Risorsa umana. L’economia della pietra scartata – Recensione di Cinzia Picchioni

cop_Francesco Gesualdi, Risorsa umana.Francesco Gesualdi, Risorsa umana. L’economia della pietra scartata, San Paolo, Milano 2015, pp. 206, € 14,50

Succede di leggere dei libri per recensirli e scoprire che l’unica parola da dire è: «leggetelo»… è il caso di questo libro, che potrete venire a prendere alla Biblioteca del Centro Studi Sereno Regis di Torino (o comprarlo, ne vale veramente la pena). Troppe sono le cose che si dovrebbero dire, citare, riportare, mi sono accorta, ma va letto, questo libro, assolutamente. Nel frattempo ecco ciò che sono riuscita a produrre, «rubando» dalle pagine del libro (scritte meglio di quanto sarei riuscita a fare per convincervi a leggerlo), il cui sottotitolo – L’economia della pietra scartata – è spiegato nelle prime righe:

Se vogliamo dunque salvarci dobbiamo riscoprire il benvivere.

Dobbiamo recuperare la sua visione, promuoverla da pietra scartata a pietra angolare che fa da base per la costruzione della nuova economia. […] se facciamo questa scelta dovremo riscrivere tutto:

premesse, princìpi, obiettivi, strategie.

Francuccio Gesualdi, p. 9

Premesse

Le troviamo nella Parte prima, intitolata La vecchia strada:

«Chiediamo di imboccare la strada della sobrietà che è più un mdo di essere che di avere, è uno stile di vita che sa distinguere tra necessità reali e imposte, che si organizza a livello collettivo per garantire a tutti il soddisfacimento dei bisogni umani con il minor dispendio di energia, […] senza dimenticare le esigenze spirituali, affettive, intellettuali, sociali della persona», p. 7.

«Il ricco possiede molte cose superflue, di cui non ha bisogno, che poi sciupa e spreca, mentre milioni di persone muoiono di fame perché non possono mangiare. Se ognuno si accontentasse di ciò di cui ha bisogno, non mancherebbe niente a nessuno. […] La civiltà, nel verso senso della parola, non consiste nella moltiplicazione dei bisogni, ma nella capacità di ridurli volontariamente, deliberatamente», (Gandhi, p. 100).

Princìpi

Sono gli stessi espressi quasi 50 anni fa da Robert Kennedy nel famoso discorso «sul pil» che pronunciò alla Kansas University:

«Per troppo tempo abbiamo sacrificato i nostri migliori valori alla semplice accumulazione di cose. Il nostro unico obiettivo è l’aumento del prodotto interno lordo. Ma il Pil comprende anche l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette e le ambulanze per sgomberare le nostre autostrade dalla carneficina dei fine-settimana. Include i lucchetti per chiudere le nostre case e le prigioni per chi li scassina. Conteggia l’abbattimento delle sequoie e la distruzione della nostra meravigliosa natura […] Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei legami familiari […] il nostro coraggio, la nostra saggezza […] la nostra compassione […]. In conclusione misura tutto, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta», pp. 20-21.

Obiettivi

«Volgendo lo sguardo al passato, scopriamo che per i prìncipi il lavoro non era certo una preoccupazione. Per loro era un’attività degradante, una fatica di cui liberarsi. Preferivano spendere il loro tempo per studiare, dipingere, andare a cavallo. Venendo al presente scopriamo che non se ne danno pensiero neanche gli indios della foresta amazzonica. Nella loro lingua la parola lavoro non esiste. Il tempo è fatto per ridere, parlare, coccolarsi, fare festa. Poi, certo, se serve una capanna la si costruisce. Quando il cibo è finito si va a caccia. Ma non gli si dedica né un minuto di meno, né un minuto di più. […] il lavoro è un falso problema; il vero problema sono le sicurezze: il mangiare, il bere, il vestire, la salute. […] noi, cittadini del mondo opulento, non le abbiamo perché siamo stati privati di tutto e l’unico modo per garantirci ciò che ci serve è comprarlo al supermercato. Ma per comprare ci serve il denaro e poiché non abbiamo altri modi per procurarcelo se non vendendo il nostro tempo, cerchiamo il lavoro con ossessione. Di colpo il lavoro ha smesso di essere un mezzo ed è diventato un fine […] che ci ha reso tutti paladini del consumo […]. L’unico modo per uscire dal ricatto mercantile e dalla trappola consumistica […] è il recupero di autonomia. Un obiettivo che si raggiunge smettendo di pensare al lavoro e concentrandoci sulle sicurezze, quelle concrete. […] la domanda giusta da porsi non è come creare lavoro, ma come costruire una società capace di garantire a tutti le sicurezze rispettando tre condizioni: utilizzare meno risorse possibile, produrre meno rifiuti possibile e lavorare il meno possibile. Perché il tempo non è fatto per stancarsi, ma per elevarsi», pp. 122-123.

«Sapere fare molte cose da soli è la prima forma di sicurezza perché garantisce la soddisfazione di molti bisogni indipendentemente dalla disponibilità di denaro, e quindi di un lavoro salariato, o dal buon funzionamento degli altri settori dell’economia. In altre parole l’autoproduzione è una forma di autonomia che si traduce in libertà. Più cose sappiamo fare, più liberi siamo», p. 131.

Strategie

Le troviamo nella Parte seconda, intitolata La nuova strada

«Solo se queste strategie – bune pratiche, lotte per i diritti, presenza nelle istituzioni – operano in sinergia tra loro, possiamo sperare di raggiungere qualche risultato. Oggi invece ci muoviamo in ordine sparso. Benché accomunati da medesimi valori e aspirazioni, siamo divisi per scopi e modalità d’azione […] ci manca un progetto comune», p. 181.

E poi le strategie devono trasformarsi in azioni:

Disobbedire (p. 85)

Non dobbiamo dimenticare che Francuccio Gesualdi – l’autore del libro presentato questa settimana – è stato un allievo di Don Milani, a sua volta autore del famosissimo libro L’obbedienza non è più una virtù. Un po’ tutto il «carattere» del libro di Gesualdi è anch’esso basato su parole come queste, scritte da Lorenzo Milani a proposito di Hiroshima (e siamo vicini all’anniversario…):

«Un delitto come quello di Hiroshima ha richiesto qualche migliaio di corresponsabili diretti: politici, scienziati, tecnici, operai, aviatori. […] C’è un modo solo per uscire da questa assurda situazione. Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni […] che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto», p. 85.

Anche noi, su questa scia, informiamoci allora su storie come quella qui sotto, e comunichiamo alle imprese che disobbediremo alla pubblicità e non acquisteremo i loro prodotti per non essere complici.

«Prendiamo come esempio un iPhone, emblema della modernità tecnologica, ma espressione della più retrograda barbarie da un punto di vista etico. Il suo problema si chiama coltan […] combinazione di minerali […] essenziali per il buon funzionamento dei microchip che stanno alla base della rivoluzione informatica. Il 60% del coltan utilizzato a livello mondiale proviene […] dal Kivu, una regione a ridosso del Ruanda e del Burundi, in parte bagnata dal lago Tanganica […] Decine di gruppi armati si contendono il controllo del territorio […] al servizio di capi locali [o] di potenze straniere, ma tutti con lo stesso obiettivo: controllare le immense ricchezze minerarie che la regione contiene. In particolare il coltan. Ed ecco la popolazione ovunque terrorizzata e costretta a lavorare nelle miniere […] Non di rado i lavoratori sono bambini che grazie ai loro corpi esili entrano meglio nelle strette buche da cui si estraggono le pietre che contengono il coltan. I loro salari non arrivano al dollaro al giorno. […] Dalla regione esce coltan e rientrano armi. […] Dopo un passaggio negli stabilimenti di raffinazione, i metalli estratti sono poi avviati al variegato mondo dell’industria informatica […] Samsung, Intel, Microsoft, Motorola, Sony, ibm, Apple», p. 90.

In Inghilterra c’è una rivista, «Ethical Consumer», che informa sui retroscena ambientali e socio-economici dei prodotti. In Italia (a Vecchiano, Pisa) c’è il Centro Nuovo Modello di Sviluppo (di cui l’autore di questo libro è il fondatore) che fa ricerca sulle imprese e pubblica le famose «guide» al consumo critico. Le analisi riguardano il vestiario, le banche, la telefonia e altro e vengono periodicamente aggiornate. Ma per fare questo lavoro il Centro ha bisogno di aiuto, finanziario ma non solo. Manifestiamo la nostra approvazione per il suo lavoro e il nostro sostegno solidale scrivendo a: [email protected], con nell’oggetto «non chiudete».

Boicottare (p. 88)

«Dovessimo dire a quale settore appartiene Nike, potremmo dire “quello del niente”. Non ha apparato produttivo, non dispone di rete di vendita, il suo mestiere è vendere fumo, fantasticheria, sogni di successo attraverso la pubblicizzazione di un loco che evoca forza, competizione, potere. […] Il personale alle dirette dipendenze di Nike non arriva a 44.000 persone […] progetta modelli che poi fa realizzare al prezzo più basso possibile da 785 fornitori sparsi in 44 Paesi che si avvalgono della collaborazione di un milione di lavoratori», p. 39.

Ridurre (nel capitolo Votare col portafoglio, pp. 98 e ss.)

«I poveri assoluti popolano i villaggi sperduti delle campagne e si affollano nelle baraccopoli delle città. Campano su lavori precari e malpagati, sono alla totale mercé di padroni, caporali e mercanti. Tramite i nostri consumi li incontriamo quotidianamente quando beviamo una tazza di caffè, quando mangiamo una banana, quando indossiamo un paio di scarpe sportive. Hanno il volto del contadino africano che è costretto a vendere il suo caffè a venti centesimi di dollaro al chilo mentre noi lo ricompriamo a otto euro […] della ragazzina bengalese che per quaranta centesimi di dollaro l’ora produce la felpa firmata che noi ricompriamo per trenta euro», p. 32.

Scrivere (p. 91)

E firmare, soprattutto, come è il caso del tristemente famoso ttip (per firmare: www.stop-ttip-italia.net)

«In questo scenario il timore è che il Ttip (Transatlantic trade investment partnership) venga usato come testa d’ariete per abbassare gli standard sanitari, ambientali, sociali sulle due sponde dell’Atlantico. […] in materia di ogm è più facile che venga imposta la loro commercializzazione in Europa, piuttosto che essere vietata negli Stati Uniti dove gli ogm già si trovano in tutti i supermercati. […] nel documento firmato il 30 aprile 2007 da George Bush, Angela Merkel e José Manuel Barroso […] si legge che l’obiettivo comune è quello “di rimuovere le barriere al commercio transatlantico, razionalizzare, riformare e in generale ridurre le regole al fine di rafforzare il settore privato”», p. 60.

E denunciare, come fa questo libro: basti leggere la vicenda Golden Lady, di cui forse abbiamo in mente le belle e coreografiche performances delle dipendenti che protestavano, ma qui c’è scritto il perché di quella vicenda, così come di quella Benetton (altro che «United Colours of Benetton»! Gesualdi intitola il paragrafo United Business of Benetton, a p. 43), denunciando le solite delocalizzazioni, lavori sottopagati, bambini sfruttati, abusi sessuali, con la cronaca – agghiacciante – dell’incidente di Dacca, nel Bengala (il 24 aprile 2013: 1138 morti, 2500 feriti, per la maggior parte ragazze tra i 17 e i 20 anni). Nel 2014 «la trasmissione televisiva “Presa diretta” dimostrava che Olimpias, una filiale di Benetton, si approvvigiona regolarmente da fornitori bengalesi” (p. 43), benché l’azienda avesse dichiarato di farlo solo “occasionalmente”» (p. 42).

Creare g.a.s. aiuta la Grecia

Nel capitolo dedicato ai Gruppi di Acquisto Solidale scopriamo che all’esplodere della crisi greca un professore di marketing agricolo ha inventato il «movimento della patata»: chi ha bisogno di patate le ordina e il professore contatta direttamente gli agricoltori. «In pochi mesi sono state vendute 25 tonnellate di patate prenotate da 534 famiglie che hanno risparmiato fino al 70%», p. 95. E i produttori hanno subito intascato il denaro, senza aspettare i tempi del grossista!

Tessere (p. 106)

«“Per molto tempo abbiamo creduto di essere soggetti solitari e autonomi”, spiega John Cacioppo, direttore del Center for Cognitive and Social Neuroscience all’Università di Chicago, “in realtà siamo nati per tessere relazioni con altri esseri umani”. Ecco dunque la seconda radice dell’infelicità nella società della crescita: relazioni umane insufficienti, fugaci, transitorie. Società liquida, così la definisce Zygmunt Bauman», p. 106.

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