“L’avidissimo e vivacissimo fluoro” – così lo definì Primo Levi, in Argon il racconto che apre Il sistema periodico (1979) – è il più elettronegativo fra gli elementi chimici e da questa proprietà dipende il suo nome (dal latino fluere, sciogliere)  perché solo i suoi sali sono in grado di combinarsi con elementi inerti – come i gas rari (nobili) protagonisti del racconto di Levi – o con ossidi refrattari formando composti con stabilità minore, dai quali è poi più semplice separare metalli strategici come il titanio, il tantalio, il tungsteno e l’uranio.

Nelle sostanze organiche, legandosi principalmente con l’ossigeno, il fluoro forma sostanze e catene polimeriche estremamente stabili – come i famigerati CFC (Cloro-Fluoro-Carburi) depletori dell’ozono usati un tempo come propellenti per spray e nei circuiti di refrigerazione. Alcuni suoi composti, come il Politetrafluoroetilene (PTFE), sono in grado di resistere agli acidi e a temperature elevate, proprietà che li rende estremamente ricercati per moltissime applicazioni tecnologiche come materiali protettivi ignifughi, antiossidanti e impermeabili. Purtroppo, proprio a causa della loro stabilità e resistenza agli agenti chimico-fisici gli PFAS si sono rivelati inquinanti organici persistenti perché quando vengono dispersi nell’ambiente, invece di degradarsi, si accumulano nel terreno e nelle acque, dove vengono assorbiti dagli organismi vegetali e animali, umani compresi.