C’era silenzio… ma come, con/in ottomila persone????

C’era silenzio… ma come, con/in ottomila persone????
Ottomila bocche cucite
Ottomila a mani giunte
E così sono in fila per entrare al Palasharp, a Milano, il giorno di Sant’Ambrogio, che è il patrono della città (e quindi per i milanesi è festa). Per me è festa perché sono riuscita ad iscrivermi ai tre giorni (a settembre!!!) di insegnamenti del Dalai Lama, perché potrò starmene tranquillamente qui, ospite di mia sorella, quindi del tutto rilassata.
Un’altra mia sorella, nei giorni immediatamente precedenti all’evento, mi dice al telefono: «Quand’è che viene quel “tizio” e tu vieni a Milano?» … io cercavo di spiegarle che il «tizio» è l’equivalente del Papa per il mondo buddhista, che è un personaggio straordinario e che straordinario è avere l’opportunità di vederlo, qui, in Italia, vicino, e di poter seguire i suoi insegnamenti come in un monastero del Tibet … fatica sprecata, ma è significativo per capire quanto poco (e male) i media abbiano pubblicizzato l’evento.
Per fortuna a Milano invece c’erano persone che quel «tizio» lo conoscevano benissimo, lo seguivano magari da anni, cercavano di vivere secondo le sue indicazioni. Devozione, tantissima, commozione, ad ogni angolo. C’erano persone che sapevano a memoria i mantra, ma non Om Mani Padme Hum, bensì quelli lunghissimi e complessissimi che il Dalai Lama stesso recitava all’inizio di ogni sessione di insegnamenti.
Già, gli insegnamenti: cominciavano – sono cominciati – perfettamente puntuali, e sono durati sempre due ore (che il Dalai Lama sapesse che dopo due ore finisce l’attenzione e non serve fare riunioni più lunghe?). Lui parlava in inglese o in tibetano e c’erano due traduttori, uno tibetano che però sapeva l’inglese e l’italiano e uno italiano che sapeva il tibetano e l’inglese. Un lavoro!!! Perché, sai com’è, mica si può interrompere il Dalai Lama, perciò lui parlava parlava parlava e il traduttore prendeva appunti per poi, quando Sua Santità smetteva di parlare, riportare l’intervento in italiano, magari per un quarto d’ora! Intanto chi aveva chiesto la traduzione in altre lingue (c’erano francesi, tedeschi, giapponesi, indiani …) indossava la cuffia e sentiva la traduzione simultanea.
Poi c’era il palco, ah! il palco era uno spettacolo: 25 monaci a sinistra e altri 25 a destra del baldacchino su cui stava assiso (più in alto di tutti) Tenshin Gyatso, tutto era colorato (tranne un praticante di zazen, rigorosamente all black), fiori ovunque, una fila interminabile di stelle di Natale (le piante) alternate bianco/rosso, un’enorme raffigurazione di Avalokiteshvara alle spalle del baldacchino. I monaci sedevano su cuscini tutti ugualmente colorati di quella specie di bordeaux così tipico, bellissimo, caldissimo, elegantissimo.
Ci era stato distribuito un «Testo delle preghiere e dell’insegnamento», un libretto contenente le «stanze» (sorta di sutra, numerati, su cui spostare la nostra attenzione dopo che il Dalai Lama li avesse commentati (e il traduttore letti in italiano per noi). Alcuni sono veramente illuminanti, per cui ne ho scelti un paio (tra quelli commentati), ringraziando l’Istituto Ghe Pel Ling per la realizzazione del libretto, Andrea Capellari per la traduzione, Maria Buratti e Nunzia Villa per la trascrizione del testo tibetano.
Così come i Buddha Bhagawan e tutti i grandi Bodhisattva generarono la Mente dell’Illuminazione,
nello stesso modo, anche io, da ora fino al (raggiungimento dell’) essenza dell’illuminazione,
genererò la Mente dell’illuminazione per liberare coloro che non sono liberi,
per salvare coloro che non sono salvi, per assistere coloro che non sono assistiti
e per condurre oltre la sofferenza coloro che di essa sono ancora prigionieri. (p. 26)

Noi intanto eravamo prigionieri delle code. Tutto si faceva in coda. Stavamo in coda per entrare, per uscire, per mangiare, per fare pipì, per comprare DVD, per vedere le bellissime stoffe, sentire il suono delle campane, annusare il profumo dell’incenso, bere un caffè. Ma tutti, non si sa come, erano tranquilli, serafici. C’erano intere famiglie con bambini anche piccolissimi, legati al corpo della madre con coloratissimi scialli, c’erano molte donne in abito cerimoniale (diverso secondo la nazionalità), c’erano passeggini e sedie a rotelle, hostess e guardie del corpo. Un’umanità multicolore e tranquilla che improvvisamente taceva (all’entrata del Dalai Lama) e improvvisamente applaudiva (all’uscita del Dalai Lama), subito dopo aver giunto le mani nel gesto di saluto.
I traduttori si facevano portavoce delle domande del pubblico e una ve la voglio proprio raccontare. Chi voleva fare domande le scriveva su foglietti che venivano consegnati al traduttore che «sceglieva» quale fare (ce n’erano una montagna!): «Nella traduzione buddista è considerato un grande onore reincarnarsi nel corpo di una donna. Può spiegarcene la motivazione?», legge in modo molto serioso il traduttore. Allora il traduttore tibetano si alza, si avvicina al Dalai Lama e gli riporta la domanda. Lui annuisce e dopo un secondo risponde: «More attractive!». Era fantastico nello «smontare» così qualunque egocentrismo!
Lo stesso corpo femminile è un cadavere, un amante o del cibo,
per un’asceta, un innamorato ed un cane che hanno tre differenti nozioni di esso.
Rispetto agli oggetti esterni, per lo stesso singolo oggetto, possono sussistere differenti percezioni.
Una forma a te piacevole può apparire differente agli altri. (p. 28)
Ironico, simpatico, divertente, dissacrante e stupefacente. Questi son alcuni degli aggettivi che mi vengono in mente se penso a quei lunghi giorni trascorsi «insieme» al Dalai Lama. Sono stati giorni speciali, che mi hanno lasciato un segno incancellabile. Una di quelle cose da «una volta nella vita». Nonostante la conoscenza stratosferica non c’era traccia di arroganza, di dogmatismo, di «si fa così», benché tutto avesse un senso preciso, ogni singolo movimento, ogni gesto dei monaci che si affaccendavano attorno alla sua persona aveva un significato. Questo anche era bello: sul palco era un continuo muoversi di monaci «preposti» a qualcosa: porgergli gli oggetti, sistemare, ripiegare teli, portare acqua, accendere incensi. Era uno spettacolo colorato, ordinato, silenzioso, rispettoso…
Non posso che chiudere con una parte della Preghiera per la lunga vita di S.S. il Dalai Lama, p. 47:
(…) Così, all’assemblea di questo eccellente rifugio che non delude,
preghiamo che, per il potere di questa preghiera espressa da un cuore pieno di fervente devozione e umiltà,
il corpo, la parola e la mente dell’anima del Paese delle Nevi,
il supremo Ngawang Lobsang Tenzin Gyatso,
possa essere indistruttibile, interminabile e non-fluttuante;
possa Egli vivere immutabile per cento eoni, assiso su un trono di diamanti (…)
E dalla Dedica, p. 49:
(…) Nel paese circondato da una catena di montagne nevose,
vi è Avalokiteshvara Tenzin Gyatso, la fonte di ogni benessere e felicità.
Possa la sua vita durare fino alla fine del Samsara.
E mi piace immaginare che lui risponda a noi con le parole riportate a p. 55:
Fin quando rimarrà lo spazio,
ci saranno gli esseri,
finché rimarrò fra loro
possa io eliminare la loro sofferenza.

Ah! L’intero evento era «a Impatto Zero», complimenti e grazie, veramente grazie a tutti.
Cinzia Picchioni