Alternativa nonviolenta dei Corpi Civili di Pace

Nanni Salio

È il vecchio sogno che sin dagli anni ’30 del secolo scorso Gandhi aveva immaginato e che solo ora si va man mano realizzando, seppur lentamente: gli Shanti Shena, le Peace Brigades, che oggi hanno assunto nomi e forme diverse, e chiamiamo convenzionalmente “Corpi civili di Pace” (CCP).

Il dilemma dei diritti umani

La nonviolenza si basa su due principi morali principali. Primo: non commettere violenza, noto come principio dell’amore, o ahimsa. Ma altrettanto importante e legato al primo è il secondo principio: non omettere, non lasciar compiere violenza. Questo secondo principio ha portato Gandhi a distinguere tra la nonviolenza del debole e quella del forte, del coraggioso, il satyagraha.
Tutti noi ci troviamo quotidianamente di fronte al dramma della violenza compiuta da singoli, da gruppi, nel micro come nel macro. Abbiamo anche proclamato solennemente una gran quantità di diritti umani, articolati in svariati modi (diritti dei bambini, delle donne, degli anziani, dei disabili, ecc.),

Ma la difesa dei diritti umani implica la soluzione di un dilemma: se interveniamo in difesa di chi sta subendo violenza, discriminazione, violazione dei propri diritti, e a nostra volta usiamo violenza violiamo i diritti di altri esseri umani, coloro che in quel momento si rendono colpevoli della violazione. In altre parole, la difesa dei diritti umani vale per tutti, per le vittime come per i persecutori.
Oggi la maggior parte della violazione dei diritti è causata da istituzioni statali contro i propri cittadini (come è avvenuto sempre anche in passato, in modo clamoroso con i grandi stermini di massa e i genocidi (Si veda l’imponente opera di documentazione di R.J. Rummel, Statistics of Democide). Le istituzioni statali usano gli eserciti che sono la principale minaccia dei diritti umani e quando intervengono creano disastri che si protraggono nel tempo e nello spazio.

I CCP costituiscono la soluzione creativa, positiva ed efficace a tale dilemma.

Le lezioni che non abbiamo appreso

Purtroppo, sono molte le lezioni che non abbiamo appreso dalla storia e quindi non dobbiamo meravigliarci che i CCP siano ancora un progetto in divenire. Di queste lezioni non apprese, parla con grande saggezza un personaggio autorevole come Robert McNamara (Si veda il bellissimo film The Fog of War di Errrol Morris, disponibile in DVD. Il testo dei dialoghi, con le undici lezioni, si trova online).

Ma anche Robert Fisk conclude amaramente una sua riflessione sui cinque anni di guerra in Iraq dicendo che “L’unica lezione che abbiamo appreso è che non abbiamo appreso nulla” (The Only Lesson We Ever Learn Is That We Never Learn, The Independent – 19 March 2008).

Purtuttavia, c’è chi non perde la speranza e Gareth Evans dell’International Crisis Group individua “cinque lezioni sui conflitti mortali” che, se apprese, potrebbero permetterci di porre fine alle guerre (Ending Deadly Conflict: Just a Dream?):

Primo: riconoscere che lo sforzo per prevenire i conflitti mortali funziona, non stiamo sprecando il nostro tempo.
Secondo: riconoscere che la forza militare ha dei limiti profondi come strumento politico; il modo migliore per fermare la guerra è non cominciarla.
Terzo: riconoscere che la più efficace politica estera per qualunque paese, qualunque sia il suo peso, è quella di un equilibrio tra realismo e idealismo.
Quarto: riconoscere che non ci sono alternative alla cooperazione internazionale.
Quinto: riconoscere che non ci sono alternative alla leadership.

A questi punti se ne possono certamente aggiungere altri, ma è importante riconoscere esplicitamente il fallimento delle politiche militari, oggi ancor più che in passato.

Purtroppo, queste lezioni non sono ancora state apprese in misura adeguata né da coloro che hanno potere decisionale, né dalla cittadinanza che è tenuta all’oscuro e indottrinata mediante un apparato mediatico che consente di manipolare l’informazione amplificando oppure ignorando gli eventi, costruendo vere e proprie campagne di disinformazione di massa (armi di disinformazione di massa invece che armi di distruzione di massa) e di propaganda nel miglior stile goebbelsiano. Un ruolo specifico in questo campo viene svolto dal Pentagono e dal complesso militare-industriale nell’informazione. (Si veda: “Coercizione mentale: come militari e servizi segreti si sono impadroniti delle notizie”)

La nonviolenza conviene

Oltre che più efficace e funzionale, l’intervento nonviolento mediante contingenti di CCP conviene anche. Dietrich Fischer, direttore della rete Transcend, ha messo a confronto il costo della mediazione internazionale operata da civili, come nel caso dei CCP, con quello dell’intervento militare. (On the relative cost of mediation and military intervention).

Egli ricorda che:

“Negli anni ’80, il timore di una guerra nei Balcani si concentrava sulla Romania, dove 1,6 milioni di ungheresi e più di trenta milioni di persone appartenenti a altre minoranze convivevano con una popolazione di 23 milioni di romeni. Romania e Ungheria erano nemiche in entrambe le guerre mondiali ed entrambe commisero atrocità e si contesero reciprocamente alcuni territori. Timore e diffidenza avevano radici sempre più profonde. Ma Allen Kassoff e due suoi colleghi del Project on Ethnic Relations di Princeton riuscirono a far incontrare quattro rappresentanti senior del governo romeno e quattro rappresentanti delle minoranze. In due riunioni di tre giorni ciascuna in Svizzera e Romania, contribuirono al raggiungimento di un accordo che dava alla comunità ungherese il diritto di usare di nuovo la sua lingua nelle scuole e nei giornali locali, in cambio della promessa di rinunciare alla secessione. Con questo sforzo è stata evitata un’altra guerra civile come quella scoppiata nell’ex-Jugoslavia.

Per contro, le operazioni internazionali di peacekeeping per concludere una guerra in corso richiedono non giorni o settimane, ma anni. Le truppe delle Nazioni Unite stazionano a Cipro da più di 30 anni e sono tuttora necessarie; non si tratta di pochi individui, ma di decine di migliaia di soldati. 20.000 soldati delle N.U. non riuscirono a bloccare i combattimenti e i massacri in Bosnia Erzegovina. Furono inviati 60.000 soldati NATO per imporre un cessate-il-fuoco, tuttavia non si raggiunse una riconciliazione. Ciò significa che fu necessario impegnare un numero di persone circa 10.000 volte superiore rispetto a quelle impegnate in una riconciliazione, per un periodo di 100 volte più lungo. I costi per un’operazione di peacekeeping risultano pertanto di un milione di volte maggiori dei costi di un tentativo di mediazione. Anziché spendere qualche migliaio di dollari per una sala di riunione e qualche biglietto di aereo, si spendono miliardi di dollari. Peggio ancora: nel 1991 la guerra del Golfo condotta per espellere l’Iraq dal Kuwait costò 100 miliardi di dollari, senza contare le distruzioni causate. Ma la cosa più importante è che la prevenzione di una guerra, prima che questa scoppi, salva molte vite umane. La differenza tra   una volta che la guerra è scoppiata e mediazione consiste nello spendere almeno un ordine di grandezza in più ad ogni passo”.

Se si prendessero in considerazione i costi dell’attuale guerra degli USA contro l’Iraq si arriverebbe a conclusioni ancor più allucinanti. Terry Jones ha stimato che “Gli USA hanno speso un milione di dollari per ogni morto iracheno” (They have made a killing The US has spent a million dollars for every dead Iraqi – is that what they mean by value for money?, The Guardian, Saturday January 6 2007).

Siamo dunque di fronte a un’evidenza teorica ed empirica impressionante. Ma sappiamo anche che i cambiamenti di paradigmi non avvengono solo sulla base di decisioni razionali prese a tavolino. E’ fondamentale la pressione dal basso esercitata da gruppi, movimenti, associazioni per convincere i politici della necessità del cambiamento.

L’obiettivo della istituzione dei CCP, dentro un più ampio cambiamento strutturale del modello di difesa verso la difesa popolare nonviolenta; deve diventare l’obiettivo prioritario dei movimenti per la pace sia nel nostro paese sia su scala internazionale.