra e dell’acqua, perdita di biodiversità, distruzione delle comunità agricole e delle culture» (p. 144).

Preso in mezzo

Il capitolo VI, Preso in mezzo (del 2013), mi ha fatto venire nostalgia di quando si parlava così (e forse si pensava così?). Perché sembra impossibile, oggi, disquisire su temi così scabrosi – l’aborto e il matrimonio omosessuale – nel modo che troviamo in quasi 20 pagine? Pacatamente, filosoficamente, personalmente ti ritrovi coinvolto nel pensiero di Wendell Berry. Ti sembra di vedere, nel suo cranio trasparente, la mente che lavora (ammesso che il pensiero sia nel cervello…) e così, seguendo il lavorìo, segui anche tu la tua mente, e dietro alle parole di Berry ti trovi a dire: «e già… è così…», ma poi «è anche così…» e poi «sì anch’io ho pensato così» e infine «può essere…». Ti trovi d’accordo con tutto il suo ragionamento che è – e resta –,  rigorosamente, senza conclusioni definitive. Due temi così delicati, squisitamente intimi e personali, non possono (non dovrebbero?) avere conclusioni. Come conclude Wendell Berry: «Dovrei aggiungere che potrei trovare ulteriori ragioni per rivedere la mia posizione. Credo che possedere un cervello comporti anche la possibilità di cambiare idea» (p. 96).

Dobbiamo sperare di arrivare a pensarla così a 84 anni? Non possiamo provarci anche prima? Forse, sia per parlare, sia per scrivere, dovremmo adottare il sistema di Wendell Berry, che fa «riposare le parole» prima di mandarle in giro?

Riposo alle parole

Si ferma, Wendell Berry, dopo aver scritto, a lasciar riposare le parole per due giorni, «per capire se quel che ho scritto sia giusto». Capito? Noncome si fa oggi: scorrere le dita (senza più nemmeno la fatica di «battere» – ora si dice «digitare», già meno impegnativo) su uno schermo, velocissimamente e poi «invio», cosicché il web è pieno di stronzate impulsive, comprese le notizie false, comprese le cattiverie. Non sentite che  hate speech è più delicato di «cattiveria»? Hate speech sembra quasi una cosa carina. Intanto perché è inglese – e quindi più cool – e poi perché il significato non è proprio chiaro-chiaro, così anche noi siamo più manipolabili (influenzabili?) non possedendo davvero un termine. Io continuo a pensare che «notizia falsa» sia più evidente, e mi fa indignare di più, e mi sembra che faccia più danni di «fake new», che sembra un marchio di abbigliamento!

Le parole sono importanti. E vanno spiegate, e non sminuite. Vanno s-piegate, appunto, e non nascoste nelle pieghe più profonde di una lingua straniera (per esempio…).

Fine+fine

Il libro termina pieno di speranza e con una delle più belle «fini» che conosca, e che riporto, per mettere fine a questa lunga recensione:

«[…] uno solo di noi, oppure pochi tra noi, possono iniziare a risparmiare energia proprio ora, grazie all’autocontrollo, alla consapevolezza e ricorrendo alla virtù perduta della frugalità. Spendere meno, bruciare meno, viaggiare meno, può essere un sollievo. Una vita più fredda, più lenta, può renderci più felici, più presenti a noi stessi […], un grande problema potrebbe essere risolto nella pratica da molte piccole soluzioni […]. Il governo, alla fine, potrebbe fare la cosa giusta e iniziare a imitare la gente. […] Solo il bene presente è vero bene. È la presenza del bene – buon lavoro, buoni pensieri, buoni atti, buoni luoghi – a renderci consapevoli che il presente non deve essere un incubo del futuro. “Il regno dei cieli è vicino” – poiché se non è vicino non è da nessuna parte» (p. 154).


 

2 commenti
  1. cssr_dibattit0
    cssr_dibattit0 dice:

    Grazie per la recensione che fa proprio venire la voglia di leggerlo questo libro… ma del resto, e lo dico da grafico, sarebbe stato sufficiente vedere la semplicità e l'eleganza della copertina. Complimenti all'editore!

    Rispondi

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