Questioni lessicali e l’evanescente progetto occidentale nei Balcani | David B. Kanin

Il gergo diplomatico intralcia la comprensione dei problemi da affrontare e la costruzione dei significati per superarli.

Lo studio e la pratica delle relazioni internazionali sono appesantiti dalla tirannia dei termini che sono meno descrittivi di quanto invece siano comodi. Essi ci consentono di accantonare il lavoro di analisi. Fortificano le premesse di base e rinforzano “la Letteratura”. La lista seguente dovrebbe essere scartata- forse rimpiazzata, ma forse no. Non è esauriente.

La Comunità Internazionale. Non esiste “la” Comunità Internazionale. L’attuale assetto (convenzionale) tra le maggiori potenze del mondo è simile a quello stabilito dopo le guerre napoleoniche –un Consiglio di Sicurezza organizzato come l’antico Concerto d’Europa le maggiori potenze arrogano a se stesse il diritto di prendere decisioni per tutti gli altri (e chiamarle “leggi”). Come l’assetto precedente, il sistema attuale è stato una reazione a un sistema precedente che non privilegiava altrettanto le grandi potenze. L’accordo preso al Congresso di Vienna rovesciò un patto stretto a Utrecht dopo la Guerra di Successione spagnola nella quale ogni attore sovrano (compresi ad esempio i liberi cavalieri di Germania) aveva teoreticamente un ruolo equivalente nella sicurezza europea. Il sistema corrente, cui è stato assegnato il nome ottimistico di “Nazioni Unite”, è stato progettato per migliorare il rendimento dell’interbellica Società delle Nazioni.

La morale della favola è che nessuna delle versioni promosse dal [Trattato] Nord Atlantico dei sistemi internazionali post-Westfalia ha prodotto una “comunità internazionale” – la versione attuale ha raggiunto qualcosa di simile alla condizione dell’Europa nel 1860, quando molti partecipanti si stancarono delle conferenze internazionali senza senso (allora proposte serialmente, una dopo l’altra da Napoleone III di Francia). La differenza ora è la crescente incapacità dei poteri transatlantici in declino di nascondere le crescenti lacune nel loro paradigma. Troppi attori sono fuori dal sistema perché lo si chiami “il/la” qualsiasi cosa. La Cina e la Russia colsero e scelsero abilmente quali delle sue norme, strutture e retoriche usare e quali scartare. Le reti di patrocinio (incluse complesse organizzazioni criminali) lo saccheggiano in maniere sempre più sofisticare e corrosive. Un numero crescente di terroristi semplicemente lo attaccano.

La Gente. In un articolo riguardante dei problemi settari e politici che stanno complicando un progetto d’ispirazione americana di costruire una strada tra Baghdad e Amman, uno di quelli che la stavano costruendo disse “speriamo che la gente irachena e quella giordana la consideri per quello che è – un’ancora di salvezza economica. Un lettore solitamente è in grado di sapere che arriva un argomento debole quando qualcuno attacca alla gente una sola etichetta civica. Raggruppare tutti coloro che abitano entro i limiti di uno stato all’interno del nome di quello stato è un modo per fingere che la lealtà statale e quella nazionale siano la stessa cosa, o che dovrebbero, e questo fatto che la politica lessicale prediletta dell’Occidente di privilegiare l’identità civile sia lunica descrizione legale, legittima delle relazioni intercomunitarie.

Alcune anomalie in questo paradigma sono scontate. Parlare ora di “Iraq” o “Siria” è come immaginare che ci fosse ancora una “Jugoslavia” dopo il 1990 – vale la pena ricordare che è esattamente ciò su cui insistevano le potenze Occidentali (eccetto la Germania, che stava ricostruendo due terzi della sua identità precedente mentre l’impero Sovietico stava collassando) .“Syria” e “Iraq” assomigliano a Transoxiana più della Germania; una volta frammentati, alcuni stati non sono/vengono mai riparati anche se le potenze esterne impongono il mantenimento dei nomi sulle carte geografiche. Nel frattempo, lo status politico del concetto di “Curdo” sta acquisendo uno status politico più forte, indipententamente dagli sforzi turchi, iraniani, russi e d’altri per ostacolarlo.

Il cammino europeo. Far apparire una strada per l’Europa è un modo affinché i membri dell’Unione Europea rinviino le aspirazioni di coloro che stanno cercando di associarvisi. Il Trattato e una montagna di ostacoli procedurali permettono agli esperti d’Europa di calibrare le relazioni con coloro nei Balcani e in Turchia che Bruxelles vuole tenere in una condizione di subordine riguardo le conferenze e le istruzioni sull’UE.

Non c’è nessun percorso europeo ma più che altro un processo di supplica alla corte in stile medievale. I sei originali e i firmatari del Trattato di Roma reagirono alla permanente diminuzione dello status dell’Europa come conquistatrice del mondo con accordi economici e retoriche eccessive/volteggianti. La Gran Bretagna attraversò molteplici round per testare le acque (e la pazienza ) europee e ora ne sta uscendo. I Paesi di Visegrad fuggirono dall’oppressione sovietica fino a un’Europa che li accolse ma che ora sta avendo a che fare con le tendenze nativiste dei governi (ed elettori sostenitori) in Polonia e in Ungheria.

Il cammino che la Slovenia e la Croazia hanno condiviso era il passaggio da una regione balcanica cui insistevano di non appartenere fino alla loro prediletta etichetta di Europa Centrale. Hans-Dietrich Genscher ha fatto sì che la sua politica fosse realizzata; le repubbliche dell’ex-Jugoslavia più ricche si sono stabilite nell’UE, lasciando a sé stessi i loro ex-soci jugoslavi . La Serbia e il Montenegro dovranno trovare le loro strade. La Macedonia sarà fortunata se potrà trovare un nome. Il Kosovo cerca uno status. (Washington immagina ancora il suo attuale come “finale”?). Le comunità in conflitto in Bosnia-Herzegovina cercheranno i loro cammini – verso qualcosa.

Transizione. Ho scritto prima d’ora sulla teleologia trionfalistica che i portavoce ufficiali e i politologi usano per limitare discorso e studio a uno spettro mono-dimensionale fittizio lungo il quale i paesi s’avvicinano a e s’allontanano dall’ideale di democrazia da mondo di Oz. Basti dire qui che l’uso di questo termine preclude un’utile analisi e dovrebbe essere evitato.

Il regresso democratico. C’è un racconto fatto da diplomatici occidentali, tra gli altri, precedentemente insediati in Bosnia che narra che la Bosnia di Dayton fece progresso verso la democrazia e l’integrazione europea fino a tutto l’apogeo dell’amministrazione di Paddy Ashdown. Questa narrazione si basa sulla curiosa torsione logica per cui l’uso delle potenze di Bonn da parte di Ashdown per imporre o abrogare legislazione, per qualificare o squalificare i candidati a funzioni pubbliche, e altrimenti decidere unilateralmente su cosa fosse meglio per la Bosnia stesse in qualche modo instillando rispetto per ed esperienza nella procedura e nel contenuto della democrazia.

I successori di Ashdown presero seriamente certe dichiarazioni dei seguaci di Ashdown e decisero di permettere ai Bosniaci un maggior controllo sulle proprie decisioni. Quando la Bosnia di Dayton si dimostrò ingovernabile, i diplomatici e gli altri accusarono/ incolparono i successori invece di Ashdown e chiesero/esigettero qualcosa chiamato “riforma costituzionale”.

Dal 2009, i politici bosniaci di tutte le comunità hanno frustrato gli sforzi per cambiamenti costituzionali. Non c’è statoregresso” da niente, ma piuttosto protezione di interessi circoscritti in un contesto in cui non esiste interesse comune. Riferirsi a un “regresso democratico” permette a coloro che contribuirono ad assicurare la disfunzione della Bosnia di fingere che ci fosse realmente un progresso verso uno stato democratico funzionante in Bosnia prima del 2006 circa e di disfarsi della responsabilità per cosa successe dopo.

Normalizzazione. Ci sono stati una serie di slogan usati come eufemismi che intendevano oscurare il fatto che né Washington né gli Europei sapessero cosa fare riguardo al conflitto di base per il Kosovo tra Serbi e Kosovari Albanesi. Il mio preferito era “Standard [=Livelli garantiti] prima dello Status”, che entro il 2008 mutò in “Status (contestato) senza Standard”. L’accordo unilaterale dell’aprile 2013 intermediato da Bruxelles assicurava che i comuni serbi in Kosovo avessero uno status internazionale universalmente riconosciuto ed il Kosovo no. Da allora, la Serbia ha abilmente sfruttato la disponibilità UE a sommergere lo status di conflitto indelebile sotto discussioni su codici telefonici, elettricità, protocolli di attraversamento di confini, e altre questioni pratiche ma secondarie.

Dite quello che volete sul sodalizio dei signori Vucic e Dacic; essi continuando ad avere prestazioni migliori di Bruxelles e Pristina mentre stanno parando/tenendo a bada i Russi e dicendo agli Americani cosa vogliono sentirsi dire.

Coloro che in Kosovo rifiutano questo processo hanno il diritto di farlo, perché questo “Percorso europeo” può condurre solo alla lunga a un tentativo da parte di Belgrado di entrare nell’UE senza riconoscere la sovranità del Kosovo. Una di queste tre cose succederà. Forse questo sforzo serbo avrà successo, conducendo più Albanesi in Kosovo e in Macedonia a vedere un’unione con l’Albania come loro unica opzione (che porterebbe Belgrado a esigere che i loro soci europei li aiutino a prevenire con forza un simile risultato e magari ripristinare la supremazia serba nella provincia perduta). Forse la Serbia non entrerà nell’UE, il che destabilizzerebbe la politica serba e renderebbe l’opzione russa attraente. O forse l’UE sarà capace ancora una volta di rimandare la questione, invocando di nuovo la retorica del “Percorso europeo” e la “Normalizzazione” o qualsiasi parola li abbia sostituiti.

Termini come questi proteggono la marginalizzazione di qualsiasi sforzo di sfidare uno status quo post-jugoslavo costruito a casaccio. La disinvoltura con la quale queste parole vanno e vengono riflette una flessibilità retorica che maschera una debolezza concettuale. Questo permette l’inerzia, che troppo spesso è chiamata “progresso”. Un primo passo verso un lavoro utile sarebbe il rifiutare il vero contenuto di verità nozionale degli slogan imposto dall’esterno in favore di una riconcettualizzazione dei problemi locali e regionali progettata per affrontare dispute che altrimenti condurranno in futuro a nuovi conflitti.

David B. Kanin è un professore aggiunto di relazioni internazionali all’Università Johns Hopkins e un ex-analista senior/esperto dell’intelligence per la Central Intelligence Agency (CIA). I punti di vista espressi in questo articolo non rispecchiano necessariamente i punti di vista di TransConflict.

05 JUN 2017, TRANSCONFLICT
Titolo originale: Lexical issues and the fading Western project in the Balkans http://www.transconflict.com/2017/06/lexical-issues-and-the-fading-western-project-in-the-balkans-056/
Traduzione di Adina Lupastean per il Centro Studi Sereno Regis

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