Nodo alla gola

Massimiliano Fortuna

“Nodo alla gola” è uno dei film più memorabili di Hitchcock. Anzitutto per la sua audacia registica: la storia è raccontata con pochi lunghi piani sequenza e la congiunzione di alcuni di questi è resa quasi inavvertibile dal fatto che lo stacco avviene sfruttando superfici scure (la schiena di un attore, il coperchio di una cassapanca…). Solo molti decenni dopo, grazie a nuove possibilità tecnologiche, Aleksandr Sokurov riuscirà nell’impresa cinematografica di far coincidere un intero film, “Arca russa”, con un unico piano sequenza, ma già “Nodo allo gola” si avvicinava a rendere sullo schermo questa sensazione visiva.

Il soggetto del film, due giovani brillanti che uccidono un loro ex compagno di università con il solo scopo di compiere un gesto gratuito in spregio alle convenzioni morali della società, si ispira a un caso giudiziario che fece scalpore negli Stati Uniti degli anni Venti, quello di Nathan Leopold e Richard Loeb, rampolli ventenni di due tra le più ricche famiglie di Chicago e studenti prodigio, che nel 1924 rapirono e assassinarono un ragazzo di 14 anni, a sua volta appartenente a una facoltosa famiglia della città.

Non so dire quante volte ho visto “Nodo alla gola”; tante. Sino a non molto tempo fa ignoravo però che questo caso fosse anche l’oggetto di un libro non meno memorabile del film di Hitchcock: “Compulsion” di Meyer Levin, a proposito del quale, se vogliamo impegolarci nella rete delle definizioni, potremmo parlare di non fiction o romanzo verità: avvenimenti realmente accaduti oggetto di un preciso reportage, ma affrontati con gli strumenti narrativi del romanzo e calati nella cornice letteraria del verosimile, attraverso la quale si cerca, ad esempio, di immaginare i pensieri dei protagonisti. Capita sovente di trovare indicato “A sangue freddo” di Truman Capote come il capostipite del “true crime”, la non fiction di ambito giudiziario incentrata su un episodio di cronaca nera. Il libro di Levin però, uscito nel 1956, precede di una decina d’anni quello di Capote.

Non occorre comunque soffermarsi troppo su questioni di classificazione e primogenitura letteraria, per accorgersi di quanto il libro sia potente. Queste pagine ci calano in un frammento di America degli anni Venti (nella quale era normale, ad esempio, che un procuratore adoperasse in aula la parola “invertito” per designare un omosessuale), circumnavigando il perimetro di una “folie à deux” forse impossibile da sondare pienamente, ma sulla quale non ci si può fare a meno di interrogare, così come sui meccanismi della violenza e sull’attrazione morbosa che possono suscitare, nella cosiddetta opinione pubblica, le storie di sangue e i grandi processi che le seguono – morbosità in rapporto alle quale, però, sarebbe bene non arrestarsi al semplice giudizio indignato di chi, da un preteso livello di superiore moralità, si limita a riprovarla come mostruosa volgarità.

Come sempre, a contare non sono tanto i contenuti e lo svolgimento delle storie ma il modo in cui le si racconta. Fatti di sangue, violenza, pena, colpa, senso della giustizia all’interno di una comunità sono temi affrontati da tempo immemorabile dalla grande letteratura, ma possono, come inevitabile conseguenza, essere anche oggetto di letteratura mediocre o di una sgangherata trasmissione televisiva. La testimonianza che Levin ci ha lasciato di quel delitto e di quel processo si iscrive certamente nella grande letteratura e credo si possa arrivare a dire che “Compulsion” occupa nella letteratura americana del Novecento un posto analogo a quello che “Delitto e castigo” ha in quella russa dell’Ottocento.


 

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