Seminario di Studio per i Corpi Civili di Pace
Vicenza, 04 – 05 Giugno 2011
L’introduzione dell’assessore alla pace del Comune di Vicenza, Giovanni Giuliari, verte su tre punti:
1. la presentazione del progetto generale di infrastruttura per la pace e i diritti umani presentato alla Regione Veneto in partenariato con il Comune di Vicenza da parte del Centro Inter-dipartimentale di Studi per la Pace e i Diritti dell’Uomo e dei Popoli dell’Università di Padova diretto dal prof. Antonio Papisca,
2. la costruzione del percorso per il centro per i Corpi Civili di Pace (nel seguito: CCP) della IPRI – Rete CCP sotto forma di Centro per la Previsione e Prevenzione dei Conflitti Armati e per la Formazione e Preparazione dei CCP (nel seguito: CPF) eventualmente nella cornice della infrastruttura per la pace e i diritti sotto il coordinamento del prof. Alberto L’Abate,
3. l’ipotesi di configurazione di una rete delle “città militarizzate” (a partire da quelle coinvolgibili in forza delle realtà sociali e istituzionali attivabili, quali Vicenza, Trieste, La Spezia, Pisa, Napoli), con avvio dal mese di settembre, per la creazione di un collegamento istituzionale ad hoc.
La relazione del presidente dell’IPRI – Rete CCP, Alberto L’Abate, illustra i contenuti del CPF. Quest’ultimo non intende essere solo una scuola dal momento che non vuole avere un’impostazione accademica e non vuole riguardare esclusivamente la formazione teorica. La trasformazione dei conflitti, infatti, è una pratica di ricerca-azione che passa attraverso le tre fasi canoniche, individuate da Johan Galtung sulla scorta del raffronto con la pratica medica, della “diagnosi”, della “prognosi” e della “terapia”. Il CPF intende essere, viceversa, un centro integrato, fondato sulla ricerca-azione e orientato alla prevenzione, gestione e trasformazione dei conflitti armati. Più precisamente, il criterio al quale intende ispirarsi è quello propriamente nonviolento della ricerca – educazione – azione, appunto in omaggio alle tre parole – chiave (paradigmi) della nonviolenza.
Ad esempio, il CPF potrà occuparsi almeno dei seguenti cinque aspetti:
1. teoria e prassi della gestione, risoluzione e trasformazione dei conflitti,
2. peace-keeping civile non armato e nonviolento,
3. progettazione e intervento,
4. comunicazione, informazione e “giornalismo di pace”,
5. educazione alla pace (nel senso della promozione sociale) e formazione alla pace (nel senso della preparazione dei CCP).
Si tratta di predisporre dei paradigmi della ricerca-azione che fungano da argomenti – chiave del percorso di formazione ed azione per i CCP e che possano essere ricondotti ai seguenti:
1. invio di delegazioni di pace di volontari, esperti ed operatori di pace,
2. apertura di vere e proprie ambasciate o presidi di pace a livello locale,
3. interposizione civile non armata e nonviolenta per consentire la separazione dei contendenti ed avviare la cosiddetta “fase dissociativa” del lavoro di pace,
4. facilitazione, soprattutto in area socio-relazionale, per consentire la ricostruzione del legame sociale attraverso la diffusione di una comunicazione positiva tra e all’interno delle parti,
5. promozione del processo di pace, attraverso la facilitazione del legame sociale, che possa consentire l’avvio della cosiddetta “fase associativa” del processo,
6. “empowerment” o “rafforzamento” a sostegno in primo luogo delle vittime del conflitto,
7. “confidence building” o “costruzione della fiducia” per consentire il riequilibrio tra le parti e il ristabilimento di condizioni di legame all’interno del tessuto sociale (“equivalenza”).
Si tratta, a ben vedere, solo di alcuni dei punti salienti all’ordine del giorno dell’intervento del CCP.
Ecco perché occorrono delle proposte concrete intorno alle quali costruire il percorso del CPF:
a. intanto, una rete per la prevenzione dei conflitti armati, come sezione italiana di una rete europea quale la GPAC,
b. quindi, un tavolo per la prevenzione dei conflitti armati tra società civile e aggregati istituzionali, a partire dai ministeri (Interni, Esteri, Difesa) direttamente interessati,
c. infine, un fondo unico per la pace, da promuovere attraverso una campagna per un fondo comune da istituire presso la Banca Etica per unificare i fondi O.S.M. (Obiezione alle Spese Militari) e una quota base del 5 per 1000 delle associazioni interessate (si è calcolato che il contributo dell’1% della quota di 5 per 1000 assegnata dal Ministero alle prime venti associazioni beneficiare nella graduatoria annuale ammonterebbe a circa 400.000 euro).
La relazione di Fabrizio Bettini, dell’Operazione Colomba, servizio di intervento all’estero della Comunità Papa Giovanni XXIII, illustra alcune modalità di applicazioni caratterizzanti i CCP:
1. condividere la vita di tutte le vittime del conflitto armato, sulla base della compartecipazione, del ricorso ad uno stile di vita paritario e, per conseguenza, del lavoro di “umanizzazione” del nemico, la condivisione autentica essendo una chiave fondamentale per la fiducia,
2. costruire i presupposti stessi della prevenzione dei conflitti: lenire le ferite, costruire ponti e valicare i traumi, soprattutto allo scopo di inibire i potenziali germi della escalazione conflittuale e per riguadagnare spazio alla condivisione, alla relazione e alla fiducia,
3. garantire la presenza in tutte le fasi del conflitto e, in particolare, nella continuità della vita quotidiana all’interno del contesto – obiettivo, in modo da assicurare la permanenza della presenza, la stabilità del legame e la possibilità di confermare il vincolo fiduciario.
I tre elementi fondamentali che possono garantire, supportare e alimentare la continuità della presenza all’interno del conflitto sono i seguenti:
a. la condivisione: “vivere semplicemente” con una struttura ridotta, una tecnologia accessibile e vicina alle popolazioni ed alle loro condizioni reali di esistenza,
b. la equi-vicinanza: mantenersi cioè “neutrali rispetto alle persone e mai verso le ingiustizie” confermando la vita in presenza presso tutte le parti del conflitto (si tratta, da un lato, di “separare le persone dai problemi”, dall’altro di “distinguere i bisogni dalle rivendicazioni” al fine di non assorbire la soggettività delle parti all’interno della dinamica di conflitto di cui sono già vittime),
c. la non-partigianeria: intervenire nel conflitto senza prendere alcuna bandiera; come si sente pure ripetere, evitare di essere “più palestinesi dei palestinesi e più israeliani degli israeliani”.
Tutto ciò deve ispirare, al tempo stesso, la condotta dell’“operatore di pace” e il criterio operativo dei CCP, in quanto contingenti di attori civili capaci di operare “sul” e “nel” conflitto ad esempio:
1. parlando con le persone,
2. facendo da tramite tra le realtà di base e le istituzioni locali e internazionali,
3. esplicitando i bisogni locali,
4. collegando i bisogni sociali con le istituzioni preposte,
5. attivando, con la “fase dissociativa” e la “fase associativa”, non solo l’esplicitazione dei bisogni specifici, ma anche l’individuazione dei bisogni condivisi tra le parti del conflitto,
6. sollecitando, di conseguenza, condivisione sui bisogni condivisi e sulle possibilità di soddisfacimento che possano essere reciprocamente benefiche per tutte le parti del conflitto,
7. facendo maturare un’autentica “ri-umanizzazione” del nemico attraverso il riconoscimento della comunanza e della reciprocità dei bisogni e delle condizioni,
8. individuando, con gli attori locali, le soluzioni condivise ai problemi reciproci, nell’ottica di pervenire ad una soluzione di mutuo-beneficio (“win-win”),
9. costruendo, infine, occasioni di comunicazione, di relazione e di legame, nell’ottima della ri-costruzione della fiducia per il ripristino del legame sociale.
I CCP non possono quindi prescindere dalla nonviolenza come “paradigma” e come “griglia”, quale orientamento complessivo capace di smontare la violenza dell’altro, di ri-umanizzare la figura dell’altro e di veicolare l’apertura al dialogo. La sofferenza, infatti, che è il portato profondo di ogni conflitto, sta sempre «dalla parte di tutte le parti» che vivono il conflitto. “Ri-conoscere” la sofferenza di tutte le parti è pertanto la condizione necessaria per indirizzare il lavoro di pace nel senso della trasformazione del conflitto e la presenza civile, non armata e nonviolenta, rappresenta un vero deterrente capace di fare da catalisi nella situazione di “blocco” della comunicazione, della relazione e della fiducia scaturita dall’azione del conflitto.
Chiaramente, la problematica dei CCP non si esaurisce nell’individuazione della griglia di lavoro, ma impone di organizzare anche le condotte dei singoli, a partire dall’etica dell’operatore di pace e finendo con una definizione trasparente dei rapporti che i CCP possono e debbono intraprendere con gli “attori terzi” presenti sul campo:
1. intanto, i rapporti dei CCP con gli attori sociali e istituzionali del contesto-obiettivo e quelli legati al coinvolgimento delle amministrazioni centrali e periferiche del contesto di provenienza, in modo da organizzare questi ultimi affinché siano coerenti con l’orientamento alla nonviolenza (trasformazione costruttiva) e non siano in alcun modo compromettenti la qualità del lavoro che si va ad intraprendere, nella consapevolezza che gli attori locali sono i protagonisti della trasformazione del conflitto che loro stessi, in prima persona, vivono;
2. quindi, i rapporti dei CCP con gli attori terzi della cooperazione internazionale e dell’aiuto umanitario, insieme con i quali è spesso opportuno e necessario attivare veri e propri “tavoli di concertazione”, in modo da definire le modalità della presenza sul campo, condividere i reciproci ambiti di specificità e non sovrapposizione e configurare le aree di impegno condiviso che, dal punto del vista del CCP, afferiscono alla cooperazione economica e all’aiuto umanitario in quanto “conflict sensitive” cioè in contesti, situazioni e modalità “sensibili al conflitto”;
3. infine, i rapporti dei CCP, in quanto attori civili non armati e nonviolenti, con i militari, in relazione ai quali vanno chiaramente definiti mandato, operatività e compiti, sancendo la completa indipendenza, autonomia ed alterità del modello di intervento dei CCP da quello proprio delle forze militari (salvo in casi specifici, contingenti ed emergenziali) sia per tutelare la sicurezza del lavoro dell’operatore civile in quanto direttamente esposto alla relazione sociale nel contesto locale sia per segnalare l’alternativa del modello di sicurezza e difesa rappresentato dai CCP rispetto al militare.
E’ in questa cornice generale che si “situa” la configurazione possibile di un CPF.
Nelle relazioni poste ad istruire il lavoro dei GDL tematici, rispettivamente tenute da Giovanni Salio, del Centro Studi Sereno Regis, in relazione al profilo generale di un CPF, da Salvatore Saltarelli, già dirigente della Formazione Professionale della Provincia Autonoma di Bolzano, in riferimento al prospetto organizzativo di un CPF, e di Raffaella Lamberti, della Rete di Donne per la Pace, in funzione della individuazione dello specifico contributo di genere all’azione del CCP, vengono segnalati alcuni criteri direttori di un CPF:
a. il radicamento nella storia, nella realtà e nella cultura del territorio di riferimento (Vicenza),
b. il coinvolgimento di organizzazioni dedicate di società civile per evitare lo “specialismo accademico”,
c. l’impostazione basata sulla ricerca-azione, essendo il profilo specifico del CCP votato all’azione,
d. la collaborazione democratica con l’Università in modo da impostare una relazione proficua,
e. l’orientamento generale alla gestione dei conflitti pur con diversi ambiti ed aree di specializzazione.
Il lavoro sviluppato all’interno del GDL dedicato alle Scuole di Pace, in particolare al loro profilo, programma, contenuto, obiettivo e metodologia, focalizza immediatamente, nel brainstorming introduttivo, una serie di questioni dirimenti ai fini dell’impostazione del CPF:
1. il carattere della formazione, soprattutto in riferimento alla tipologia dei moduli formativi,
2. il livello di specializzazione cui la formazione per i CPF dovrà dare corso,
3. l’impostazione della metodologia orientata alla ricerca-azione a valenza professionalizzante,
4. la qualità del rapporto con le istituzioni pubbliche ed accademiche e le servitù militari,
5. l’orientamento della formazione per CCP in termini di articolazione della fase “associativa” e della fase “dissociativa”, a seconda che si privilegi il lavoro di capacitazione ovvero di mediazione, a sostegno delle istanze di auto-determinazione delle vittime piuttosto che di mediazione tra tutte le parti del conflitto,
6. il significato che, sin dall’impostazione della formazione, deve essere attribuito al tema della equi-vicinanza piuttosto che della equi-distanza, in virtù del presupposto che il lavoro dei CCP è atto a promuovere tutti i diritti umani per tutti, non come parte terza “esterna”, bensì come parte terza “interna” al sistema degli attori presenti sullo scenario di conflitto, a ragion veduta, la condivisione con tutte le parti essendo una chiave decisiva per il lavoro di fiducia,
7. di conseguenza, il lavoro che, anche in questo caso, sin dall’impostazione della formazione, va effettuato per organizzare gli strumenti teorici, pratici ed operativi che consentano al personale impegnato in CCP di condurre consapevolmente il lavoro tanto nella fase “dissociativa” quanto nella fase “associativa”, sapendo “essere” ugualmente vicino a tutte le parti e “agire” per la promozione dei diritti umani indagando le cause profonde del conflitto.
Sotto il profilo dei presupposti teorici (paradigmi) della formazione per i CCP va tenuto fermo l’ancoraggio alla nonviolenza: intanto, in forza delle considerazioni sviluppate nella relazione mattutina da Fabrizio Bettini e quindi nella relazione istruttiva da Nanni Salio, in quanto la nonviolenza è l’unico presupposto capace di agire la chiave dell’empatia nella costruzione del legame della parte terza con le parti in causa e di situare i CCP in sintonia con le ragioni, distinguendole dalle rivendicazioni, degli attori del conflitto, distinguendoli dalle sue cause profonde. Inoltre, tale ancoraggio è decisivo per orientare l’etica e quindi definire la condotta dell’operatore di pace in quanto attore del CCP: questo sia in funzione dello stabilimento di una condotta di vita e di una pratica di intervento adeguate, consone e rispettose delle condizioni di vita nel contesto in cui si va ad operare, sia in relazione al compito proprio dell’operatore di pace di sviluppare empatia, attivare i canali della comunicazione, promuovere fronti di legame tra tutti i soggetti del conflitto. La nonviolenza assume anche la forma di un criterio sulla base del quale orientare la condotta in relazione agli attori terzi presenti sullo scenario, da quelli della cooperazione economica e dell’aiuto umanitario, a quelli delle forze di sicurezza e delle forze militari, il rapporto con le quali va ridotto ai casi di estrema necessità ed assunto in ogni caso con il consenso dell’intero contingente di CCP.
Vi sono certamente dei “modelli” teorici di riferimento che possono supportare il lavoro della formazione e il carattere dell’impegno dei CCP, tra questi, nella sua relazione di approfondimento all’interno del GDL, Nanni Salio mette a fuoco almeno quelli facenti capo a Pat Patfort, Johan Galtung e Daniele Novara.
1. Il modello di Pat Patfort è essenzialmente di ispirazione antropologica e di carattere socio-relazionale. Esso si basa sulla contrapposizione tra le posizioni “M/m” (Maggiore/minore) ed “E” (Equivalenza). La dinamica del conflitto tende sempre a riprodurre, nella posizione di forza degli attori in campo, una schematizzazione del tipo Maggiore contro minore, in quanto ciascuna parte cerca di presentare le proprie caratteristiche, istanze, obiettivi, finalità e/o condotte come “migliori” o “prevalenti” rispetto a quelle delle altre parti, cercando di mettere sé in posizione Maggiore e l’altra parte (persona, gruppo, istanza) in posizione minore. Ciò determina i cosiddetti “meccanismi della violenza”:
a. violenza contro la parte in posizione Maggiore, cui seguirà una vera e propria “escalazione” della violenza;
b. violenza della parte in posizione minore scaricata contro una terza parte, cui seguirà una vera e propria “catena” della violenza;
c. violenza della parte in posizione minore contro di sé e conseguente “interiorizzazione” della violenza.
Se il modello M/m determina la riproduzione della violenza ed è alla base delle escalazioni del conflitto e della degenerazione del conflitto in violenza ed eventualmente in violenza armata (conflitto armato e guerra), il modello E rappresenta l’alternativa per giungere ad una soluzione nonviolenza del conflitto, attraverso, schematizzando, tre passaggi fondamentali:
a. individuare le ragioni legittime di tutte le parti in modo da predisporre il piano per la “equivalenza”;
b. ricercare i fondamenti, in quanto basi comuni della relazione, attraverso la comunicazione, la relazione e il dialogo;
c. individuare ipotesi creative per giungere a delle soluzioni condivise e di mutuo beneficio che possano quindi “concretizzare” la relazione equivalente tra le parti.
2. Il modello di Johan Galtung è essenzialmente di ispirazione costruttivista e di carattere socio-razionale. E’ difficile schematizzare il pensiero di Galtung in una sintesi esauriente. E’ possibile tuttavia individuare i suoi capisaldi, che sono almeno tre:
a. l’individuazione delle diverse matrici della violenza (strutturale, culturale, fisica) per giungere ad ipotesi di superamento della violenza capaci di inter-agire su tutti e tre i livelli,
b. il superamento dell’ipotesi della “trasformazione” in un vero e proprio “trascendimento” dei conflitti attraverso la collocazione della relazione conflittuale tra le parti ad un livello ulteriore capace di perseguire soluzioni di effettivo e completo “mutuo beneficio”,
c. il ricorso alla chiave delle “3 C” che dovrebbero connotare tutte le ipotesi di soluzione positiva di un conflitto in vista del suo trascendimento: concretezza, creatività e costruttività.
Per essere insieme “concreta” (cioè visualizzabile, non astratta), “creativa” (cioè innovativa, non stereotipa) e “costruttiva” (cioè positiva, capace di ri-organizzare la relazione su nuove basi), la proposta di risoluzione, trasformazione e, in definitiva, trascendimento del conflitto, deve essere in grado di riconoscere le aspirazioni legittime di tutte le parti e di individuare un piano nuovo in cui queste aspirazioni legittime delle parti possano essere soddisfatte in termini nuovi.
Ciò implica di affrontare tutti i piani (A, B, C) su cui si esercita la matrice della violenza: il paradigma (A, B, C) racchiude gli elementi fondanti di un conflitto, in cui B (Behaviour) rappresenta il piano manifesto, a livello dei “comportamenti” delle parti: empirico, osservabile e conscio; A (Attitude) e C (Contraddiction) rappresentano il piano latente, a livello rispettivamente delle radici culturali (il retroterra morale piuttosto che le culture profonde) e delle radici strutturali (il retroterra materiale piuttosto che le contraddizioni economiche) delle parti: teorico, deducibile e subconscio.
Il processo di trascendimento del conflitto, sul quale si basa il cosiddetto “Metodo Transcend” consiste nel collocare il potenziale risolutivo inespresso sul piano visibile rendendolo una realtà empirica: trascendere gli obiettivi delle parti trasponendo il conflitto su un piano reciprocamente accettabile al fine di pervenire ad una risoluzione condivisa di mutuo beneficio basata su una proposta innovativa e ri-creativa.
3. Il modello di Daniele Novara è essenzialmente di ispirazione pedagogica e di carattere maieutico, ispirato alla maieutica di Danilo Dolci ed orientato alla maturazione dei contenuti formativi dall’esperienza soggettiva e relazionale del singolo. In tal senso, è possibile ricavarne, ai fini dell’impostazione della formazione, alcune indicazioni di estremo rilievo.
I CCP, infatti, costituiscono fondamentalmente un insieme di persone che perseguono un obiettivo comune: di conseguenza, sono, come tali, soggetti a tutte le dinamiche, potenzialità e conflitti che attraversano i cosiddetti “gruppi orientati” nonché alle contraddizioni specifiche determinate dal perseguimento di un obiettivo comune sulla base di una griglia di lavoro condivisa che va costruita insieme e con il concorso di tutte le parti in causa. Il metodo pedagogico – maieutico assume quindi una importanza decisiva se si considera che, al livello della “formazione di base”, l’obiettivo formativo è quello di sviluppare le capacità in termini di “saper essere”, “saper fare” e “saper stare” proprie dell’operatore di pace impegnato in un contesto di CCP, non solo del singolo ma anche del gruppo nel suo insieme. D’altro canto, al livello della cosiddetta “formazione specialistica”, sia che questa sia orientata alla funzione, sia che questa sia orientata al contesto, le tre abilità fondamentali richiamate sopra devono sapersi coniugare con le competenze proprie dell’ambito specialistico in questione e con le abilità specifiche della costruzione di legame o empatia (di gruppo e tra il gruppo e il contesto-obiettivo, con l’insieme di attori, del conflitto e “terzi”, che lo “abitano”). Il metodo maieutico costituisce, in tal senso, una risorsa, anche ai fini dell’impostazione della formazione come “continuo”, vale a dire come formazione “in itinere” capace di attraversare tutti i momenti del dispiegamento del CCP, precedente, durante e successivo l’invio in area di conflitto.
Oltre ai “modelli” teorici, si impongono poi alcuni “orientamenti” metodologici. Nella sua relazione di facilitazione, Gianmarco Pisa indica alcune tracce di lavoro, al fine di comporre una vera e propria “griglia” di lavoro su cui impostare l’architettura formativa del CPF:
a. il riferimento alla Scuola e al CPF come luogo complesso che tenga insieme sia la dimensione della previsione e prevenzione dei conflitti, sia la dimensione della formazione e preparazione dei CCP: al primo ambito appartengono compiti quali l’early warning (“allarme preventivo”) e l’early action (“azione preventiva”) e quindi compiti di analisi e prevenzione dei conflitti (area del lavoro “sul” conflitto), mentre al secondo ambito appartengono compiti quali l’impostazione della formazione, la metodologia di ricerca-azione e l’organizzazione (in termini di mandato, composizione, profilo, obiettivi e attività) dei CCP (area del lavoro “nel” conflitto);
b. il CPF traguarda alcune dimensioni specifiche del cosiddetto “lavoro di pace”: l’area della “formazione” alla pace è quella che deve contraddistinguere i contenuti motivazionali, emotivi, cognitivi, professionalizzanti e relazionali capaci di mettere il CCP in condizione di operare in maniera costruttiva, viceversa l’area dell’“educazione alla pace” rientra nei compiti di promozione sociale del CCP volti alla maturazione di una cultura di pace diffusa capace di inibire l’insorgenza del conflitto violento, tanto nei contesti di destinazione quanto nei contesti di provenienza;
c. la formazione dei CCP deve riguardare tanto l’aspetto personale, motivazionale ed etico, quanto l’aspetto delle conoscenze, competenze e capacità che sono richieste al lavoro di prevenzione, gestione e trasformazione dei conflitti; a loro volta, i CCP vengono concepiti, in base a questa formazione, come equipe di personale capace di operare consapevolmente “sul” e “nel” conflitto, costituita in misura paritaria da professionisti (operatori di pace dotati di qualifica professionale e laureati in “Operazioni di Pace” dotati di pregressa esperienza sul campo) e da volontari (sia giovani in Servizio Civile sia volontari, giovani e adulti, formati e dotati di precedente esperienza sul campo);
d. ciò significa che la formazione deve prevedere due livelli: un livello base a contenuti generali/trasversali (nozioni fondamentali del lavoro di pace e dei modelli generali di analisi dei conflitti, tecniche e modelli base del lavoro di interposizione, mediazione, negoziazione, facilitazione e promozione dei diritti umani, nozioni-base di diritti umani e diritto umanitario, conoscenze linguistiche e comunicative) per garantire la necessaria preparazione ai volontari a rotazione e/o a quanti non si rendano disponibili per missioni complesse di lungo periodo; ed un livello superiore a contenuti specifici/professionali (modelli di prevenzione, gestione e risoluzione dei conflitti, teoria e pratica della trasformazione, promozione del processo di pace, area “conflict sensitive” della cooperazione internazionale e dell’aiuto umanitario, mediazione inter-culturale e tecniche avanzate di mediazione, negoziazione e facilitazione, nozioni avanzate di diritti umani e di diritto umanitario, conoscenze linguistiche e competenze comunicative a livello avanzato) per garantire la necessaria preparazione ai volontari di lungo periodo e/o a quanti intendano mettersi a disposizione in maniera continuativa e professionale del lavoro di trasformazione dei conflitti;
e. di conseguenza, la formazione del personale e la preparazione di contingenti di CCP necessitano di un collegamento istituzionale a tutti i livelli, non solo per garantire un adeguato riconoscimento della Difesa Civile Non Armata e Nonviolenta, nel cui contesto anche l’azione dei CCP si inserisce, ma specificamente per segnalare l’obiettivo istituzionale di verificare un modello alternativo di sicurezza e difesa, basato non più sulla centralità dello strumento militare, bensì sul primato della componente civile in tutti gli ambiti di pertinenza civile (aiuto umanitario, cooperazione internazionale, promozione dei diritti, mediazione inter-culturale, lavoro di pace): le stesse relazioni con i militari vanno quindi ridotte alle sole esigenze improcrastinabili di sicurezza personale ed esclusa la possibilità di accompagnamento armato, utilizzo di mezzi militari e formazione da parte dei militari.
Una focalizzazione assai interessante viene offerta dal GDL alla questione, annosa e controversa, della “istituzionalizzazione”: più voci fanno notare come la mera “copertura istituzionale” possa essere non solo negativa ma addirittura controproducente, laddove invece il “riconoscimento istituzionale” rappresenta un obiettivo da perseguire, soprattutto se questa legittimazione venga garantita, prima ancora che dalle istituzioni, soprattutto e fondamentalmente dalla cittadinanza, a partire dal territorio di provenienza (Vicenza, nel caso della CPF, la “rete delle città militarizzate” se vediamo in tutta la sua estensione, sul territorio italiano, il lavoro per la pace e contro la militarizzazione). Il presupposto dell’“aggancio istituzionale” è quindi offerto dall’esistenza di una “base sociale” del lavoro dei CCP capace di fare pressione “dal basso”, in modo da segnalare l’attivazione della società civile su un compito propriamente istituzionale come quello di prevenire e risolvere i conflitti armati, costringendo per questa via le istituzioni ad assumersi la propria responsabilità e fare altrettanto. Va opportunamente segnalato, infatti, che i CCP sono uno strumento della società civile per la prevenzione dei conflitti violenti e come tali vanno “agiti”.
Nelle sue conclusioni al lavoro dei gruppi, l’assessore Giovanni Giuliari così sintetizza le proposte emerse dai GDL:
1. il segno che può caratterizzare l’effettiva “cittadinizzazione” del Parco della Pace promesso sull’area Est in via di ri-conversione dell’aeroporto militare Dal Molin è esattamente la realizzazione della Scuola di Pace, nella forma di un CPF, proposta dalla IPRI – Rete CCP,
2. il fatto che l’area dimessa non possa essere edificata implica che si debba ri-creare una struttura pre-esistente, che “parli” a tutta Vicenza, sia sentita “propria” dalla città, esprimendo un legame ed una connessione forti con il territorio, ed abbia a sua volta una forte proiezione nazionale ed europea,
3. l’obiettivo è dunque quello di tradurre in progettazione e realizzazione quanto sin qui analizzato e discusso, individuando le strutture adatte, attivando le necessarie collaborazioni, con un mandato e un finanziamento ad hoc.
Il seminario di studio trova il suo culmine nella lectio magistralis tenuta il giorno seguente da Johan Galtung presso l’Odeo del Teatro Olimpico della capitale palladiana. Galtung mette subito in risalto le quattro caratteristiche peculiari del CCP che deve essere:
1. un servizio di sviluppo “di base” per contribuire alla fuoriuscita dei più poveri dal loro stato di povertà, deprivazione ed inibizione all’accesso alle risorse della comunità,
2. un servizio di sviluppo “dal basso” per contrastare gli effetti della mondializzazione capitalistica nel senso della reciprocità, dal momento che «l’aiuto senza reciprocità è un insulto»,
3. un servizio di “costruzione del dialogo” dal momento che lavorare per la pace significa mantenere un rapporto costruttivo con tutti affinché il CCP sia legittimato presso tutte le parti, riconoscendone quindi gli interessi legittimi, gli obiettivi motivati e i bisogni condivisi,
4. un servizio “internazionale” e “internazionalizzato”, dal momento che deve essere in grado di agire a tutte le latitudini ed ogni qual volta le condizioni di guerra, crisi o emergenza lo richiedano; inoltre deve essere composto da personale multi-etnico ed inter-nazionale.
L’internazionalizzazione costituisce una dimensione fondamentale del CCP dal momento che il CCP deve rappresentare un servizio di pace transnazionale ed in quanto deve possedere lo sguardo lungo della visione globale, che oggi non si esaurisce più a cavallo dell’Atlantico, tra Europa Occidentale e Nord America. Secondo indicatori statistici, basati sul rapporto tra numerosità degli eventi bellici innescati ed incidenza spazio-demografica, i Paesi più belligeranti al mondo sono, nella storia recente (in quest’ordine), gli Stati Uniti, lo Stato di Israele e l’Impero Ottomano, rapidamente seguiti in questa triste graduatoria da molti degli Stati del cosiddetto blocco atlantico, alcuni dei quali, peraltro, con attive matrici di profonda ambiguità (l’ambiguità, peraltro, non sempre mostra lo stesso volto, l’ambiguità cinese, ad esempio, è ben più creativa di quella italiana, che sembra essere piuttosto un’ “ambiguità di interesse”).
Oltre a “dover essere” i quattro profili sopra rappresentati, il CCP deve “saper fare” alcune cose:
1. mantenere il contatto con la realtà politica e i luoghi in cui il potere assume le decisioni,
2. trasferire le proposte di risoluzione dei conflitti dagli operatori di pace ai decisori pubblici,
3. avanzare proposte che siano come le 3 C: costruttive, concrete e creative come detto sopra e
4. operare la risoluzione del conflitto nel senso della trasformazione e della “trascendenza”.
L’esempio “di scuola” è quello della mediazione condotta da Galtung nel contesto della guerra tra Ecuador e Perù per l’attribuzione di sovranità su una regione di confine, il cui “status” non era stato risolto all’indomani della guerra del 1941, essenzialmente perché non si conosceva il territorio e di conseguenza non se ne potevano individuare i confini. La mediazione di Galtung ha consentito prima di effettuare una mappatura del conflitto e poi di avanzare una proposta concreta, innovativa e percorribile. Si trattava anzitutto di individuare il problema specifico: come tracciare il confine? Quindi di focalizzare, nella cornice del problema specifico, l’aspetto saliente della controversia: come tracciare il confine in mancanza di una frontiera simbolica che possa fungere da riferimento? Infine di dotarsi di un obiettivo saliente, in modo da organizzare il processo della mediazione e della risoluzione in maniera adeguata e coerente con il fine posto: come tracciare un confine, in mancanza di una frontiera simbolica, in modo che tale confine non sia una linea retta arbitraria?
La linea retta arbitraria è, al contempo, figlia della geometra cartesiana, quindi ancorata ad un universo concettuale del passato, che è stato superato dalle geometrie sferiche, che alludono ad universi prospettici capaci di contenere in sé una promessa di futuro; ma anche figlia del colonialismo occidentale, che ha ricoperto la superficie del continente africano (e non solo) di confini arbitrari fatti di linee rette che sono ancora oggi, in molti casi, causa di conflitti sanguinosi.
Ecco allora scaturire la proposta di una soluzione creativa: un confine che sia non una linea retta che funga da barriera, bensì una superficie di condivisione amministrata come un condominio. In pratica: un parco naturale bi-nazionale a sovranità congiunta nella regione della foresta al confine tra i due Paesi. La proposta è, insieme, innovativa, creativa e concreta: supera lo stallo determinato dal conflitto, colloca il conflitto su un piano nuovo precedentemente inesplorato e consente di visualizzare la soluzione, per la sua immediata concretezza. La concretezza della proposta, a sua volta, dipende dal grado di aderenza con le matrici delle “culture profonde”, che hanno un impatto assai significativo sul conflitto: è nelle “culture profonde” che si radicano i modi di pensare e di agire, è ancora nelle “culture profonde” che bisogna incidere per cambiare schemi e comportamenti.
La risoluzione dei conflitti si fonda dunque sulla creatività: ma la creatività o si insegna o si costruisce, mettendosi costantemente alla prova dei problemi, delle esperienze e delle persone. E’ questa l’ambivalenza di fondo: se i conflitti si caratterizzano normalmente per la mancanza di creatività, dal momento che tendono a polarizzare, cristallizzare e fossilizzare le ragioni, le istanze e le rivendicazioni, viceversa le soluzioni ai conflitti devono essere sempre creative perché devono consentire di pensare, immaginare e visualizzare concretamente delle alternative che consentano di soddisfare quanto più possibile i bisogni lettimi che le parti avvertono.
Dunque, alla soluzione creativa si perviene attraverso il dialogo costruttivo: il dialogo attraverso cui si giunge ad una soluzione creativa prevede sempre una “fase dissociativa” (si dialoga inizialmente uno per volta per dare a ciascuno la facoltà di esprimersi liberamente) ed una “fase associativa” (si dialoga successivamente insieme per provare ad individuare una soluzione creativa che sia anche condivisa). Un altro esempio, un po’ meno di scuola: un conflitto di coppia tra un lui, venditore di biciclette, ed una lei, praticante buddista; lui, da lei accusato di essere materialista, di pensare solo ai soldi etc. e lei, da lui accusata di essere esoterica, di vivere sopra una nuvola etc. Tuttavia, dietro le rivendicazioni contrapposte, vi sono degli interessi legittimi che bisogna sforzarsi di ri-conoscere: è interesse legittimo quello di fare con coscienza il proprio lavoro ed aspettarsi una giusta remunerazione, come è interesse legittimo quello di coltivare la propria spiritualità e ritagliarsi lo spazio e il tempo che si ritiene opportuno e necessario. D’altro canto, ancora dietro gli interessi legittimi, vi sono i bisogni legittimi, che è doveroso saper indagare ed individuare: può essere legittimamente un suo (di lui) bisogno quello di affermarsi nel lavoro per affermare una propria posizione sociale ed altrettanto legittimamente un suo (di lei) bisogno quello di coltivare la sua spiritualità per sfuggire ai morsi dell’alienazione sociale. Il conflitto, dunque, si può risolvere solo riconoscendo gli interessi legittimi, dando conferma ai bisogni legittimi ed individuando un piano, su cui collocare il conflitto, all’interno del quale i bisogni legittimi fondamentali di entrambe le parti possano trovare soddisfazione: investire tempo, risorse e denaro, ad esempio, in una libreria di libri buddisti, in cui lui possa continuare a praticare il commercio, gli affari e il successo e lei possa continuare a sperimentare l’esercizio della vita riflessiva, interiore e spirituale. La soluzione è, al tempo stesso, innovativa (nuova rispetto alla situazione di fatto precedente), creativa (determina una realtà nuova che prima semplicemente non esisteva) e concreta (un negozio è ben visualizzabile …).
Se in queste “3 C” si condensano i caratteri della proposta per la risoluzione costruttiva del conflitto, la strada per giungere alla definizione della proposta creativa nei suoi caratteri specifici passa attraverso tre passaggi:
1. l’empatia: è la condizione per capire profondamente come è la vita dell’altro mettendosi nelle vesti dell’altro; per farlo, è necessario conoscerne tanto la cultura profonda quanto la struttura profonda,
2. la nonviolenza: è il dispositivo necessario per la conoscenza della cultura profonda e della struttura profonda dell’altro, senza la quale ogni sforzo di empatizzazione autentica diventa forzoso e velleitario,
3. la creatività: è lo strumento che consente di immaginare l’inimmaginabile, vale a dire ciò che fino ad un istante prima era ritenuto fuori dal tempo e dallo spazio e che consente di individuare uno spazio ed un tempo nuovi in cui “situare” la dinamica del conflitto.
La nonviolenza è, insieme, verbale e pratica. Essa richiede una propensione all’uso sia nella comunicazione di natura verbale sia nell’azione orientata alla ri-conciliazione. Inoltre, essa impone di:
a. evitare la critica e la moralizzazione,
b. proporre un’uscita costruttiva in modo da consentire il cambiamento,
c. identificare gli interessi, i bisogni e gli obiettivi legittimi delle parti,
d. non criticare l’idea inefficace, ma proporre l’idea accettabile e
e. organizzare un’idea accettabile in maniera tale che possa diventare un’idea condivisa.
A sua volta, un’idea è accettabile se è fondata:
a. sui bisogni fondamentali possibilmente di tutte le parti in causa,
b. sui diritti di tutte le parti in causa di ogni ordine, livello e generazione (tanto i diritti civili e politici, quanto i diritti economico-sociali e culturali, quanto i diritti dei popoli e dell’ambiente),
c. sulle leggi giuste (non necessariamente sulle leggi sic et simpliciter) in quanto non siano la diretta formalizzazione dell’ideologia delle classi dominanti (come le idee dominanti anche le leggi imposte sono le idee e le leggi della classe dominante).
Dunque, la nonviolenza è la ricerca del “punto di equilibrio” legittimo presente in ciò che dice o fa una persona, un gruppo, una comunità. Ricercare l’equilibrio tra i “punti di equilibrio” legittimi nelle posizioni delle diverse parti in causa è ciò che consente di pervenire ad una soluzione di “reciprocità”. Inoltre, la “reciprocità” trova il suo fondamento nella “mutua responsabilità”, un po’ come nell’esempio dell’area di confine bi-nazionale a sovranità congiunta nel caso del conflitto tra Ecuador e Perù, oppure in quello della creazione di una libreria buddista nel caso del conflitto tra lui e lei, oppure ancora in quello della federazione “di” e “tra” soggetti istituzionali ampiamente autonomi come nel caso della Confederazione Elvetica. Pervenire alla soluzione di reciprocità, significa organizzare il processo di “trasformazione” orientato al “trascendimento” attraverso tre compiti decisivi:
1. la mappatura: individuare, focalizzare ed analizzare le parti, gli scopi e i conflitti come scopi incompatibili,
2. la legittimazione: agire per garantire legittimità ai bisogni, alle istanze ed agli obiettivi dell’altro, in modo da consentire l’umanizzazione dell’altro,
3. la proposta: il dialogo, la reciprocità e il pluralismo aprono a soluzioni concrete, creative ed innovative e allargano spazi per la trasformazione costruttiva e il “trascendimento”.
La nonviolenza è il contrario della guerra: la guerra è un’istituzione nata per dare il permesso istituzionale alle persone di scagliare il proprio trauma contro un nemico presunto come “terapia” del proprio trauma. Lo Stato borghese dà il permesso, il mandato e la legittimazione per scagliare la “traumatizzazione sociale” contro il presunto nemico come vera e propria “terapia sociale” collettiva. Ecco perché la comunità diventa problematica quando è attraversata da moltitudini traumatizzate.
Al contrario, la “pace positiva” si fonda sull’uguaglianza “delle” e “nelle” strutture, in termini di parità, simmetria, reciprocità, mutualità e cooperazione; di conseguenza, l’uguaglianza non è formale ma è nelle strutture fondamentali della società e si traduce nelle condizioni di uguaglianza nell’accesso (alle risorse, ai servizi, al potere …). Il modello occidentale non guarda alla “pace positiva”: in Occidente, la pace è normalmente concepita come una forma del dominio; in Oriente, la pace è sempre una forma dell’armonia. È forse altrove che bisogna guardare, per scorgere il futuro.
Nota Bibliografica
- Francis D., “Culture, Power Asymmetries and Gender in Conflict Transformation”, Berghof Institute;
- Galtung J., “After Violence: 3R – Reconstruction, Reconciliation, Resolution”, Transcend Edition;
- Galtung J., “Peace by Peaceful Means. Peace and Conflict, Development and Civilization”, London, 1996;
- Lederach, J. P., “Building Peace. Sustainable Reconciliation in Divided Society”, Tokio UN University, 1994;
? Paatfort P., “Up-rooting Violence. Building Non-violence”, Free Port Maine (USA), 1995.
Gianmarco Pisa, Operatori di Pace – Campania ONLUS, IPRI Rete CCP
www.operatoripacecampania.it
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