Pecunia non olet

Rita Vittori

Pecunia non olet, cioè «il denaro non ha odore» è una locuzione latina usata per indicare che, qualunque sia la sua provenienza, «il denaro è sempre (o solo) denaro», il mezzo non determina l’intenzione e la provenienza non gli darebbe alcuna connotazione positiva o negativa…

Mentre dei mercati finanziari si parla molto, c’è poco spazio  sui giornali dedicato al «mercato delle armi e degli armamenti». Eppure dai dati del Sipri – Stockholm International Peace Research Institute, istituto indipendente dedicato alla ricerca su conflitti, armamenti e disarmo – nella sua relazione annuale si evince che questo tipo di commercio muove sul piano globale enormi interessi sia economici che politici.

Quanto vale il mercato della guerra

A livello globale il mercato degli armamenti vale più di 2 mila miliardi di dollari e negli ultimi anni ha avuto un incremento considerevole. Infatti, il numero di conflitti armati nel mondo è molto alto: nel 2021 sono 46, molti dei quali sconosciuti alla maggioranza dei cittadini.

Ne troviamo 8 nelle Americhe, 9 in Asia e Oceania, 3 in Europa, 7 in Medioriente e Nord Africa, 18 nell’Africa subsahariana, con una stima approssimativa di 150.000 morti, probabilmente in difetto.

Se si guarda la cartina dei conflitti nel mondo risulta impressionante la loro estensione che colora di sangue i vari continenti e ci si rende conto di come in quei territori la richiesta di armi alimenti il «mercato della morte» e come quest’ultimo abbia bisogno di continue guerre per mantenere alti i propri profitti.

Con la guerra e con le devastazioni fanno affari Paesi come Stati Uniti, Russia, Francia, Cina, Germania e anche l’Italia, che occupa il sesto posto. Basti pensare che nella decade 2011-2020 la spesa militare complessiva di tutti i Paesi del mondo è aumentata del 9,3%, con la Cina che nello stesso periodo ha registrato un +76%. Affari a cui nessuno vuole rinunciare, malgrado i danni che una guerra porta con sé non solo in termini di morti, ma anche in termini di disastri ambientali, climatici e economici, le cui vittime sono le popolazioni civili.

Tali aumenti, come si ribadisce nella già citata relazione del Sipri, sono stati sottratti al raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals, SDG) dell’Agenda 2030 (https://unric.org/it/agenda-2030/) e gli impegni dell’Accordo di Parigi del 2015 sul cambiamento climatico. Tutto questo mentre assistiamo alle conseguenze economico-ambientali dei cambiamenti climatici, che necessiterebbero di notevoli investimenti, e non di briciole, come abbiamo assistito anche alla Cop 28 [COP è un acronimo che sta per «Conference of Parts», Conferenza delle Parti, NdR].

Le maggiori aziende di vendita delle armi

Inutile dire che nella Top 100 di Sipri delle aziende che producono armi la fanno da padrone le industrie statunitensi. Primeggia nel fatturato la Lockheed Martin Corporation, azienda americana impegnata nella difesa (servizi di Intelligence compresi), come anche nell’aereospaziale. Abbiamo poi Raytheon Technologies Corporation, Boeing, Northrop Grumman Corporation e General Dynamics. In Italia, invece, troviamo Fincantieri e Leonardo, aziende con incrementi significativi negli ultimi anni sia di produzione che di fatturato.

Insomma, la GUERRA è un ottimo affare.

Ovviamente la guerra Ucraina-Russia è stata un’ottima occasione per svuotare i magazzini, con la conseguente necessità di ricostituire le scorte. Non solo ricostituirle, ma rinnovarle, perché oggi si parla sempre più di applicazione dell’Intelligenza Artificiale ai sistemi di difesa con droni kamikaze (in pratica trasportano testate ad alto esplosivo in grado di distruggere carri armati e altri velivoli corazzati), jet a guida autonoma, che non prevede la presenza di un pilota ma è comandato da un braccio robotico e un’interfaccia formata da un tablet e da un apparato di riconoscimento verbale.

Ma chi sono i maggiori acquirenti di armi?

Dopo l’inizio dell’invasione da parte della Russia, l’Ucraina è diventata la terza destinazione per armi al mondo. Ma sempre dai dati provenienti dalla relazione del già citato Sipri sappiamo che tra i maggiori acquirenti in fatto di armi abbiamo India, Arabia Saudita, Egitto, Qatar, Algeria, spesso criticati per violazioni dei diritti umani. È come dire che si armano Paesi che potrebbero utilizzare le armi acquistate non per difesa ma per silenziare il dissenso al proprio interno o i Paesi in conflitto.

In particolare, i maggiori importatori di armi italiane sono l’Egitto (e forse questo spiegherebbe la fatica nel ricostruire la verità sull’omicidio di Giulio Regeni ucciso tra il gennaio e il febbraio 2016 nello stesso Egitto), la Turchia (paese più volte denunciato da Amnesty International per violazione dei diritti umani), il Medioriente con il Quatar (anch’esso denunciato per violazione dei diritti umani, finanziamento ad Hamas e gruppi terroristici affini) e il Turkmenistan.

Come dire: pecunia non olet [cioè «il denaro non ha odore». È una locuzione latina usata per indicare che, qualunque sia la sua provenienza, «il denaro è sempre (o solo) denaro», il mezzo non determina l’intenzione e la provenienza non gli darebbe alcuna connotazione positiva o negativa, NdR].

Ma non basta. Vendiamo armi anche ad Israele sia direttamente che indirettamente. Infatti l’Italia vende la maggior parte della propria produzione di armi a Stati Uniti e Germania, che, a propria volta, vendono la maggior parte della propria produzione di armi a Israele.  Questa triangolazione fa sì che si eludano i limiti che la legge italiana impone nel commercio di armi.

E cosa dice la legge?

L’importazione e l’esportazione  delle armi è regolamentato nel nostro Paese dalla Legge 185/90 che delega il Parlamento a un attento controllo sull’esportazione degli armamenti.(https://presidenza.governo.it/ucpma/normativa/legge_185_90.pdf). Tale Legge prevede che le aziende produttrici di armamenti chiedano al Governo le autorizzazioni a esportare, e vieta di fornire armi a Paesi in conflitto armato, in contrasto con l’articolo 11 della Costituzione (in cui si afferma che l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli), o che violano i diritti umani.

Ma la Legge è stata disattesa più e più volte in nome della logica di profitto delle aziende produttrici di armi, il Parlamento più volte esautorato di ogni potere di controllo.

Ma non basta. L’attuale Governo ha presentato delle modifiche alla Legge 185/90, per rendere meno stringente il controllo sulle autorizzazioni alle esportazioni di armi, con un apposito Disegno di Legge (https://www.senato.it/leg/19/BGT/Schede/Ddliter/57435.htm), favorendo solo la vendita degli armamenti italiani, senza valutare attentamente il possibile uso da parte dei Paesi acquirenti.

La Rete Pace e Disarmo (RPD) lo scorso ottobre ha espresso molta preoccupazione visto che  «Gli armamenti italiani sono stati e sono tuttora inviati in decine di situazioni di conflitto, di violazione diritti umani, di presenza di regimi autoritari come invece sarebbe espressamente vietato dalle norme in vigore (oltre al caso già citato ci riferiamo, tra gli altri, alle vendite verso Egitto, Turchia, Kuwait, Turkmenistan, Qatar, Israele… o anche ai tentativi di sottoscrivere contratti con l’Azerbaijan)». Un grande favore che l’industria bellica chiede da tempo: chiedono meno rigore nell’esportazione di armi.

RPD e Opal hanno partecipato a un’audizione in Senato il 17 ottobre 2023, producendo un interessante documento (https://retepacedisarmo.org/export-armi/wp-content/uploads/sites/2/2023/10/RIPD-Opal-Audizione-Commissione-III-su-DDL-modifica-legge185-export-armi-low.pdf) in cui si richiede invece che vengano recepite  le norme previste dai Trattati internazionali in cui si afferma che non si possano esportare armi quando c’è un rischio che siano usate per commettere violazioni dei diritti umani, mentre la Legge 185 si limita a chiederlo quando ci sono casi accertati.

Il rischio che il profitto vinca sull’etica, nella società neoliberista sta purtroppo avvenendo in molti settori, e di questo la società civile sta diventando sempre più consapevole, cercando di opporsi con alcune iniziative. Citiamo quella di Greenpeace che con una petizione chiede al Governo italiano di rinunciare all’obiettivo NATO che prevede si arrivi al 2% del Pil come investimenti per le spese militari, anzi di tassare gli extraprofitti delle aziende della Difesa e usare i fondi risparmiati per la lotta contro la crisi climatica e la povertà.

La richiesta non sarà certamente ascoltata ma non per questo non bisogna provare.


 

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