Come mai si sono aperte le porte dell’inferno in Vietnam?

Jonathan Schell

Per mezzo secolo abbiamo discusso sulla “Guerra del Vietnam.” E’ possibili che non sapessimo di che cosa stavamo parlando? Dopo tutto quello che è stato scritto (circa 30.000 libri e altri ce ne saranno), sembra quasi impossibile, ma sembra che sia successo proprio questo.

Ora, nel suo libro Kill Anything that Moves [Uccidete qualunque cosa che si muove], Nick Turse per la prima volta ha messo insieme un quadro completo scritto con maestria e  dignità, riguardo a quello che le forze militari americane facevano in Vietnam. Quello che ha scoperto dischiude una verità quasi inenarrabile. Componendo meticolosamente informazioni riservate rilasciate di recente, documenti della corte marziale, rapporti del Pentagono, e interviste di prima mano fatte in Vietnam e negli Stati Uniti, nonché resoconti di stampa contemporanei e documentazione secondaria, Turse scopre che episodi di devastazione, omicidi, stupro e tortura, una volta considerati atrocità isolate, erano invece la norma, che andava ad aggiungersi a un flusso continuo di atrocità che si realizzano un anno dopo l’altro, in tutto quel paese.

E’ stato un grande successo di Turse aver visto che, grazie al carattere speciale della guerra, la sua realtà più importante – un quadro completo accurato di quello che stava fisicamente accadendo nella realtà – non era stato mai costruito; che con immaginazione e anni di tenace lavoro questo si è potuto realizzare; e che perfino mezzo secolo dopo l’inizio della guerra si potrebbe ancora fare. Turse riconosce che, perfino adesso, non ne sappiamo abbastanza da poter presentare questo quadro in termini statistici. Di sicuro Turse offre un sacco di numeri — per esempio  le incredibili  stime che durante la guerra circa due milioni di civili sono stati uccisi e cinque milioni feriti, che gli Stati Uniti  hanno eseguito 3,4 milioni di missioni aeree e che hanno impiegato  30 miliardi di libbre di munizioni, rilasciando l’equivalente della forza esplosiva di 640 bombe di Hiroshima.

Tuttavia non sarebbe bastato accumulare semplicemente delle prove aneddotiche di maltrattamenti, per cui, mentre fornisce un gran numero di resoconti di prima mano, lo ha integrato con  questo metodo. Come un tessuto, una realtà sociale  – una città, un’università, una rivoluzione, una guerra – hanno un modello ha uno schema e una una trama. Nessun fatto è come un’isola. Ognuno è ricco di implicazioni, che, per così dire,  si estendono   all’area più vasta dei fatti  che gli stanno attorno. Quando alcuni  di questi altri fatti sono confermati, essi iniziano a rivelare proprio il modello e la  trama in questione.

Turse ci invita ripetutamente a chiederci che tipo di quadro più ampio implica ciascuna storia. Per esempio  scrive:

“Se un uomo e la sua piccola squadra potevano rivendicare do avere più KIA (killed in action), persone uccise durante un’azione rispetto a un intero battaglione, senza alzare bandiere rosse tra i superiori; se un comandante di brigata poteva aumentare il conto dei cadaveri scegliendo e uccidendo impunemente  dei civili dal suo elicottero; se un generale poteva istituzionalizzare le atrocità per mezzo dell’uso sregolato  di un’ enorme potenza di fuoco in zone affollate di civili, —allora che cosa ci si doveva aspettare che accadesse lungo le linee, specialmente tra giovani fanti pesantemente armati e impegnati sul campo per settimane, arrabbiati, stanchi e spaventati, spesso non in grado di localizzare il nemico  e tuttavia  sotto l’implacabile pressione  di uccidere?”

Come una rete che si stringe, la ragnatela di storie e di rapporti presi da una miriade  di fonti si fonde in un ritratto convincente, inesorabile di questa guerra, E’ un ritratto che, in quanto americani, non si desidera vedere, che, avendolo visto si desidera di poter dimenticare, ma che non si deve dimenticare, e che i fatti ci costringono a vedere e ricordare e tenerne conto quando ci si chiede che cosa hanno fatto e che cosa sono stati gli Stati Uniti nello scorso mezzo secolo, e che cosa stanno ancora facendo e che cosa sono ancora.

Terra bruciata nel territorio controllato dalla I Armata

 Il mio angolo di visuale su questi argomenti è molto particolare. All’inizio dell’agosto 1967, sono arrivato nella zona assegnata alla I Armata, il distretto più a nord  delle operazioni militari americane in quello che allora era il Vietnam del sud. Ero lì per raccontare per il settimanale New Yorker la “guerra aerea”. L’espressione era una denominazione impropria. Il nemico vietnamita, naturalmente, non aveva risorse aeree nel Sud e quindi non c’era alcuna “guerra” di quel genere.

C’era soltanto il bombardamento unilaterale della terra e della gente da parte dall’immenso schieramento di velivoli radunati dagli Stati Uniti in Vietnam. Questi andavano dai B-52 che preparavano un modello di distruzione lungo un miglio e largo come diversi campi da calcio, ai cacciabombardieri in grado di far cadere, oltre ad altro, bombe da 500 libre e bombe al napalm, ai DC-3 “riconfigurati”  e attrezzati con un cannone in grado di sparare 100 colpi al secondo, alle onnipresenti flotte di elicotteri, grandi e piccoli, che affollavano i cieli. Tutto questo era appoggiato dal continuo fuoco di artiglieria nelle zone “a fuoco libero”* e da bombardamenti condotti dalle navi  ancorate poco lontano dalla costa.

Quando sono arrivato, la distruzione dei villaggi nella regione e il trasferimento degli abitanti in squallidi campi profughi si stavano completando. (Tuttavia, spesso tornavano ai loro villaggi

che erano saltati per aria, ora soggetti al fuoco indiscriminato dell’artiglieria.) Soltanto poche piccole zone di villaggi sopravvivevano. Sono stato testimone della distruzione di molti villaggi nelle province di Quang Ngai e di Quang Tinh, seduto sul sedile posteriore di piccoli aerei Cessna che si chiamavano aeroplani di Controllo Avanzato.

Mentre galleggiavamo nel cielo da un giorno all’altro, osservavo schiere di case incendiate una dopo l’altra, man mano che le truppe si spostavano nella zona delle operazioni. Nel frattempo i membri della Aviazione di Controllo Avanzato chiedevano  attacchi aerei via radio alle truppe di terra. Nelle operazioni in periodi precedenti, gli abitanti dei villaggi erano  stati portati fuori dalla zona e ammassati nei campi profughi. Questa volta, invece, non era stata ordinata alcuna evacuazione e le popolazione era stata oggetto della furia totale di un assalto di terra e di aria. Una società rurale veniva fatta a pezzi davanti ai miei occhi.

Gli ampi risultati delle azioni militari nella zone della I Armata erano quindi visibili e misurabili dall’alto. Nessuna politica di terra bruciata era stata annunciata ma il risultato era comunque la terra bruciata. Mancava, tuttavia, dal puzzle, un enorme pezzo.  Non ho potuto essere testimone della maggior parte delle operazioni significative sul terreno.  Ho cercato di intervistare alcuni soldati che però non hanno parlato, anche se uno ha fatto cenno a delle azioni misteriose. “Non mi crederebbe, e quindi non le dirò nulla,” mi ha detto. “Nessuno scoprirà mai alcune cose, e dopo che questa guerra sarà finita,  e tutti saremo tornati a casa, nessuno ne saprà mai nulla.

In altre parole, come così tanti inviati in Vietnam, ho visto principalmente un’angolazione  della guerra. Quello che ho visto è stato terrificante, ma non è bastato a servire come base per la generalizzazione della condotta della guerra nel suo insieme. Soltanto pochi anni dopo, nel 1969, grazie ai tenaci sforzi di un soldato coraggioso, Rod Ridenhour e alla determinazione di un inviato, Seymour Hersh,  è venuto alla luce un pezzo della verità nascosta sulle operazioni di terra nella zona della I Armata.

E’ stato il massacro di My Lai nel quale sono stati uccisi 500 civili a sangue freddo dalla Compagnia Charlie, primo battaglione, 20° fanteria, della Divisone americana. Negli anni successivi, notizie di altre atrocità nella zona, sono filtrate nella stampa, spesso molti anni dopo il fatto. Per esempio, nel 2003, il quotidiano dell’Ohio Toledo Blade, ha rivelato una campagna di tortura e omicidi durante un periodo durato mesi, compresa l’esecuzione sommaria di due uomini ciechi da parte di una squadra di “perlustrazione” che si chiamava Squadra Tigre. Non è emerso, tuttavia, un quadro complessivo della generalità delle operazioni di terra in quella area.

E’ stato soltanto con la pubblicazione del libro di Turse che la realtà quotidiana di cui queste atrocità facevano parte è stata portata alla luce in modo così completo. Quasi immediatamente dopo che le truppe americane sono arrivate nella zona della I Armata, si instaurò un modello di barbarie. Viene fuori che My Lai  era stata eccezionale soltanto per il numero di persone uccise.

Turse  parla  di un massacro avvenuto nel 1967 in un villaggio che si chiama Trieu Ai, come paradigma. Una compagnia di Marine aveva sofferto la perdita di un uomo a causa di una trappola    esplosiva vicino al villaggio, che in verità era stato in gran parte incendiato da altre forze americane pochi giorni prima. Alcuni abitanti del villaggio erano comunque tornati a cercare le loro cose. La compagnia dei Marine, furiosa per la perdita, ma incapace di trovare il nemico, è entrata nel villaggio sparando con i loro fucili da assalto M-16, e incendiando qualunque casa che fosse rimasta intatta, e buttando le granate nei rifugi antiaerei.

Un marine ha condotto a passo di marcia una donna  in un campo e le ha sparato. Un altro ha riferito che  c’erano dei bambini nei rifugi che stavano facendo esplodere. Il suo superiore gli ha risposto:”Cazzi loro, tanto crescono per diventare VC [Vietcong].” Cinque o dieci persone sono uscite di corsa dal rifugio quando vi hanno buttato una granata. Sono stati abbattuti da una pioggia di spari. Turse osserva:

“Nella storia di Trieu Ai, si può praticamente vedere l’intera guerra in scala minore. Qui ci sono stati i bombardamenti aerei  ripetuti e il fuoco dell’artiglieria…Ci sono state le case dei contadini incendiate deliberatamente, e il trasferimento degli abitanti dei villaggi nei campi profughi… Le truppe furiose  preparate a colpire,  spesso in seguito a perdite nell’ambito dell’unità; i civili intrappolati sui sentieri e gli ufficiali che nel campo ingiungevano ordini ambigui o illegali a giovani uomini addestrati a ubbidire – quella era la ricetta base per molti omicidi di massa eseguiti da soldati dell’esercito e dai marines nel corso degli anni.”

La barbarie spesso arrivava al massimo della depravazione: torture gratuite, uccidere come esercitazione di tiro al bersaglio, massacri di bambini e neonati, stupri di gruppo. Considerate le seguenti azioni fin troppo tipiche della Compagnia B, primo battaglione, 35a Brigata di fanteria, iniziate nell’ottobre 1967:

“La compagnia si è imbattuta per caso  in un giovane disarmato. ‘Qualcuno lo ha catturato su una collina, e lo hanno portato giù e il luogotenente ha chiesto chi voleva ammazzarlo—’ il medico Jamie Henry ha detto in seguito agli inquirenti dell’esercito.  Un operatore radio e un altro medico si sono offerti volontariamente di farlo. L’operatore ha dato al ragazzo  un calcio nello stomaco e il medico lo ha portato dietro una roccia e ho sentito il deposito di armi  saltare automaticamente…’

Pochi giorni dopo questo incidente, dei membri di quella stessa unità hanno trattato in modo brutale un anziano fino a fargli venire un collasso, e poi lo hanno buttato già da un dirupo senza neanche sapere se era morto o vivo…

Un paio di giorni dopo, hanno usato un uomo disarmato per esercitarsi al tiro al bersaglio…

E meno di due settimane dopo, presumibilmente,  membri della Compagnia B hanno ucciso cinque donne disarmate.

I membri dell’unità hanno ripetuto una litania di altri atti brutali commessi dalla compagnia…[compresa] una donna viva a cui hanno tagliato un orecchio mentre il suo bambino di pochi mesi è stato buttato per terra e calpestato…”

 Gonfiare il numero dei cadaveri

 Le scoperte di Turse hanno completato il mio quadro della guerra nella regione della Prima armata. Qualunque possa essere stata la politica in teoria, la realtà, sul terreno e in aria, era la terra bruciata che ho osservato dagli aeroplani del Controllo Aereo Avanzato. Qualunque cosa pensassero di fare gli Stati Uniti nella Zona I, in effetti facevano una guerra sistematica contro la gente della regione.

Ed era così, come Turse dimostra con la sua voluminosa documentazione, in tutto il paese. I dettagli erano diversi da zona a zona, il quadro era lo stesso di quello nella zona della I Armata. Un esempio tipico era la guerra nel Delta del Mekong, dove vivevano di circa 5-6 milioni in un’area di meno di 15.000 miglia quadrate percorsa da fiumi e canali. Nel febbraio 1968, il Generale Julian Ewell, che presto sarebbe stato noto ai vietnamiti e agli americani come “il Macellaio del Delta,” assunse il comando della 9a divisione di fanteria.

Nel dicembre del 1968 ha avviato l’Operazione Speedy Express. La sua specialità che equivaleva a un’ossessione, era quella di incrementare il “conteggio dei corpi”, ordinato dall’alto comando come misura dei  progressi nella sconfitta del nemico. In teoria soltanto i soldati uccisi dovevano essere inclusi in quel conteggio, ma, – come chiunque, soldato o inviato che passava mezz’ora nel campo imparava rapidamente – praticamente ogni vietnamita ucciso, molti dei quali chiaramente civili, veniva incluso nel totale. Più alto era il “conteggio dei corpi” di un ufficiale, più probabile era la sua promozione. I civili che  consegnavano dei conti alti, erano compensati con mini-vacanze. Ewell  voleva   aumentare la proporzione dei presunti soldati nemici uccisi rispetto ai soldati americani uccisi. La pressione a fare questo è stata aumentata a tutti i livelli della 9a divisione. Uno dei suoi capi era “diventato una furia”, secondo le parole di un successivo capo.

I mezzi erano semplici: aumentare immensamente la forza di fuoco già sconcertante che veniva usata e allentare le “regole di ingaggio” già molto permissive, ordinando, per esempio, altre incursioni notturne. In un tipico episodio notturno, gli aerei di appoggio Cobra hanno mitragliato, volando a bassa quota, una mandria di bufali d’acqua e sette bambini che se ne prendevano cura. Sono morti tutti, e sono stati calcolati come soldati nemici uccisi durante un’azione.

Le proporzioni delle uccisioni sono “debitamente”  salite da un 24 “vietcong”, cifra già sospettosamente alta, per ogni americano morto a quella assolutamente surreale di 134 vietcong per ogni americano. La irrealtà, tuttavia, non stava semplicemente nel numero gonfiato di uccisioni, ma nelle identità dei cadaveri che,  in maniera preponderante, non erano soldati nemici, ma civili. Un “sergente preoccupato” che protestava per l’operazione con una lettera anonima all’alto comando in quel periodo, descriveva i risultati  poiché ne era stato testimone:

“Un battaglione ne ammazzava forse da 15 a 20 al giorno. Dato che c’erano 4 battaglioni nella brigata, faceva da 40 a 50 al giorno o 1200-1500 al mese, il conto è facile. (Un battaglione ha rivendicato quasi un conto di 1000 corpi in un mese!). Se ho ragione solo al 10%, e, credetemi, è molto di più, allora sto cercando di parlarvi di 120-150 uccisioni, o di un equivalente di My Lai ogni mese per circa un anno.”

Questa gamma di stime è stata confermata da analisi successive. Le operazioni nella zona della I Armata forse dipendevano di più dagli attacchi della fanteria  appoggiati da attacchi aerei, mentre l’operazione Speedy Express dipendeva di più da incursioni fatte con gli elicotteri e dalla richiesta di cifre alte di corpi, ma i risultati erano gli stessi: guerra indiscriminata, non controllata  da calcoli o dall’umanità, contro la popolazione del Vietnam del sud.

Turse ci ricorda che anche al di fuori del campo di battaglia, la violenza occasionale – come per esempio l’uso di camion militari per investire i vietnamiti che erano per strada,  apparentemente per divertimento – era diffusa. I termini più comuni usati per i vietnamiti  erano gli epiteti razzisti: “musi gialli”, “stupidi”, “occhi all’ingiù”. La macchina militare statunitense era inoltre integrata da un sistema carcerario americano-sudvietnamita ugualmente brutale dove la tortura era un procedimento normale e le esecuzioni extragiudiziali erano comuni.

Come è successo? Come mai un paese che crede di essere guidato da principi di decenza ha permesso che iniziasse di colpo tale barbarie e  che poi continuasse per più di dieci anni?

Perché, quando i primi marine sono arrivati nella I Armata, all’inizio del 1965, così tanti hanno messo da parte quasi immediatamente le regole della guerra, e anche tutti i normali scrupoli e sono scesi  fino ai più bassi livelli di barbarie? Quali catene di causa ed effetto hanno collegato le “migliori e più brillanti” delle massime università dell’America e le imprese che stavano gestendo la guerra, con l’uccisione di quei ragazzi custodi di bufali nel delta del Mekong?

Come si sono aperte le porte dell’inferno? Questa è una domanda diversa da quella che viene spesso fatta: come gli Stati Uniti sono entrati in guerra?  Non pretendo di iniziare a fare giustizia in questa sede. Il mal di mare morale e cognitivo che ha  accompagnato  la guerra del Vietnam dall’inizio ci influenza ancora. Tuttavia, Uccidete  qualsiasi cosa che si muove, ci permette, finalmente, di formulare la domanda almeno alla luce dei veri fatti del caso.

Le riflessioni sembrerebbero certamente regolari per un paese che, fino  dal Vietnam, ha fatto del suo meglio per disimparare perfino quelle lezioni imparate da quella sconfitta, in preparazione per altre guerre sbagliate come quelle in Iraq e in Afghanistan. Qui, comunque, ci sono alcuni pensieri offerti come se si pensassero a voce alta.

La guerra fittizia e quella reale

 Grosso modo da quando è stato rivelato il massacro di My Lai, la gente ha dibattuto se le atrocità della guerra erano il prodotto delle decisioni prese dalla truppe sul terreno o di decisioni di alta politica,  di ordini emessi dall’alto, se erano “aberrazioni” o “operazioni.” La prima scuola di pensiero ovviamente si presta al ragionamento della mela marcia in mezzo a quelle sane, incolpando le unità individuali per il comportamento inaccettabile e allo stesso tempo scagionando chi era più in alto, la seconda tende a scagionare i soldati mentre dà la colpa ai loro superiori.

Il libro di Turse dimostra che le mele sane erano completamente  marce. Discredita una volta per tutte la scuola della “aberrazione” e tuttavia non offre esattamente appoggio neanche  alla scuola degli ordini dall’alto. Forse il problema è sempre stato che queste alternative delineavano la situazione in modo impreciso. Il rapporto tra politica e pratica in Vietnam si scopre che era di gran lunga più peculiare di quanto indichino le due scelte.

Si dice spesso che la verità sia la prima vittima della guerra. In Vietnam, tuttavia, non è solo che gli Stati Uniti facevano una cosa mentre ne dicevano un’altra (per esempio distruggere i villaggi e allo stesso tempo sostenere di proteggerli), per quanto  fosse vero. Piuttosto, dal suo inizio, la struttura della guerra era determinata dal tentativo di sovrapporre un racconto ufficiale falso a una realtà di un carattere totalmente diverso.

Nella guerra ufficiale, la popolazione del Vietnam del Sud, resisteva ai tentativi dei nord vietnamiti di conquistarli nel nome del comunismo mondiale. Gli Stati Uniti li stavano semplicemente assistendo nella loro lotta patriottica. In  realtà, la maggior parte della gente del Vietnam del Sud, in quanto avevano una mentalità politica, erano nazionalisti che cercavano di estromettere i conquistatori stranieri: prima i francesi, poi i giapponesi e successivamente gli americani, insieme al loro stato cliente, il governo del Vietnam del Sud, che non è stato mai capace di sviluppare una sua forza in una terra che presumibilmente gli apparteneva. Questa finto racconto ufficiale non è stato aggiunto in seguito per mascherare dei fatti sgradevoli: è stato inserito  nell’impresa fin dall’inizio.

Di conseguenza la collisione tra la politica e la realtà è avvenuta per la prima volta sul terreno, nel villaggio di Treu Ai e altri simili. Le forze americane, compresi i comandanti locali, hanno fronteggiato una realtà che coloro che definiscono le politiche non avevano affrontato e non avrebbero affrontato  per molti lungi anni. Ipotizzando di essere accolti come salvatori, le truppe si sono trovate in un mare di ostilità quasi universale.

Nessun manuale era stato distribuito a Washington per occuparsi della situazione inaspettata. E’ stato lasciato ai soldati decidere che cosa fare. Hanno iniziato a improvvisare in tutto il paese. In questa maniera si può davvero dire che la politica si faceva sul campo. Tuttavia, non era nei poteri delle truppe capovolgere la politica di base; non avrebbero potuto, per esempio, ritirarsi da tutta l’impresa mal concepita. Potevano solo reagire alle circostanze inaspettate nelle quali venivano a trovarsi.

Il risultato  metteva insieme una missione incomprensibile e impossibile ordinata dall’alto (per avere “i cuori e le menti” di una popolazione già in grande maggioranza ostile, e polverizzando allo stesso tempo la loro società) e concepita come illegale a livello locale, ma talvolta ordini vaghi che lasciavano ampio spazio per un’improvvisazione sul terreno spontanea, spinta dalla rabbia. Da questa frattura  tra la finzione dell’alta politica e la realtà della guerra reale è nato l’assalto inutile, ripugnante, contro il popolo vietnamita.

Il carattere di improvvisazione di tutto questo, come Turse mette in risalto, si può vedere nel fatto che mentre  le violenze contro i civili erano diffuse, non erano però coerenti. Turse riassume ciò che gli aveva detto, decenni dopo, l’abitante di un villaggio situato in una zona che era stata trattata con brutalità: “Delle volte i soldati statunitensi distribuivano caramelle. Delle volte sparavano alla gente. A volte attraversavano i villaggi senza toccare nulla. Altre volte davano fuoco a tutte le case. Non capivamo il motivo per cui agivano in quel modo.”

Insieme alla guerra ufficiale immaginaria, cresceva quindi la vera guerra sul terreno, quella che Turse, per la prima volta, ha descritto in maniera adeguata.   Non è una difesa di ciò che è accaduto far notare che, per le truppe, non erano tanto gli ordini che ricevevano dall’alto ma le circostanze  – quelle che Robert J. Lifton ha chiamato “situazioni che producono atrocità –  che hanno prodotto il loro comportamento da degenerati. Questo resoconto non fornisce una scappatoia alla responsabilità degli architetti della guerra; senza le loro politiche cieche e distorte queste situazioni infernali non si sarebbero mai verificate.

Per una ulteriore amara ironia, questa guerra reale a un certo punto è diventata  parzialmente codificata ai sempre più alti livelli di comando in politiche che si traducevano in ordini dall’alto. In effetti i generali, gradualmente, anche se in modo assurdo, alla luce degli ipotetici scopi della guerra- autorizzavano e promuovevano la guerra de facto contro la popolazione. Metteteci il generale Ewell e i suoi conteggi dei corpi.

In altre parole, l’improvvisazione arrivava alla catena di comando fino a quando i soldati seguivano degli ordini quando uccidevano i civili, sebbene, come nel caso di Ewell, quegli ordini assumevano esattamente quella forma. Ciononostante, i generali talvolta esageravano nel formulare queste nuove regole, anche quando erano in flagrante contraddizione con le politiche ufficiali.

Per dare  un esempio fornito da Turse, nel 1965 il generale William Westmoreland, che nel 1964 era stato nominato comandante delle forze statunitensi in Vietnam, ha implicitamente dichiarato guerra alla classe contadina del Vietnam. Ha detto:

“Finora la guerra è stata caratterizzata dal fatto che una sostanziale maggioranza della popolazione rimaneva neutrale. L’anno scorso abbiano visto una escalation verso una maggiore intensità della guerra. Questo provocherà un momento di decisione per il contadino agricoltore. Dovrà decidere se restare in vita.”

Come i suoi sottoposti, anche Westmoreland stava improvvisando. Questa nuova politica di ottenere, di fatto,  la sottomissione dei contadini con il terrore,  era del tutto incoerente rispetto alle parole di Washington di vincere i cuori e le menti, ma era pienamente  coerente  con qualsiasi cosa le sue forze armate stavano realmente facendo e avrebbero fatto nella zona della I armata e in tutto il paese.

Un grattacielo di bugie

 In questo contesto è necessario parlare di un altro livello del conflitto. I documenti mostrano che già dalla metà degli anni 1960, le ipotesi chiave sbagliate della guerra, cioè che il nemico vietnamita era un tentacolo del comunismo mondiale, che la guerra era un fronte della guerra fredda piuttosto che un episodio nel lungo movimento di decolonizzazione del ventesimo secolo, che i Sud Vietnamiti  erano ansiosi di essere salvati dagli Stati Uniti, si sospettava che fossero sbagliate nella Washington ufficiale. Si scoprì però che un’altra ipotesi non era sbagliata: che qualunque amministrazione “perdesse” il Vietnam, avrebbe perso le elezioni successive.

Giusto o sbagliato, i presidenti vivevano nel terrore di perdere la guerra e di essere quindi distrutti politicamente da un movimento del tipo che il senatore Joe McCarthy aveva iniziato dopo la  “perdita” della Cina da parte dell’America nel 1949. In seguito, McGeorge Bundy, il consigliere di Johnson per la sicurezza nazionale, descriveva in quello che capiva fosse la stato d’animo del presidente in quel periodo:

“Lyndon B. Johnson non è profondamente preoccupato riguardo a chi governa il Laos, o il Vietnam del Sud – è molto preoccupato per quello che l’elettore medio americano penserà riguardo a come si è comportato nella situazione  della guerra fredda. Il grande campionato della guerra fredda viene giocato nello stadio più grande degli Stati Uniti, e lui, Lyndon Johnson, è il quarterback (un ruolo nel football americano),  e se perde, come farà alle prossime elezioni? Non perdere, quindi. Questo è troppo semplice, ma è così. Si rassegna  alla sua sopravvivenza politica ogni volta che considera queste domande.”

In questo contesto, le considerazioni politiche interne sconfiggevano il ragionamento sostanziale       che, una volta che l’inutilità e l’orrore dell’impresa fossero state rivelate, avrebbero potuto portare a porre fine alla guerra. Si capiva sempre di più che era una farsa omicida, ma la politica prescriveva  che doveva continuare. Fino a quando i fatti erano così, nessuna notizia dal Vietnam poteva portare a un’inversione delle politiche belliche.

Questo è stato l’ultimo piano del grattacielo di bugie  che è stata la guerra del Vietnam. La politica interna era la più grande delle situazione produttrice di atrocità. Immaginiamo che questo sia cambiato?


[Recensito in questo saggio: Nick Turse, Kill Anything that moves:The Real American war in Vietnam (Uccidete qualsiasi cosa che si muove: La vera guerra americana in Vietnam) (Metropolitan Books, 2013). I classici libri di Jonathan Schell sul Vietnam, The Village of Ben Suc

[ Il villaggio di Ben Suc] e The Military Half [La metà militare] sono raccolti nel volume The Real War (Da Capo Press)]


Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta su TomDispatch.com, un weblog del Nation Institute, che offre un flusso continuo di fonti alternative, notizie e opinioni da parte di Tom Engelhardt, direttore editoriale, co-fondatore dell’American Empire Project, autore del libro : The End of Victory Culture (La fine della cultura della vittoria) e anche del romanzo: The Last Days of Publishing (Gli ultimi giorni dell’editoria). Il suo libro più recente è: The American way of War: How Bush’s Wars Became Obama’s (Haymarket Books) ( Lo stile bellico Americano: come le guerre di Bush sono diventate quelle di Obama)

 Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.znetitaly.org

Fonte: http://www.zcommunications.org/how-did-the-gates-of-hell-open-in-vietnam-by-jonathan-schell

Originale: Jonathan Schell’s ZSpace Page Traduzione di Maria Chiara Starace, rivista dal Centro Sereno Regis

18 gennaio 2013 http://znetitaly.altervista.org/art/9446

2 commenti

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  1. […] Come mai si sono aperte le porte dell’inferno in Vietnam? – Jonathan Schell […]

  2. […] ma che si raggiungano vette/profondità (anche qui forse il termine più adatto) dà da pensare, come minimo. E non si tratta nemmeno di paragonare la ferocia dei “campi di rieducazione” (sia a […]

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