L’importanza dei Corpi Civili di Pace oggi

Alberto L'Abate

L’opinione di quattro generali

Il secolo passato è stato quello nel quale sono morte più persone a causa delle guerre che in tutti secoli precedenti messi insieme, ma anche nel quale questi morti, che  in precedenza  erano in gran parte militari,  sono stati in grande maggioranza civili. Si parla del 97% di morti civili nelle guerre  moderne. E’ perciò urgente trovare  metodi alternativi alla guerra ed alla violenza armata per difendere paesi da  una eventuale aggressione esterna, o per trasformare regimi corrotti e autoritari in altri più democratici.

Ma nessuno meglio dei generali che hanno dovuto vedere in prima persona gli orrori della guerra ne possono parlare con migliore conoscenza di causa, e possono indicarci la strada per fare questo. Accenneremo a quattro di questi: uno americano, uno inglese, uno italiano e infine uno francese.

Il primo è il Generale  D. Eisenhower,  già comandante in capo delle forze alleate in Europa durante la seconda guerra mondiale, diventato poi  il 34mo Presidente degli Stati Uniti. Questi, in uno dei suoi primi discorsi come tale,  ha detto:  “Io odio la guerra  come solo un soldato che l’ha vissuta può odiarla, così come uno che ha  visto la sua brutalità, futilità, stupidità” ed oltre: “Ogni cannone costruito, ogni nave da guerra varata, ogni missile sparato, significa, alla fine, un furto verso coloro che hanno fame e devono essere sfamati, verso coloro che hanno freddo e non hanno di che coprirsi. Questo mondo non spende per le armi solo denaro, ma spende il sudore dei suoi operai, il genio dei suoi scienziati, le speranze dei suoi figli.

Questo non è un modo di vivere nel vero senso della parola. Sotto le nubi della guerra c’è l’umanità appesa ad una croce di ferro (16 Aprile 1953).  Ed il 17 Gennaio 1961, nel suo discorso di commiato alla  nazione, dopo  due mandati,  aveva ammonito la popolazione del suo paese a stare attenta al complesso militare–industriale  che  era anche più potente dello stesso presidente e che  non era affatto interessato alla pace ma che avrebbe tentato, per mantenersi in vita e potenziarsi, di portare il paese verso sempre più guerre(1).  Speriamo che Obama,  sulla nomina del quale a Presidente degli USA  si sono accese tante speranze per un futuro più pacifico e più ecologico, non si lasci troppo influenzare da tale complesso.

Il secondo  è il generale inglese Harbottle, autore del primo manuale del peace-keeping delle Nazioni Unite. A Creta, che  era ed è tuttora divisa tra greci e  turchi, c’è stato  uno dei primi interventi delle World Peace Brigades, che  sono stati a lavorare in quella isola per vari anni. Harbottle, che era il comandante  dei  Caschi Blu  delle Nazioni Unite che erano  nell’isola per evitare scontri tra gli eserciti di questi due paesi, venuto a conoscenza del lavoro delle World Peace Brigades, si rese conto che il lavoro fatto da questi corpi civili era più valido di quello svolto dai suoi Caschi Blu.

Infatti, mentre i caschi blu non potevano avere molti rapporti con la popolazione, per non essere considerati di parte, i corpi civili riuscivano a mettere insieme greci e turchi per ricostruire le case e tutte le cose distrutte da uno dei due eserciti. E riuscivano perciò a far comprendere reciprocamente le ragioni dell’altro. Si è perciò avvicinato alla nonviolenza ed è diventato uno dei massimi consulenti delle Peace Brigades International, ha fondato una associazione  di  “Generali per la Pace”, cui hanno aderito generali di vari paesi del mondo, ed ha dato vita, nel suo paese, ad un importante centro di ricerca per la prevenzione dei conflitti armati, tuttora attivo anche dopo la sua morte avvenuta qualche anno fa(2).

Il  terzo  è  un italiano, il Generale Pasqua, che comandava in Libano le Forze delle Nazioni Unite, che erano però disarmate perché il loro compito  era  solo quello di  evitare l’entrata in Libano di ribelli e di armi.  Secondo il suo racconto essi sono riusciti a  fare un lavoro di mediazione  ed a convincere i ribelli a ricostruire gli acquedotti che avevano distrutto, cioè a lasciare le armi per iniziare le trattative, e questo proprio grazie proprio al fatto di  essere  disarmati. Infatti al momento in cui gli Stati Uniti sono intervenuti armati in quelle stesse zone,  il loro lavoro di mediazione si era dovuto interrompere finché  i ribelli  non si sono resi conto che l’intervento degli Stati Uniti (e della Gran Bretagna con questi)  non era affatto collegato a quello  delle Forze Armate delle Nazioni Unite comandate dal Generale Pasqua.

Solo a questo punto è stato possibile riallacciare i rapporti  e completare il lavoro (3).

L’ultimo di cui voglio parlare è un generale francese, invitato a intervenire a un convegno a Parigi sui Corpi Civili di Pace, o meglio, nella loro dizione, di “Interventi Civili di Pace., presso la sede del Parlamento Francese,  organizzato da un coordinamento di associazioni interessate a questi temi guidate  Jean Marie Muller.

Il generale, che era  venuto a parlare in nome del Ministero della Difesa francese, ha detto che in ogni conflitto  ci sono tre fasi: la prima quella dell’intervento armato  per superare i combattimenti  e giungere a fare accordi di pace, il secondo quello di intervento misto militare-civile, per rimettere su le strutture civili del paese distrutte a causa della guerra, ed il terzo esclusivamente civile per riattivare la vita civile  in quella zona.

Ma  sia Jean Marie Muller che  il sottoscritto  abbiamo insistito chiedendo al generale dove metteva la prevenzione dei conflitti armati che, secondo noi, veniva prima delle tre fasi da lui accennate. Lui per vario tempo non ha  risposto alla  nostra domanda, ma poi, ulteriormente  sollecitato,   ha dato  una risposta pressappoco di questo tipo: “Anche noi militari vorremmo che prima di mandarci a fare le guerre, ed anche forse  a morirci, i politici discutessero  più a fondo su  questi problemi  e cercassero vie di prevenzione dei conflitti armati.

Ma  la  prevenzione non spetta al nostro Ministero ma al Parlamento intero. E questo è,  spesso, a grande maggioranza, a favore dell’intervento armato.”(4). Ed infatti per l’intervento in Afghanistan il parlamento  francese (come anche  quello italiano qualche giorno dopo)   si dichiarerà quasi all’unanimità a favore dell’intervento armato, senza tenere in alcun conto la proposta dei Talebani, apparsa per ben due volte nei nostri giornali,  di consegnare Bin Laden purché venisse giudicato da un tribunale internazionale neutrale, e non dagli americani stessi come loro pretendevano(5).

La prevenzione dei conflitti armati e i Corpi Civili di Pace

Malgrado l’opinione di questi generali che sottolineano la necessità di superare le guerre,  e l’importanza della prevenzione dei conflitti armati, questa ultima è la cenerentola  degli Stati. A un convegno su questi temi tenuto a Bolzano-Bologna uno dei maggiori esperti internazionali di questo tipo di interventi  ha sostenuto che, a livello internazionale, per la prevenzione dei conflitti armati si spende  1 Euro contro 10.000 Euro spesi invece per fare le guerre (6).

E’ chiaro perciò che dobbiamo cercare di superare questo squilibrio  se non vogliamo un futuro pieno di guerre Uno dei primi a comprendere l’importanza  dei corpi civili di pace per la prevenzione dei conflitti armati è stato il deputato altoatesino  al Parlamento Europeo, Alex Langer, che, con il suo collega  Ernest Guelcher,  del gruppo verde europeo,  è riuscito a fare approvare dal Parlamento Europeo  (Rapporto Bourlanger/Martin, del 15 maggio 1995) un testo che riconosceva l’importanza  di questo organismo . Dice il testo : “un primo passo  verso uno contributo nella prevenzione del conflitto potrebbe essere la creazione di un corpo civile di pace europeo  con il compito di addestrare osservatori, mediatori e specialisti nella risoluzione dei conflitti”.

Mozioni  simili  verranno approvate dallo stesso Parlamento  sia nel 1999 che nel 2002.(7) Ma anche se è cresciuta negli organismi internazionali la coscienza dell’importanza di questo tipo di attività (vedi “Agenda per la Pace” delle Nazioni Unite, di Boutros Ghali(8)), e che se ne parli anche nella prima bozza del Trattato Europeo (mai approvato) questi corpi non sono ancora stati costituiti, e si continua  privilegiare gli interventi armati, o  quelli civili  ma  di polizia, anche questa munita di armi. Comunque, da parte  delle Nazioni Unite  e dell’Europa,  sono previsti anche  interventi civili non armati  di esperti per la ricostruzione e la democratizzazione  dei paesi  oggetto di conflitti armati, e  per le rimessa in moto della vita civile, come è successo nel Kossovo

Ma per la prevenzione dei conflitti armati, che è il compito fondamentale di questo tipo di interventi, niente o poco viene  fatto. Ma   a livello mondiale le organizzazioni non governative, non solo quelle italiane , come avremo occasione di vedere in questo convegno, ma anche a livello internazionale (come ad esempio le Nonviolent Peace Forces (9)), hanno lavorato moltissimo  in questo campo,  ed hanno dimostrato concretamente l’importanza di questi tipi di interventi

Un primo bilancio di queste attività,  non solo di quelle delle ONG ma anche di quelle governative, oltre che al convegno di  Bolzano-Bologna, già citato, è stato fatto recentemente a Roma, nel primo incontro di presentazione  di questo stesso  progetto. In quest’ultimo Kai Brand-Jacobsen, del Patrir, Dipartimento di Operazioni per la Pace della Romania, che era stato anche uno dei principali relatori a Bolzano-Bologna,  ha  presentato un quadro tutto sommato ottimistico  di quanto sta avvenendo in questo campo a livello mondiale.

Secondo lui infatti c’è, da parte dell’opinione pubblica mondiale,  un sempre maggior riconoscimento dell’importanza di trovare metodi più efficaci  di trattare i conflitti, una maggiore delegittimazione delle perversioni e degli orrori della guerra e della violenza,  ed una presa di coscienza  che la pace è possibile, pratica e necessaria. Ed a questa  presa di coscienza dell’opinione pubblica, secondo questo studioso, che per la sua attività si trova impegnato in vari paesi del mondo nella progettazione  di interventi di questo tipo, e nella formazione  del personale che in questi servizi va ad operare,  corrisponde anche una notevole crescita e miglioramento degli interventi stessi. In particolare  ci sono più organizzazioni che in varie parti del mondo se ne occupano, sono anche aumentati gli attori  (governi –  in Europa, ad  esempio, la Svezia, la Germania e l’Inghilterra – organizzazioni intergovernative, ONG, autorità locali, i mezzi di comunicazioni di massa, ed altri).

C’è stato anche un allargamento dei problemi affrontati, dal “peace building” o costruzione della pace, alle segnalazioni precoci, al peace-keeping civile nonviolento, all’educazione alla pace, alla messa in atto di infrastrutture di pace, allo sviluppo di forme di giustizia ricostruttiva, ecc., ecc.. C’è stato, inoltre, un notevole miglioramento delle metodologie e degli approcci con i quali vengono programmati e valutati questi interventi,   ed un notevole sviluppo delle capacità e delle conoscenze necessarie agli interventi di peace-building, che hanno portato a notevoli miglioramenti di questo tipo di intervento,  ed una sensibile crescita del riconoscimento  dell’importanza di imparare dall’azione, e cioè di quella che, in termini tecnici, si chiama la ricerca-azione.(10)

Gli obiettivi e le principali attività dei Corpi Civili di Pace

Questi aspetti sono stati sviluppati a fondo nel convegno di Bolzano-Bologna, che ha visto la partecipazione di  vari esperti internazionali,  e di molti operatori sul campo.  Arno Truger, del Centro di Formazione di Statslaining, uno dei centri europei più attrezzati ad approfondire questo tema,  nella sua relazione introduttiva al lavoro della commissione formazione, ha messo in evidenze quelli, che secondo lui, sono i principali obbiettivi dei Corpi Civili di Pace.

Questi sono

1) la prevenzione delle crisi,

2) la nonviolenza,

3) l’empowerment, ovvero l’aiuto alle popolazioni ad essere attive e non passive,

4) l’ownership, ovvero l’essere attenti a che tutto quello che viene fatto nella zona,  ed  alla  popolazione stessa dell’area in cui avviene l’intervento;

5) la lotta alle cause dei conflitti (tra quelli possibili: i diritti umani violati; i  rapporti  squilibrati  tra stato e società, l’economia drogata dalle armi, l’ ecologia distrutta, la militarizzazione della sicurezza, della cultura, della  formazione,  e dell’ informazione),

6)  do-no-harm, ovvero come fare interventi privi  di effetti negativi per la popolazione locale, e per eventuali ritorni di fuoco;

7)  la de-escalata dei conflitti, e cioè quella che viene di solito definita come  attività di “mitigazione dei conflitti”,

8)   migliorare le condizioni di vita delle donne,

9) il cercare di stimolare la cooperazione tra gli  attori internazionali,

10)  una corretta  informazione,

11) la formazione ed il  training (per qualificare gli operatori).

Ma  se si passa a vedere quali sono  le principali attività che vengono portate avanti da questi interventi  dalle  conclusioni  del convegno di Bolzano-Bologna   queste risultano essere le seguenti:

Peace-keeping

Tra le attività nonviolente  importanti  in questo  settore (e cioè in termini tecnici  quelle   che puntano ad interrompere il conflitto armato ed aprire spazi di trattative) possiamo indicare:

Presenza. La presenza, in una situazione di conflitto,  di osservatori esterni (spesso definiti  CCP), tende ad avere un effetto  di mitigazione  rispetto alla violenza diretta, e rappresenta un riconoscimento dell’importanza della situazione locale  conferendo anche  dignità alle popolazioni  del posto. Inoltre funge da stimolo per l’informazione e l’attenzione dell’opinione pubblica anche di altri paesi.

Accompagnamento. Si veda, come esempio, l’attività messa a punto dalle Peace Brigades .-International in vari paesi del mondo, che cerca di proteggere, senza l’uso di armi, ma con un collegamento stretto con gruppi attivi  a livello internazionale, le persone a rischio per le loro attività per la pace  e per la protezione dei diritti umani.   Di questa attività avremo un esempio, in questo convegno, nel lavoro fatto  dalle PBI con le comunità di pace della Colombia

Interposizione. Su questa attività, tra le più rischiose (si veda la morte di Rachel Corrie, la volontaria americana  che con il suo corpo cercava di difendere una casa di palestinesi dalla distruzione di un buldozer israeliano), è bene parlarne un po’ di più. Ne accennerò più tardi in questa stessa relazione.

Monitoraggio. Un esempio di monitoraggio elettorale in Africa ci verrà presentato,  in questo stesso incontro, dai Beati Costruttori di Pace, ma altre volte questa attività riguarda la verifica di accordi  di pace, o di interruzione del conflitto armato, o simili.

Negoziazione. Questa può, ad esempio, cercare di  facilitare   il passaggio di convogli umanitari per l’aiuto alle popolazioni vittime della guerra . E’ un attività svolta normalmente dall’ONU, dalla Croce Rossa, oppure dai  Medici senza frontiere e spesso anche da Emergency. Ma questa attività può riguardare anche aspetti più vasti, e cioè,  una negoziazione di accordi per superare il conflitto o almeno per  iniziare un processo di descalata dello stesso.

Informazione. La corretta informazione, specie nelle fasi  di pre-conflitto, nelle quali  i contendenti cercano di mostrare l’avversario come  un grosso pericolo per le loro vite  per convincere i propri adepti  a partecipare al conflitto armato – si pensi al ruolo avuto dai “Media dell’Odio” nell’imbarbarimento del  conflitto dei Balcani-  è un lavoro fondamentale per migliorare la situazione e giungere a dei possibili accordi.

Facilitazione.  La maggior parte dei conflitti, sia a livello internazionale che interni, sono conflitti squilibrati,  in cui una delle due parti in conflitto ha maggiore potere  e maggiori capacità di risolvere il conflitto nel senso ad essa  favorevoli (tra i tanti esempi,  sovrani autoritari e loro sudditi;  colonizzatori e colonizzati; rapporti uomo-donna; marito-moglie, ecc. ecc.). I

n questo caso estrema importanza ha il lavoro di riequilibramento del conflitto, non per rovesciare i rapporti e portare  al potere quelli ora senza potere –sarebbe un lavoro politico e non professionale – ma per far si che ambedue abbiano lo stesso potere e possano trattare, alla pari, sulle migliori strade per superare il conflitto. E’ questo il tipo di lavoro che si definisce di facilitazione,  e cioè aiutare i gruppi più deboli a prendere coscienza della propria situazione, a superare la loro disorganizzazione  e cominciare ad organizzarsi in modo da potersi confrontare, alla pari,  con la parte  con maggiore potere  per trovare soluzioni che vadano alla risoluzione del conflitto, e non ad accrescere il potere di quello già più potente.

Un lavoro abbastanza simile è quello che , in lingua inglese, si chiama di “advocacy”, che cerca di aiutare le persone ed i gruppi, vittime di soprusi e vessazioni, a difendersi da questi in modo nonviolento ed incruento .

Peace-building

Le attività di peace-building hanno come obiettivo fondamentale la creazione di una pace sostenibile a lungo termine, e sono quindi presenti in tutte le fasi del conflitto. Per questo, lavora anche sulle cause della violenza, diversamente dal peace-keeping e dal peace-making.

Il peace-building si esplicita nelle seguenti funzioni: 1) capacitazione (empowerment) della società civile; 2) creazione di reti fra le persone; 3) favorire i flussi di informazione; 4) creazione di spazi di dialogo; 5) promozione del dialogo; 6) facilitazione della riconciliazione; 7) monitoraggio della fase di riconciliazione; 8) monitoraggio e diffusione di rapporti umani e sociali; 9) mediazione; 10) diplomazia parallela ai diversi livelli; 11) coordinamento con altri attori sul campo (nel caso di interventi internazionali:  con la cooperazione, l’aiuto umanitario, le forze armate; nel caso di interventi interni: i servizi sociali, i comitati cittadini, le forze dell’ordine)

Peace-making

L’intervento di peace-making ha come obiettivo la realizzazione di un accordo esplicito fra le parti. I CCP in questa attività  rappresentano uno degli attori che può assumere una maggiore o minore responsabilità, una significativa voce in più.(11)

Uno sguardo più approfondito alle attività di interposizione nonviolenta

Non starò qui a riprendere quanto ho già scritto  in un capitolo specifico su questo tema , apparso in un mio recente libro  (Per un futuro senza guerre). Le persone interessate possono andare a  leggere questo capitolo. Cercherò solo di sintetizzare alcuni dei principali commenti  al grafico qui accluso.

Questo grafico  nasce da una mia discussione, conclusasi con un accordo, con  uno studioso  australiano,  T. Weber, che ha studiato a lungo questo tipo di  intervento e che è anche autore di uno dei primi libri dedicati a questo tema(12). Egli considerava  gli interventi delle ONG,  nei conflitti  a larga scala,  come velleitari perché richiedevano una grande capacità di organizzazione, molti soldi, e molti strumenti (macchine, aerei, ecc,)  che queste non possedevano, o avevano  a livello  non sufficiente. Ma riteneva invece importante il loro impegno dei conflitti a piccola scala   che potevano servire a preparare anche gli altri.

E pensava   che  gli interventi  nei conflitti a grande  scala dovessero essere riservati alle Nazioni Unite, od altri organismi intergovernativi,  con maggiori capacità strumentali ed organizzative delle ONG. Io ero d’accordo su questo ma facevo notare  come gli stati, che controllano  e gestiscono questi organismi, non erano ancora disponibili a fare interventi di questo tipo, e che tendevano invece a privilegiare,  rispetto al  peace-keeping, interventi  di peace-enforcing (imposizione della pace) meno rischiosi per la vita dei loro soldati,  e più produttivi per la vendita delle loro armi   più sofisticate (le cosiddette bombe intelligenti, o gli aerei invisibili, ecc.).

Perciò ritenevo ancora necessario un lungo lavoro dal basso, da parte di ONG che si dovevano organizzare meglio e coordinarsi,  per sperimentare questo tipo di intervento e convincere gli stati, e gli organismi sopranazionali,  a farli propri. Per questo nel grafico presentavo un serie di esperienze , definite da me di “interposizione nonviolenta” o almeno non armata,  come quelle delle PBI, di cui avremo in questo incontro un esempio, che avevano avuto risultati molto positivi.

Ma questi interventi, con risultati positivi, non erano stati solo in conflitti a bassa intensità ma anche  in altri a scala elevata, molti di questi spontanei ed altri invece organizzati ed esterni alla zona del conflitto. Ma concludevo che i risultati migliori, vedi la freccia sul conflitto su  Israele-Palestina, si potevano avere solo mettendo insieme interventi esterni  e quelli interni, come quelli fatti da “Time for Peace” in questa zona. Infatti unendo le forze pacifiste interne ad una determinata situazione, con  quelle esterne interessate ad una soluzione pacifica del conflitto, si poteva  dar vita ad una massa critica molto più forte e molto più capace di influenzare i due attori in conflitto a trovare accordi di pace(13).

Interventi interni ed esterni  e loro collegamento reciproco

Ma questo richiederebbe una maggiore organizzazione dei movimenti, e delle organizzazioni  per la pace, spesso del tutto  divise e talvolta anche in concorrenza  l’una con l’altra. Questo progetto sugli Interventi Civili di Pace, che ci vede oggi insieme per analizzare alcuni esempi di lavoro di questo tipo, e  che ha visto lavorare insieme moltissime organizzazioni italiane, finora slegate, è un ottimo esempio di come dobbiamo, e possiamo,  lavorare.

Ma spesso c’è la tendenza a vedere gli interventi dei Corpi Civili di Pace all’estero come staccati e completamente diversi da quelli che si devono portare avanti nel nostro paese. Questo grafico, anche questo già apparso in un altro mio lavoro (L’Europa ed i conflitti armati)14 mostra invece come questo non sia vero, e come, per avere validi  interventi nonviolenti anche all’estero, bisogna essere  capaci  di usare questa arma per affrontare e possibilmente risolvere anche  problemi interni.

Come si può vedere da questo grafico  quello che ho definito il triangolo della pace necessita di gruppi locali che devono essere ben preparati ad affrontare, con la nonviolenza, i tanti  problemi locali che sono presenti nelle nostre realtà, razzismo, mafia, pregiudizi contro gli immigrati, droga, corruzione, militarizzazione della società (si pensi, ad esempio, a Vicenza)  ecc, ecc.

Un esempio  di questo tipo di lavoro l’abbiamo, in questo incontro, nell’attività dei Berretti Bianchi della Versilia, per la valida  integrazione della popolazione rom ivi presente. Ma il triangolo  necessita anche di avamposti,  che qui abbiamo definito ambasciate di pace, che nei luoghi dei possibili conflitti, o di quelli già in atto,  siano presenti a lungo termine e collaborino strettamente con le tante forze, che, nello stesso luogo, si danno da fare per evitare il conflitto armato e per cercare soluzioni che vadano a vantaggio di tutti, e non solo di una delle parti del conflitto.

Ma il terzo corno del triangolo è una migliore organizzazione a livello nazionale ed internazionale  che permetta di superare le debolezze e le carenze (come fondi, come personale e strutture)  delle singole organizzazioni, come stiamo tentando di fare, a livello nazionale, con questo progetto. Come si vede dal grafico tra questi tre angoli è necessario un continuo interscambio (le freccie di andata e ritorno) che permettano di essere sempre in contatto e organizzarsi, e rispondere, prima possibile, alle esigenze emerse in ciascuno degli altri angoli.

Ed in alcuni casi dar vita ad interventi più episodici ma importanti, che qui definisco “Forze Nonviolente di Pace” (ma l’organizzazione che ha poi preso questo nome in realtà è  stanziale e lavora a lungo termine  nell’isola dello Shri Lanka – come abbiamo visto dall’intervento  videoregistrato di Gabriella Chiani e Guido Gabelli, ambedue laureatisi nel nostro corso per Operatori di Pace dell’Università di Firenze  e che ora lavorano in quel progetto) ma che invece prendono il carattere di  interventi  temporanei,  come missioni  di studio o marce pacifiste e simili , che tendano ad appoggiare il lavoro per la pace fatto dalle organizzazioni locali, dando a queste ultime un appoggio  che spesso non hanno e facendole sentire parte di un movimento più largo  che va ben oltre il confine nazionale.

E’questo ultimo un elemento fondamentale per dar vita ad un processo di globalizzazione dal basso per la pace  che tenda a superare gli scompensi di quella della globalizzazione dei mercati che sta portando  il mondo in una situazione insostenibile. Ma questo è un argomento molto più vasto che rimandiamo ad altri momenti  specifici.


Interventi Civili di pace – Comitato Toscano. INCONTRO SU:
OPERATORI DI PACE IN AZIONE; RACCONTI E TESTIMONIANZE IN TOSCANA E NEL MONDO
Venerdì 27 Febbraio 2009
Palazzo Vecchio – Sala delle Miniature (Firenze)
Relazione introduttiva di Alberto L‘Abate dell’IPRI-Rete Corpi Civili di Pace

Note

1)  Queste frasi, in lingua inglese, sono riportate nei molti siti di citazioni, alla parola “peace”. In italiano sono riportate nel mio “Per un futuro senza guerre”, Liguori, Napoli, 2008, pp. 266-267.

2) Questa dichiarazione è stata fatta da lui stesso  durante un incontro, in Inghilterra, delle Peace Brigades International, a cui era presente anche il sottoscritto. Sul ruolo delle Nazioni Unite e delle organizzazioni da lui fondate in questo campo si vedano gli articoli suoi e di sua moglie, che ha collaborato con lui in queste attività: M. Harbottle “The two faces of peace building, I, The peace building role of United Nations Operations” e I. Harbottle: “The two faces of peace building. II. Peace Building”, ambedue in, Peace and Conflict Studies,  Vol.4, n.1, July 1997.

3) L’intervento del Generale C. P.  Pasqua è riportato in, F. Tullio, a cura di, Una forza nonarmata dell’ONU, Ediz. Formazione e Lavoro, Roma, 1989.

4) Questa frase, che avrebbe potuto mettere in difficoltà la persona in questione verso  i suoi superiori e verso il parlamento stesso non viene riportata negli atti del colloquio, ma tutti i presenti, tra cui il sottoscritto ed anche J.M. Muller, la ricordano bene perché li ha colpiti per la sincerità  e la passione con cui è stata pronunciata. Gli atti del convegno  sono riportati in AA.VV., L’intervention civile: un chance pour la paix. Acte du colloque, Assemblée Nazionale, Paris, 26/27 Octobre 2001, in, Alternatives Non Violentes, n. 124. Una relazione su quanto avvenuto in quell’incontro  si trova anche nel mio libro, citato, “Per un futuro senza guerre”, pp.273-275

5) Sulle ragioni reali di questa guerra, e sulle possibilità non utilizzate della sua prevenzione, si veda il mio articolo La guerra  in Afghanistan e gli errori della politica estera italiana, in, Azione Nonviolenta, n. 3, Marzo, 2007.

6) L’ha sostenuto  Howard Clark, della War Resisters International, e stretto collaboratore del  Balkan Peace Team, autore di un bel libro sulle lotte nonviolente dei kossovari albanesi.

7) Sulle iniziative di Langer,  e del gruppo verde del Parlamento Europeo, per l’attivazione dei  Corpi Europei  Civili di Pace, si vada il libro, curato dalla Segreteria per la Difesa Popolare Nonviolenta, Invece delle armi: obiezione di coscienza, difesa nonviolenta, Corpo Civile di Pace Europeo,  Ediz. Fuori Thema, Bologna, 1996. Si veda anche: A. L’Abate, L. Porta, a cura di, L’Europa ed i conflitti armati, Firenze University Press, 2008.

8) Si  veda Boutros Ghali, An Agenda for peace. Preventing diplomacy, peacemaking and peacekeeping, United Nations, 17 Giugno 1992, ed anche:  A supplement to the Agenda for Peace, United Nations, 1995.

9) Sulle Nonviolent Peace Force  e sulle loro attività comincia ad esserci una letteratura molto vasta, che si può trovare riportata  nel sito www.nonviolentpeaceforce.org

10) Si  veda  la sua relazione al convegno su “Ruolo delle organizzazioni della società civile nei processi di prevenzione e trasformazione nonviolenta  dei conflitti”, Roma 21-22 Novembre 2008,   che è servito  a far conoscere al pubblico italiano   il  progetto “Interventi Civili di Pace”.. La relazione, in power point, si trova nel sito  www.interventicivilidipace.org, alla voce “Materiali”.

11)  Gli atti del convegno (nelle cui conclusioni sono riportate queste idee) molto interessante ed al quale hanno partecipato vari esperti internazionali, e molte persone italiane impegnate in questo campo, non sono ancora stati pubblicati. Alcune delle relazioni, come quella di Truger citata prima  e le conclusioni finali, si possono trovare  nel sito www.reteccp.org curato da M. Cucci, di Bologna.

12)  L’articolo  che riporta le idee di questo studioso,  che ho messo in  discussione, conclusasi con una sua lettera  personale  nella quale si dichiarava del tutto d’accordo con le mie tesi, è  T. Weber, From Maude Royden’s Peace Army  to the Gulf  Peace Team: an assessment  of unarmed  interpositionary peace forces, in  Journal of Peace Research, 30,1,1998. Il libro su questo tema  curato da lui e da Y. Moser-Punagsuwan è: Nonviolent intervention across borders. A recurrent vision, University of Hawaii Press, 2000. Una buona sintesi di questo libro, con altri esempi di interventi di questo  tipo, si può trovare  in M. Pignatti Morano, a cura di,  Il Peace-Keeping non armato, Quaderni Satyagraha, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 2006.

13) Il grafico  è riportato nel mio libro, citato, Per un Futuro senza guerre, a pag. 115.

14) Questo grafico è riportato a pag. 65 del libro, che ho curato insieme a L. Porta, L’Europa ed i conflitti armati, citato.