Un errore di tempo: borek a cena

Mirko Vercelli

Giovedì 13 Ottobre. Un errore di tempo: borek a cena. Andando a fare un progetto di Erasmus+ nel Kurdistan turco per il Centro Studi Sereno Regis

Silenzioso bianco di calce e plastica e cemento armato si stende come un sudario sui palazzi, le strade e le pale eoliche dall’alto del Boeing. Dal mare al mare. La prima cosa che il lembo di cumulonembi scopre squarciato dalle ali. Pianura infinita e grattacieli. Che sa di terra che non conoscerà la rovina. O di rovina che non conoscerà il fiore. Corsie asettiche, architettura surmoderna. Nomi di brand, foto di uomini. Cosa vendono? La camicia, gli occhiali o le scarpe? O forse qualcosa di invisibile, un profumo che la foto non riesce a trasmettere? Forse l’uomo stesso. Welcome to the land of allcargo logistics. 

I primi corteggiamenti di Istanbul sono timide occhiate e acqua in confezioni monodose di plastica. Mentre due bambolotti di plastica, usciti da qualche libro delle fiabe, alti più di due metri, accolgono i turisti con uno sguardo assente, inchiodato sul muro di fronte. Non ci sono incravattati con nomi scritti a penna su un foglio, che guardano oltre di te, ma personaggi dei cartoni animati, inanimati che non ti possono notare. Hello.

Un errore di tempoLa stanca sfinge della sicurezza aeroportuale si nutre di carte d’imbarco, legge Diyarbakir. Accusa il colpo. In un secondo, il suo inglese peggiora, il tono di voce si fa quasi sussurrato, non parla per comunicare, ma per ostacolare. Biascica qualcosa, poi improvvisa il silenzio. Squadra i passeggeri più e più volte, non sta pensando a nulla, nel suo assolo muto vuole solo farli sentire a disagio. Chi deve andare in un paese di curdi? Confabula con la collega, poi si copre la bocca facendo una conca con la mano, quasi qualcuno parlasse turco, qui. I suoi occhi sono betoniere castane che impastano fastidio e sufficienza. Yesari Asim Arsoy.

L’aereo da Istanbul a Diyarbakir atterra, non è lo stesso modello fresco di battezzo che era partito da Milano. Non ha gli stessi film nel monitor di bordo, nessun blockbuster internazionale, ma scialbe pellicole d’animazione locali. La colazione passa da una continentale bilanciata ad un panino con pomodoro. La sera atterra assieme a noi. 

Ci accoglie U. Il sorriso di chi incontra qualcuno che già sa sarà suo fratello in una manciata d’ore, risveglia dal torpore flebile tipico di un giorno di viaggio. Imbarca le valigie due alla volta in un bagagliaio infinito. Intorno, una calma innaturale. Che sembra che tutti prestino attenzione solo a te, che se ti fermassi solo un secondo, troveresti tutti a fissarti. Ma intanto la pantomima continua pedissequa. In radio qualcosa di pop, locale, ma dal gusto tristemente europeo. Non nascondo la mia delusione di ritrovare casa, lontano da casa.

Un errore di tempo

Oltre il finestrino semi-abbassato, oltre il divario linguistico che subito si impone rendendo inutile ogni pubblicità, le strade sono costellate del volto marmoreo e assorto di Erdogan. In posa da dagherrotipo francese e sembra quasi beatificato in vita, un’icona imposta, un santo impostore. Sfreccia con noi e senza fissarci ci segue in ogni via, in ogni rotonda. Sulle bandiere, sugli striscioni.

Sabato arriverà in città per una visita, fisicamente, la polizia sarà ovunque, ci dice U. Aspettano contestazioni. L’ultima volta c’era l’esercito e c’erano gli elicotteri. Mentre parla, i semafori, quando scatta il verde, si colorano completamente di verde. Dalla luce al palo. Quando scatta il rosso, si colorano di rosso. Dalla luce al palo. Ed è così che il panorama alterna palazzi divorati dalle ombre a led stroboscopici che festeggiano urbanistica casuale. 

E poi, senza accorgercene, una lunga striscia di mura alte due, tre metri, decorate di pennellate di filo spinato iniziano a costeggiare la strada. U. vede la mia curiosità e precede sul tempo la mia domanda. Qua arrivano i soldati con tutte le famiglie, da Ovest, mi dice. Strano, rispondo. Siamo sotto occupazione, sorride indifeso.

Un errore di tempo

Arriviamo al centro, la venue, direbbe l’infopack, e al centro sono tutti allegri nella loro quotidianità infranta da quella che sarà una convivenza nuova, impiantata; studieremo assieme gender equalities in una città dove la disparità la leggi nella violenza delle pareti; ci accolgono in un posto che fa dei pochi dettagli un focolare familiare: qualche cuscino colorato, le tazze di tè pronte per essere prese, zuppa di ceci e limone e le volte arabesche di calce che scoprono stanze seminude. Ci sorridono e, di sottofondo, rimbalza tra i palazzi l’eco di discorsi di piazza, musica e fuochi d’artificio ed entra dalla finestra assieme ad un anelito di vento afoso una sirena.

È per la visita di sabato, ci dice U. Il ministro della cultura ha organizzato tutto e a sentirla sembra una festa a cui non è andato nessuno, ma che ogni palazzo deve sentire rimbombare come una preghiera istituzionale. Un muezzin del dittatore. U. sorride e versa il limoncello a tutti da buon padrone di casa, insiste sul rimboccare i bicchieri, conosce qualche frase in italiano, volgarità che sono le prime cose che esportiamo allo straniero e modi di dire sbilenchi, fuori contesto. Conosco i miei polli, così, per creare intimità. Strappiamo un pezzo dalla torta salata sul tavolo e mentre spagnoli, italiani, portoghesi, danesi e curdi si conoscono scambiando timide parole, stasera c’è borek a cena.


Foto di Mirko Vercelli


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