I progetti infrastrutturali di grandi dimensioni stanno fallendo a ritmi crescenti

Elena Camino, Keith Schneider

Quella che segue è la traduzione e sintesi di un articolo recente pubblicato sulla rivista National Geographic Magazine. A questa ho aggiunto una nota finale personale [Elena Camino per il CSSR]

Mega-impianti di vario tipo (grandi centrali a combustibili fossili, miniere, impianti idroelettrici con grandi sbarramenti) sono in difficoltà, grazie alla competizione da parte di tecnologie nuove, più pulite, e alle accuse che arrivano soprattutto dalla società civile.

Anche se pochi l’hanno riconosciuto subito, il 2011 può essere considerato un punto di svolta per l’era delle mega-centrali e delle grandi miniere, in tutto il mondo. In quell’anno una serie di disastri naturali ha contribuito a far crescere l’opposizione della società civile nei confronti dei mega-progetti. Nello stesso periodo si sono sviluppate tecnologie diverse, basate su fonti alternative, con offerte più economiche e più sicure. Anche progetti industriali tradizionali si sono spostati verso dimensioni di scala inferiore.

Nel marzo del 2011 l’azione congiunta di un terremoto e di uno tsunami distrusse l’impianto nucleare di Fukishima Daiichi, vecchio di 41 anni, con una potenza di 4.700 MW, una delle 15 centrali più grandi del mondo.

Sette mesi dopo, a 3.000 miglia di distanza, altri due mega-progetti sono falliti in India. Ai primi di dicembre un grande gruppo di contadini e attivisti, sostenuti dal governo locale di uno stato himalaiano, preoccupato per i possibili danni alle aree di pesca e ai rischi di alluvioni, costruirono barricate lungo le strade di accesso e bloccarono la costruzione di una gigantesca diga (1,6 miliardi di $, potenza prevista 2.000 MW) lungo il confine tra Arunachal Pradesh e Assam. Il 31 dicembre 2011 lungo le coste del Tamilnadu, nel Golfo del Bengala, il ciclone Thane spazzò via la raffineria di petrolio di Nagarjuna, la cui costruzione era quasi completata. I lavori per la diga e per la raffineria non furono mai più ripresi.

Negli anni successivi vari altri mega progetti (miniere, impianti industriali, centrali energetiche) sono falliti in tutto il mondo. Un insieme di forze ecologiche, sociali, finanziarie, di mercato si sono manifestate in tutti i continenti per contrastare le miniere di carbone in Australia, le prospezioni nel ghiaccio artico alla ricerca di petrolio, la deportazione di intere comunità dalle vallate himalaiane per costruire dighe, lo scavo di miniere sui pendii delle montagne sud americane, la deviazione di corsi d’acqua in Sud Africa per alimentare gli impianti di raffreddamento di centrali nucleari, la corsa alla costruzione di oleodotti lungo migliaia di km negli Stati Uniti.

Ci sono sempre stati dei grandi progetti che sono falliti” fa notare il Prof. Bent Flyvbjerg della Oxford University’s Saïd Business School, “ la differenza oggi è che adesso ce ne sono molti di più, sono molto più grandi, e i fallimenti sono più spettacolari”.

Molte di queste forze negative sono attive nei confronti dl progetto di un oleodotto (Keystone XL oil pipeline) che dovrebbe attraversare le Grandi Pianure degli USA: costruito da Trans Canada, dovrebbe essere lungo 1.179 miglia e costare 8 miliardi di $. E’ stato finora ostacolato da una forte opposizione politica, che ha coinvolto l’intervento diretto di due Presidenti.

Una tendenza crescente alla resistenza?

Alla base delle crescenti difficoltà a portare a termine i mega progetti ci sono ragioni ecologiche, economiche e sociali che rendono queste iniziative – che richiedono investimenti di miliardi di dollari – più difficili e rischiose da realizzare. La scala colossale della progettazione e della realizzazione dei mega-impianti rende problematica l’impostazione delle attività e la valutazione dei costi. Spesso il tempo che intercorre tra la progettazione e la fine della costruzione è di dieci e più anni, un tempo sufficiente perché le condizioni di mercato cambino in modo significativo. Ormai ogni mega-progetto si conclude dopo il tempo previsto, e con costi molto maggiori. Questo rende sempre più nervosi gli investitori.

E’ ancora Flyvbjerg a spiegare che “il cambiamento climatico e la transizione da una economia da fonti fossili a un’economia basata sul rinnovabile hanno un grosso impatto sui mega progetti”.

La Terra stessa ha spesso reso difficile la realizzazione dei grandi progetti, tra alluvioni, siccità, tempeste, terremoti. Una terribile alluvione nella zona himalayana dell’Uttarakhand, in India, nel 2013 ha distrutto o gravemente danneggiato 10 grandi dighe con impianti idroelettrici, e ha ucciso tra 6.000 e 30.000 persone, secondo le stime del governo e di studiosi. Il terremoto di due anni fa in Nepal ha gravemente danneggiato 14 dighe.

Altri fattori includono la demografia e la tecnologia delle comunicazioni. I mega-progetti (dighe, centrali energetiche, miniere, oleodotti) non si inseriscono facilmente in aree già dense di popolazione. Rispetto agli anni ’70, attualmente la popolazione mondiale è raddoppiata. In tutto il mondo sono attive e ben organizzate campagne locali di opposizione, a protezione di acqua e suolo: questi gruppi spesso entrano in conflitto con i progettisti e i finanziatori dei mega-progetti, e in qualche caso riescono a cancellare i piani o a far interrompere i lavori in costruzione.

Nel 2010, nel suo piano di sviluppo energetico, il Bangladesh ha progettato di costruire 19 centrali a carbone per alimentare le industrie tessili di prodotti destinati all’esportazione. Progressi significativi sono stati realizzati solo in una di queste, nei pressi di Rampal, ma anche qui ci sono state forti manifestazioni di protesta per le minacce di sottrazione di terre e i rischi di inquinamento di acqua e aria. Altri sette progetti, finanziati da investimenti bancari di Corea, Cina e Giappone, sono stati ritirati a causa dei costi crescenti e delle opposizioni pubbliche.

La Cina ha chiuso o fermato la realizzazione di 103 centrali a carbone solo dall’inizio di quest’ anno, e dozzine di altri impianti a carbone sono stati chiusi negli Stati Uniti e in India.

Alternative che emergono

Una ragione delle recenti proteste contro i progetti basati su combustibili fossili è da attribuire alla significativa riduzione del costo dell’energia rinnovabile: impianti eolici e solari sono ormai meno costosi da costruire. E spesso incontrano meno opposizione, anche se anch’essi pongano dei problemi.

Lo scorso anno gli impianti solari hanno prodotto il 37% dell’energia elettrica disponibile in USA, più di ogni altra fonte di elettricità. In Tamilnadu (India) il 40% di energia elettrica proviene da vento e sole. Un solo progetto, la fattoria eolica da 1,5 GW di Muppandal, è il più grande del mondo fuori dalla Cina. E non lontano c’è la centrale fotovoltaica da 649 MW di Kamuthi, la più grande in India e tra le maggiori del mondo. E’ stata costruita in 18 mesi, al costo di 670 milioni di $: un quarto del tempo necessario per costruire una centrale a combustibili fossili della stessa potenza.

Tutto questo non vuol dire che in futuro non saranno più presentati dei mega-progetti. Ma gli esperti segnalano una crescente tendenza ad abbandonare i mega-progetti a favore di iniziative su più piccola scala. Qui di seguito c’è una lista (compilata dal National Geographic) di alcuni mega progetti energetici, minerari e industriali falliti.

I. Rischi ecologici, scelte governative e proteste della società civile hanno portato a fallimenti.

Il Primo Ministro del Vietnam, Nguyen Xuan Phuc, ad aprile 2017 ha bloccato un lavoro di 10,6 miliardi di $ per un impianto industriale di produzione di acciaio in un’area di 4.200 acri del Gruppo Hoa Sen, per scongiurare il pericolo di un inquinamento chimico come quello avvenuto nel 2016 in un altro impianto, che aveva distrutto impianti per la pesca, avvelenato le comunità di pesci, e sollevato grandi proteste, che avevano indotto il governo a promettere di bloccare le autorizzazioni per impianti simili in futuro.

Abbandonato un progetto minerario da 5 miliardi di $ a Conga in Peru. A Febbraio 2016 l’impresa Newmont Mining con sede in Colorado ritirò un progetto che aveva intenzione di sviluppare per l’estrazione di oro e rame nelle Ande Settentrionali del Peru, a causa delle forti proteste locali che vedevano minacciate la disponibilità e la potabilità dell’acqua.

Chiusa una miniera d’oro in Cile. Un progetto da 8,5 miliardi di $ per l’estrazione di oro nella miniera di Pascua-Lama è stato bloccato nel 2013 dopo dieci anni di proteste e di verdetti della corte sui possibili rischi alle sorgenti e ai ghiacciai. La Barrick Gold Corporation con base a Toronto ha sospeso indefinitamente il lavoro sulla miniera di rame a cielo aperto al confine tra Cile e Argentina, dopo aver speso 5 miliardi di $.

La diga di Myitsone in Myanmar (3,6 miliardi di $, potenza prevista 6.000 MW): la costruzione è stata bloccata nel 2011 in seguito all’opposizione popolare e al cambio di governo.

II. Fallimenti causati da trasformazioni ecologiche e cambiamenti delle condizioni politiche.

Quattro grandi impianti di desalinizzazione in Australia sono stati costruiti ma mai utilizzati. In seguito a una terribilità siccità durata 12 anni e terminata nel 2010 , le Autorità Australiane hanno lanciato un aggressivo programma di sviluppo di impianti di desalinizzazione nelle grandi città costiere. Quasi 10 miliardi di $ australiani sono stati investiti nella costruzione di quattro grandi impianti a Sydney, Adelaide, Melbourne, e Brisbane. Ma gli impianti sono risultati così costosi da gestire che sono stati immediatamente chiusi.

Finita la campagna di sondaggi della Shell nel Mare Artico. A settembre 2015, dopo aver speso 7 miliardi di $ e aver sostenuto che il progetto di piattaforma offshore Chukchi Sea avrebbe consentito di pompare enormi quantità di petrolio e gas naturale, la Compagnia Royal Dutch Shell si è tirata fuori dall’Artico. Per giustificare le ragioni di questa rinuncia la compagnia ha citato varie cause: l’incertezza nel valutare la quantità di combustibili fossili commerciabili, le condizioni di pericolo nelle operazioni di perforazione in Artico, le spese crescenti, e le proteste della società civile.

La miniera di rame e oro a Mindanao, nelle Filippine ( da 5,9 miliardi di $). Nel 2015 Glencore, una delle maggiori compagnie minerarie del mondo, si è ritirata del piano di sviluppo di uno dei progetti mondiali del mondo sul più ricco metallo prezioso. La miniera è stata sede di un intenso conflitto sociale durato più di dieci anni, in seguito a un evento disastroso avvenuto nella miniera a cielo aperto di Marcopper, nell’isola di Marinduque. Il cedimento della diga di contenimento delle scorie portò allo sversamento di milioni di tonnellate di fanghi tossici e acqua contaminata sulle abitazioni delle comunità e sugli impianti di pesca. Nell’aprile 2017 le Filippine hanno bandito ogni nuova attività di scavo minerario a cielo aperto.

III. Lo sforamento dei costi porta a fallimento

La costruzione della centrale nucleare VC Summer, nel Sud Carolina, è stata definitivamente interrotta al 31 luglio 2017, quando era completata ormai per un terzo. La costruzione dell’impianto – una centrale da 2.200 MW su progetto della Westinghouse – era iniziata nel 2013. La conclusione dei lavori era prevista per il 2018, con un costo di 11,8 miliardi di $. Scana Corporation e l’impresa per elettricità e gas del Sud Carolina, i costruttori dell’impianto, hanno interrotto i lavori dopo che i costi previsti sono saliti fino a 25 miliardi di $ e i tempi si sono allungati fino al 2020. La decisione è stata presa quattro mesi dopo che la Westinghouse aveva dichiarato bancarotta.

Qualche osservazione a margine (Elena Camino)

Mi ha colpito molto la prospettiva del giornalista: dopo aver fatto una selezione di ‘mega-progetti’ l’attenzione mi è sembrata focalizzata (senza commenti critici) sugli aspetti economici e finanziari. Non si individuano delle responsabilità (dei finanziatori, delle imprese costruttrici, dei governi), si fornisce solo documentazione generica sulle manifestazioni di protesta per fermare questi mega progetti – che in alcuni casi si sono protratte per decenni – e non si fa cenno all’enormità dei danni sociali e ambientali (di breve e di lungo periodo), che vengono completamente ignorati nell’articolo.

Potrebbe essere interessante integrare le informazioni pubblicate su questa prestigiosa rivista con quelle che si possono rintracciare (un po’ meno accessibili alla pubblica curiosità) su alcuni siti di Associazioni per i diritti umani e per la salvaguardia dell’ambiente.

Propongo alcuni esempi tra i tanti.

Attivisti in kayak a Seattle espongono un manifesto per protestare contro i progetti di trivellazione della Shell.

Via via che, con il riscaldamento dell’atmosfera, parte del ghiaccio artico fonde, diventa più facile compiere trivellazioni in mare aperto. Per le multinazionali sono ottime notizie, ma per tutti noi e per l’ambiente la prospettiva è devastante. Greenpeace è presente da anni per scongiurare questo pericolo. Il ruolo delle associazioni ambientaliste e della società civile è essenziale in questa lotta.

Nel 1997 i presidenti di Cile e Argentina firmarono un Trattato (Mining Integration Treaty) che consentiva lo sviluppo di attività minerarie nella regione montuosa tra i due Paesi (il 75% del progetto di Pascua Lama è situato in Cile e il 25% in Argentina) a un’altitudine tra 3800 e 5200 metri. Un esempio estremo di ottimismo tecnologico fu raggiunto con la proposta di Barrick (una compagnia canadese con cantieri in ogni parte del mondo) di spostare i ghiacciai dalla sede della miniera utilizzando esplosivi per frammentare le masse di ghiaccio e bulldozer per spostarle. Solo grazie alla resistenza locale e alle proteste internazionali il progetto è stato bloccato.

La diga di Myitsone è un progetto di sviluppo con sbarramenti e centrali idroelettriche non lontano dalla sorgente del fiume Irawaddy (Myanmar). Presentato nel 2001, il progetto prevedeva 64 impianti idroelettrici e tre centrali a carbone con una capacità complessiva di 40.000 MW. Il progetto ha suscitato subito molte opposizioni, a causa dell’enorme area che sarebbe stata allagata, agli impatti ambientali, alla vicinanza con aree soggette a terremoti, al ruolo della Cina tra i maggiori finanziatori, e alle trasformazioni che avrebbe imposto a un luogo considerato la culla della civilizzazione dell’antica Birmania. I lavori sono stati bloccati nel 2017.

Gli abitanti di molti villaggi erano già stati costretti ad abbandonare le loro terre, e ora – con il blocco del progetto – non sanno se e dove potranno tornare. “La situazione qui è senza speranza. Nel nostro villaggio coltivavamo riso e curavamo gli orti. Eravamo felici. Qui hanno spianato tutto con i bulldozer, non c’è più suolo. Vogliamo tutti tornare al nostro vecchio villaggio”.

Nelle controversie e nei conflitti presenti intorno a tutti i mega-progetti sarebbe importante far sentire la voce di tutti gli ‘stakeholders’, cioè di tutti gli ‘aventi diritto’. Potrebbe essere un primo passo per sensibilizzare l’opinione pubblica e per incoraggiarla a prendere posizione a difesa dei diritti umani e della protezione ambientale. E’ una opportunità, e anche una responsabilità, per giornalisti che siano professionalmente competenti.


Originale in:http://news.nationalgeographic.com/2017/11/mega-projects-fail-infrastructure-energy-dams-nuclear/

Keith Schneider (corrispondente del Los Angeles Time per tematiche su energia, ambiente, terre pubbliche). 20 novembre 2017.

Traduzione e sintesi di Elena Camino per il Centro Studi Sereno Regis

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