“Transalpin”: la resistenza che unisce e annulla le frontiere
È stato presentato l’altra sera (31 luglio) al Presidio ‘Sole e Baleno’ del Movimento NoTav a San Giuliano di Susa, il filmato “Transalpin” di Clara Nicolas e Léo Gatinot. Qui la recensione di Roberto Mairone.
Le montagne sono parte del territorio come le consonanti stanno dentro alle parole.
Non sono lì per separare spazi e geografie. Congiungono territori. Sono la vicinanza più stretta, più elevata. Labbra contro labbra, che si fondono in un bacio.
Sono lo scontro geologico che diventa culmine, ciò che a passi lenti e con fatica raggiungiamo e chiamiamo vetta.
Se guardiamo alle montagne non come luoghi che dividono ma che, invece, danno continuità, senso e vita ai territori, così anche le consonanti si fondono alle vocali, costruiscono sillabe.
Strette insieme formano parole e tante di queste diventano narrazione.
Là dove cadono, ad origine o nel cuore della parola, le consonanti impongono un suono rumoroso, intenso, a tratti duro. Come lo scroscio dell’acqua, il crollo di un seracco, il tuono o il gallo cedrone nella sua arena di canto. Ciò che è consonante si trova in accordo, in armonia: senza non vi sarebbe parola.
Non è colpa delle montagne se le abbiamo assunte a confine, se gli abbiamo dato il compito di spartire le acque e separare i popoli. Le montagne non sanno di stare nel mezzo, di dividere, di creare ostacolo, di diventare confine.
A queste cose ho pensato assistendo alla prima proiezione italiana del film-documentario “Transalpin”, dei due giovani registi francesi Clara Nicolas e Léo Gatinot, al presidio No Tav “Sole e Baleno” di Susa lo scorso 31 luglio.
Il film è sincero, partigiano. Ancora prima delle immagini la sua sintesi a parole dice da che parte sta, con chi vuole schierarsi, fraternizzare: “al confine franco-italiano, una macchina escavatrice di tunnel taglia la montagna, prosciugando ruscelli e fontane sul suo percorso. “Transalpin” è una discesa dalle cime innevate alle valli dove riecheggia la rabbia dei villaggi”.
Le immagini iniziali del film sono pura poesia. Pascoli innevati nel tardo autunno, ruscelli che scorrono rumorosi a valle perché non ancora serrati nella morsa del gelo. Placidi pendii che tradiscono la durezza della montagna nell’inverno che sta per arrivare. Non c’è musica alcuna a coprire i suoni della natura.
Quasi a memoria di un eden perduto una voce narrante richiama alla cancellazione dei confini geografici e politici avvenuta con la Grande Carta o Repubblica degli Escartons o, ancora e più correttamente, Principauté du Briançonnais. A partire dal 1343 la Grande Charte corrispondeva ad un vasto territorio montano, con capitale a Briançon e che ricomprendeva l’area geografica intorno al Monviso e compreso fra Torino e Marsiglia.
Per quattro secoli il Principato di Briançon, dal 1343 fino al 1713 con il Trattato di Utrecht, ha rappresentato un unicum storico, territoriale, politico e sociale in cui il livello di istruzione e di apertura culturale delle comunità di alta montagna era superiore a quello degli abitanti delle vicine pianure. Quella degli Escartons è stata la storia ricca e profonda di comunità montanare confederate, capaci di un altissimo livello di autogoverno e di riconoscimento delle libertà personali, che si opponevano a quei poteri che volevano normalizzare e pacificare territori considerati ribelli e da sempre in lotta per l’autonomia.
A rottura della poesia visiva e della narrazione della parentesi storica di autogoverno e di prosperità culturale dei territori montani a cavallo della frontiera, il cambio di fotografia nel film è netto, disturba e lacera. La natura lascia il posto alla distruzione inferta ai territori dai cantieri italiani e francesi per la nuova linea ferroviaria ad alta velocità fra Torino e Lione. Sono immagini notturne o di giornate senza sole, quasi che la poca luce possa nascondere lo scempio che una grande opera imposta ed inutile sta infliggendo ai territori e alle persone che vi abitano.
La narrazione del film è un continuo salto geografico, un repentino cambio di luoghi al di qua e al di là del confine italo – francese, quasi a voler confondere lo spettatore e dissolvere pian piano il concetto e il senso, tutti e solo umani, di frontiera.
Voci narranti di attivisti valsusini ci arrivano sullo sfondo di immagini di luoghi montani e di cantieri oltreconfine. Altre voci di attivisti francesi si mescolano alle immagini dei versanti italiani delle stesse montagne e di analoghe distruzioni.
Quel che si racconta nel film è, senza mediazioni né filtri, la sofferenza dei territori e la rabbia dei paesi e dei villaggi. A raccontare tutto ciò sono voci ri-conosciute, fraterne, rassicuranti, fiere ed orgogliose.
Così come, copioso, sgorga il sangue da una ferita, milioni di metri cubi di acqua fuoriescono irrimediabilmente dalle montagne, a causa dell’opera devastatrice delle ruspe, delle talpe meccaniche, degli esplosivi. Ove vi era una sorgente, un torrente, una fontana ora si respira la polvere di una distesa arida di pietre frantumate. Le fonti si prosciugano lasciando disorientati uomini, donne, piante e animali che, da sempre, hanno tratto vita e beneficio da quelle acque.
Già due anni fa un accurato servizio sulla rivista Altraeconomia documentava questo colossale spreco d’acqua. Ed ecco Léo Gatinot che, al termine della proiezione, ci spiega perché insieme a Clara Nicolas, hanno deciso di conferire all’elemento-acqua il ruolo di flusso e questione portante dell’intero film.
In una fase di giovinezza, di inesperienza, di limiti territoriali e di consonanza della lotta al TAV (TGV) in territorio francese con la lotta valsusina e con le rivendicazioni dei Soulèvement de la terre, i due registi hanno ritenuto che trattare più ampiamente il tema dell’opposizione al TAV/TGV in termini di lotta alla mafia, alla corruzione, al consumo di suolo, sarebbe stato prematuro e controproducente. In Francia è immediatamente e fortemente sentita e sofferta la questione dello spreco di acqua proprio perché fonti e sorgenti vivaci e ricche si sono prosciugate in breve tempo dopo l’apertura dei cantieri.
Quella degli attivisti francesi è stata l’immediata reazione a un furto, alla prepotenza di chi guarda ai beni comuni come elementi sacrificabili in nome di interessi economici di pochi. La volontà futura di parlare di altri temi quali la corruzione, la mafia, lo spreco di risorse economiche a discapito di servizi essenziali, l’estrazione di materiali cancerogeni, impone necessariamente che altri film vengano realizzati, che altri documentari vengano prodotti e diffusi per far luce sui tanti lati oscuri del sistema TAV/TGV.
I due giovani registi francesi hanno saputo comprendere e tradurre in immagini, in brevissimo tempo, anni di lotta e di contrapposizione. Hanno saputo coglierne quella particolare forma di intimità che fa sentire al sicuro il popolo della Val Susa, tanto nella solitudine e nel paesaggio sconfinato delle praterie in altitudine, che in ogni luogo in cui ci sia qualcuno pronto a rischiare la propria libertà per la difesa del territorio e di tutto ciò che questo rappresenta, per ciascuno e per le generazioni future.
Maurizio Poletto del movimento No Tav chiude il dibattito successivo alla proiezione del film con poche, significative e condivise parole. La Val Susa ha saputo dire non solo un grosso ed irrevocabile “no” alla Torino Lione. Ha saputo ricostruire un tessuto sociale e una solidarietà costellati di tantissimi “si”. Quando nei momenti più duri della nostra trentennale lotta abbiamo reagito con gli scioperi e i blocchi stradali ci hanno subito accusato di aver lasciato spazio alla violenza di coloro che la stampa mainstream definiva “black block”. In quel momento abbiamo capito che era necessario abbattere ogni confine, annullare ogni differenza, rendere permeabile la nostra identità e ci siamo dichiarati tutti “black block” in una comunanza di intenti e di fini.
Con questa stessa comunanza la serata si conclude con una sorta di gemellaggio, un abbraccio fra lotte transfrontaliere contro l’alta velocità Torino-Lione. Léo chiude con un’immagine, anch’essa poetica come il film che ha realizzato: “nelle nostre lotte comuni dobbiamo lanciarci reciprocamente dei fiori per imparare sempre più cose gli uni dagli altri e stringere sempre di più la nostra amicizia”.
Grazie Roberto per l’attenzione e la sensibilità nel descrivere il bellissimo filmato.