Quando i muri diventano ponti: il potere trasformativo delle migrazioni “clandestine”

Maurice Stierl

Le tante lotte che caratterizzano le frontiere del Mediterraneo, se interpretate come forme di resistenza, ci permettono di fare chiarezza sul tema dell’abolizione delle frontiere: quando i muri diventano ponti

Nel 2015, visitando una scuola occupata da manifestanti rifugiati a Berlino, l’attivista e filosofa Angela Davis ha commentato: «Quello dei rifugiati, è il movimento del XXI secolo». Nel 2022 Davis è tornata nella stessa piazza berlinese che i manifestanti avevano occupato un decennio prima e si è rivolta alla folla esultante riprendendo un commento da lei formulato sette anni addietro:

«Quello che volevo fare, e che cerco di fare ancora oggi, è di dimostrare che la lotta per un futuro migliore è racchiuso nei movimenti migratori».

Le osservazioni di Davis sono e restano importanti. Pur esasperando l’uniformità del movimento dei rifugiati, la sua è una provocazione che ci invita a riflettere sul significato politico e sul potenziale trasformativo dei movimenti migratori che caratterizzano il nostro tempo. Un potenziale che spesso, nel dibattito pubblico, viene sminuito o ignorato, se non persino annullato.

In mancanza di altri termini, le persone che si mobilitano sono spesso considerate vittime delle circostanze che, oggetto di abusi e soprusi, vivono ai margini della società. Rappresentate come disperate e passive, la loro spinta a migrare — e spesso a restare — viene privata del significato politico che la caratterizzano. Ed è proprio tramite la vittimizzazione che queste lotte vengono spogliate del loro significato e della loro autonomia politica. Come scrisse il teorico politico Sandro Mezzadra:

«L’esistenza del mondo delle vittime si colloca al di fuori della politica».

Con questa arguta osservazione,

«Ogni politica delle frontiere è anche e soprattutto un tentativo di controllare le frontiere stesse della politica».

i teorici politici Angela Mitropoulos e Brett Neilson ci invitano a riflettere sui confini della politica e sulle modalità di creazione e distruzione dei soggetti politici. Collocare i soggetti “migrantizzati” al di fuori della politica, è una pratica liminale e delimitante. In questo contesto, gli spazi del riconoscimento sono occupati da altri soggetti, come i partiti politici, i sindacati o i movimenti sociali.

Mitropoulos e Neilson propongono, in contrasto, una lettura più complessa tra ciò che distingue i movimenti migratori dai movimenti sociali. Anziché considerare i movimenti migratori “in senso cinetico” — come passaggi da un luogo all’altro — e i movimenti sociali meramente in senso politico e rappresentativo, ci chiedono di situare entrambi al confine tra «movimento inteso come politica» e «movimento inteso come mobilità».

È esattamente quel che ho cercato di fare nel libro che ho scritto qualche anno fa sulle lotte contemporanee legate alle migrazioni: collocando le nozioni di «migrazione» e «resistenza» in stretta prossimità l’una all’altra, non intendevo suggerire che chiunque e qualsiasi atto migratorio debba essere considerato come un atto di resistenza politica — sarebbe ingenuo e fuorviante –, l’intenzione era piuttosto quella di aprire prospettive più ampie, un nuovo modo di vedere le cose.

quando i muri diventano ponti

Disegno raffigurante una persona che cerca di attraversare il confine nascondendosi in un camion, Patrasso, Grecia, 2013 (Simon Krieger)

Se iniziamo a considerare le forme migratorie “non autorizzate” come un atto politico – e persino come alcune delle più importanti pratiche trasformative del nostro tempo – cosa possiamo apprendere sul sistema globale di regolamentazione della vita umana e delle libertà di spostamento? Cosa possiamo scoprire sulle forme di ingiustizia globale e sul ruolo che quest’ultime rivestono nel mantenere e rafforzare i confini? E cosa impariamo sulla resistenza politica?

Dal momento che tutto questo può sembrare alquanto astratto, sarebbe utile esaminare un esempio: nel contesto europeo, il Mediterraneo e i suoi confini sono diventati uno degli spazi centrali in cui si svolgono le lotte per la migrazione clandestina. Per decenni, l’Unione Europea e i suoi Stati membri hanno sperimentato modi per militarizzare questi confini e impedire nuovi sbarchi.

I politici europei hanno giustificato le misure di deterrenza non solo dipingendo i migranti come minacce alla sicurezza, ma anche considerandoli vittime di bande di trafficanti senza scrupoli. In questo modo, hanno promosso l’illusione che la “protezione” delle frontiere potesse andare di pari passo con la protezione dei migranti – più o meno così:

«Restate a casa vostra e tenetevi lontani dall’Europa se non volete annegare in mare o cadere vittime di contrabbandieri senza scrupoli».

Ma cosa succede se rifiutiamo questa narrazione dominante e iniziamo a considerare i movimenti transmediterranei sul piano della resistenza politica?

quando i muri diventano ponti

Resti della barca rovesciatasi al largo di Cutro, Italia, 2023 (Chiara Denaro)

In primo luogo, emerge che le persone che affidano il proprio destino a un barcone sovraffolato non sono soltanto quel che vuole farci credere il racconto paternalistico dell’Europa. Come soggetti politici, essi compiono atti trasgressivi di fuga che richiedono coraggio, organizzazione, conoscenza, abilità e solidarietà tra diversi gruppi in movimento. Il loro è un gesto di disobbedienza attraverso il quale diventano harraga, un termine arabo che descrive coloro che “bruciano i confini” e si fanno strada in territorio europeo. Come scrive Amade M’charek:

«Harraga [è] un’attività che consuma le regole dello Stato: le regole che stabiliscono che tale confine può essere attraversato solo in un certo modo anziché in un altro; o che i documenti sono legali esclusivamente in certo modo e non in un altro. … Quello che le persone impegnate nell’harraga fanno è sconvolgere i confini».

Se consideriamo le lotte sul confine mediterraneo in un ambito di resistenza, possiamo anche osservare come siano emerse nuove pratiche di solidarietà. Nella necessità di adattarsi alle lotte per la libertà di movimento in zone di confine pericolose, la società civile e i gruppi di attivisti hanno dovuto inventare modi per presenziare in spazi spesso considerati non solo al di fuori dello spazio sovrano, ma persino al di fuori del campo d’azione della politica in quanto tale.

Attori come Alarm Phone (che assiste le persone in difficoltà sulle imbarcazioni attraverso una linea diretta di attivisti), la flotta civile (che effettua operazioni di salvataggio) o gli aerei civili (che monitorano il mare dall’alto) sono entrati a pieno titolo nello spazio conteso del Mediterraneo. Nel tempo sono nate forme di solidarietà molto importanti non solo perché hanno aiutato i numerosi movimenti marittimi clandestini, ma anche documentato le numerose violenze che si consumano in prossimità dei confini e che in precedenza erano rimaste invisibili.

Nell’ultimo decennio, i movimenti migratori e le lotte ad essi connesse hanno puntato i riflettori sui confini del Mediterraneo. Ora disponiamo di una comprensione più profonda delle violenti norme che regolano i movimenti migratori. Per usare le parole di Martina Tazzioli e Nicholas De Genova, è un “continuum di confinamento” con cui i migranti sono costretti a confrontarsi poiché significa «essere presi di mira, sfruttati, rapiti, ricattati, abusati, violentati, torturati e talvolta uccisi».

quando i muri diventano ponti

Azione di protesta a Indomeni, Grecia, 2015 (L.M. per Moving Europe)

Le terribili violenze sui confini che hanno causato decine di migliaia di morti in mare sono una risposta ai movimenti di disobbedienza. Il Mediterraneo non solo si trasforma in luogo di morte – a causa delle forze avverse che vi agiscono: il mare agitato, i venti forti – ma anche di sofferenza generata da coalizioni transnazionali e transcontinentali che “proteggono” i confini anziché le persone.

Basta fare un passo indietro e considerare i movimenti migratori del Mediterraneo come una forma di resistenza, per poter ampliare la propria visione delle cose. Da un lato emerge come le frontiere siano un violento tentativo per trattenere i popoli in un determinato luogo, dall’altro ci rendiamo conto del potere trasformativo della migrazione “clandestina”. Negli ultimi dieci anni, nonostante la militarizzazione dei confini, più di 2,5 milioni di persone hanno sovvertito l’ostacolo del Mediterraneo. Possiamo considerare questi movimenti trasgressivi come quelli che ho definito altrove: forme di “abolizione pratica dei confini”.

Le persone che hanno scelto di migrare hanno rivendicato una presenza in Europa, e questa presenza non sarà sradicata. Tuttavia, in tempi in cui si parla sempre più frequentemente di chiusura delle frontiere, revoca dell’asilo politico, deportazioni di massa – insieme a una normalizzazione della violenza sui migranti – c’è un disperato bisogno di ampie coalizioni di resistenza. Per resistere collettivamente alle fantasie etno-nazionaliste e alle violenti conseguenze razzializzanti e divisive delle frontiere di tutto il mondo, dobbiamo violare le ricette nazional-sovrane che dividono i soggetti politici che contano da quelli che non contano.

«I muri se li rovesciamo diventano ponti», scrisse una volta Angela Davis. Guardate ai movimenti migratori clandestini come forme di resistenza, e comprenderete subito che chi trasforma i muri in ponti sono proprio loro, i migranti.


Fonte: Waging Nonviolence, Resistence Studies, 1° maggio 2024

https://wagingnonviolence.org/rs/2024/05/turning-walls-into-bridges-the-transformative-power-of-unruly-migration/

Traduzione di Luca Castelletti per il Centro Studi Sereno Regis


 

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