Sionismo: la fine di una illusione

Richard E. Rubenstein

Una delle argomentazioni più bizzarre degli auto-dichiarati amici d’Israele è che l’antisionismo sia una forma di antisemitismo. Asserzione comprensibile se chi la fa crede che Dio stesso abbia dato agli ebrei i diritti di proprietà dal fiume [Giordano] al mare – ma Theodor Herzl e i fondatori del sionismo moderno non avevano una tale credenza. Al contrario, i dirigenti del movimento, ampiamente secolarizzati, definirono il sionismo fin dall’inizio come una forma di nazionalismo etnico – una pretesa allo stesso “diritto di autodeterminazione” che quello asserito, per dire, dagli irlandesi o dai serbi.

Perciò l’argomentazione è che è antisemitico negare agli ebrei (considerati come comunità etnica, non gruppo confessionale) lo stesso presunto diritto fruito dagli irlandesi e dai serbi. Dimenticando per il momento che solo una manciata dei circa 3000 gruppi etnici al mondo godono del diritto di controllo di uno stato-nazione, resta la domanda: che cos’ha a che fare il sionismo col giudaismo? La risposta la si trova nella storia piuttosto che nei sacri testi.

L’aumento dell’antisemitismo di massa in Europa fino al culmine dell’inimmaginabile catastrofe dell’Olocausto convinse molti ebrei che l’alternativa al cedimento a genocidi fosse combatterli, il cui modo migliore era avere un pieno controllo delle risorse di un proprio stato-nazione. Israele fu concepito non solo come mezzo di deterrenza o per sfuggire a potenziali Hitler, ma anche per assicurare che gli ebrei non andassero “mai più” sprovveduti a morte o fossero costretti a chiedere l’ammissione a nazioni più sicure.

Se gli Stati Uniti e altre azioni ricche negli anni 1940 avessero accolto profughi e sopravvissuti ebrei invece di sbattergli la porta in faccia, molta della pressione per creare uno stato ebraico avrebbe potuto dissiparsi. Che appunto non l’abbiano fatto – neppure con l’ombra straziante delle camere a gas – convinse molti di dover giocare la carta nazionalistica se volevano assicurarsi la sopravvivenza.

Questo ragionamento generò però un’altra questione … creando un dilemma. nel mondo dello squalo-mangia-squalo degli stati-nazione in competizione, le nazioni non sopravvivono e prosperano a meno che siano o isolate e mansuete o bellicose e forti. Data l’importanza geopolitica del Medio Oriente ricco di petrolio, la rapida crescita del nazionalismo palestinese e arabo, e le ambizioni imperiali dell’America, era chiaro anche prima del 1948 che Israele sarebbe stato né isolato né considerato innocuo.

Violenti conflitti fra coloni ebraici e palestinesi erano endemici fin dai tardi anni 1920, e non un solo stato arabo accettò il Piano di Partizione del 1947. Data l’intensità di questa opposizione, come poteva uno stato che offriva un trattamento preferenziale ai residenti e agli aspiranti immigranti ebrei diventare abbastanza bellicoso e forte da sopravvivere?

La risposta fu suggerita dalla formazione di una Legione Ebraica nella prima guerra mondiale e una Brigata Ebraica nella seconda guerra mondiale, che combatterono in Palestina e Siria come unità dell’esercito britannico. Quando gli USA sostituirono la Gran Bretagna come potenza dominante della regione, Israele divenne un alleato americano e le sue forze armate estensioni di fatto della potenza militare USA.

Dal 1948 in poi nessun altro stato cliente ricevette qualcosa di prossimo all’aiuto militare e civile donato dal leader del “Mondo Libero” a Israele. Ironicamente – e tragicamente – lo stato creato per istituire l’indipendenza e la sicurezza ebraiche fu così fin dall’inizio una dipendenza neocoloniale e un avamposto imperiale degli Stati Uniti. Il che non era una ricetta né per la pace interna né per la sicurezza internazionale.

Dal 1945, bersagliati da popoli sudditi ribelli e da grandi potenze concorrenti, gli USA hanno combattuto cinque guerre vere e proprie e partecipato a dozzine di sanguinose lotte per procura. Secondo il progetto Costi della Guerra della Brown University, le guerre USA a partire dagli attacchi di al Qaeda del 2001 hanno ucciso quattro milioni e mezzo di persone, per lo più civili.

Nello stesso periodo lo stato d’Israele ha combattuto sei guerre interstatali e tre guerre a Gaza. In Occidente è consuetudine attribuire questa persistente insicurezza e violenza alla malizia e al fanatismo dei sudditi palestinesi d’Israele e dei vicini musulmani –“spiegazione” partigiana che ignora le origini neocoloniali dello stato ebraico, la sua espulsione e oppressione dei palestinesi, e il suo fedele servizio ai patrocinatori americani ed europei. Indipendentemente dalle fonti dell’insicurezza israeliana, col tempo il risultato è stato comunque di rafforzare la posizione dei sionisti “duri” rispetto ai “morbidi”.

Sionismo: “duro” e “morbido”

Fin dal tardo 19° secolo, col prender dorma del sionismo moderno, i tentativi di combinare il giudaismo col nazionalismo etnico hanno teso a generare tre scuole di pensiero, che chiamiamo sionismo duro, sionismo morbido e antisionismo.

La scuola sionista Dura è attualmente rappresentata dal regime di Netanyahu in Israele – una coalizione governativa di destra comprensiva dei principali partiti religiosi ebraici, dei partiti dei coloni israeliani in Cisgiordania e i promotori dell’annessione di tutti i Territori Occupati. La prospettiva che plasma le loro opinioni politiche suppone l’esistenza di gravi e inconciliabili conflitti d’interesse e di valori fra ebrei e non-ebrei. E inoltre accetta l’ineluttabile persistenza di un ambiente globale neodarwiniano in cui sopravvivono solo i gruppi e le nazioni più violente. Fin dal tempo di Vladimir (Ze’ev) Jabotinsky, fondatore di questa scuola, l’implicazione è che la sopravvivenza ebraica richiede l’esistenza di uno stato controllato da ebrei e capace di dominare militarmente i nemici sia interni sia esterni.

Un senso radicale d’insicurezza collettiva è da sempre la forza trainante del sionismo duro. Jabotinsky considerava gli ebrei una “razza” minacciata demograficamente dal matrimonio con appartenenti “razziali” estranei e dall’assimilazione sociale come pure soggetti a rischio fisico da parte di antisemiti. Il dirigente di Odessa ammirava la militanza fascista di Mussolini, abbigliò la sua milizia con camicie brune e invocò la creazione di un “Muro di Ferro” di forze armate che proteggessero Israele da inevitabili attacchi di nazionalisti arabi. Approvava la violenza terroristica contro i britannici e i palestinesi, rifiutava la partizione ONU della Palestina in due stati, e scherniva l’idea che ebrei e palestinesi potessero coesistere pacificamente, a meno che i secondi accettassero la supremazia ebraica in uno stato ebraico singolo. Il padre di Netanyahu era segretario di Jabotinsky, e l’attuale coalizione segue tuttora la sua linea suprematista etnica.

Il sionismo “morbido”, d’altro canto, riflettendo le sue origini liberali di sinistra, cominciò ad esprimere un senso meno intense di vulnerabilità ebraica e un’idea più ottimistica di possibile coesistenza pacifica con non-ebrei.

La storia della mia famiglia riflette tale prospettiva. Da casa loro in un sobborgo di New York, i miei genitori vennero a sapere dell’Olocausto da testimoni affidabili, cercarono invano di convincere altri concittadini che era in corso una strage, e poi si diedero da fare appassionatamente per istituire una patria ebraica in Israele. Lavorando con agenti israeliani come Teddy Kollek, futuro sindaco di Gerusalemme, mio padre aiutò a riabilitare una vecchia nave da carico rinominata Exodus per trasportare in Palestina dei sopravvissuti europei. Nel 1948 contrabbandò armi da fuoco per l’esercito ebraico, la Haganah. Lui e i suoi compagni insistevano che il vero nemico d’Israele non erano i palestinesi o altri arabi, che erano stati fuorviati dai loro capi, ma gli indifferenti colonialisti britannici e i ricchi sceicchi smaniosi di potere.

I sionisti morbidi come mio padre accolsero con favore il Piano di Partizione ONU e credevano che i lavoratori ebrei e arabi potessero vivere insieme pacificamente sotto gli auspici di un regime social-democratico. Era loro convinzione che Israele potesse essere sia uno stato ebraico sia una democrazia pluralista e che il bisogno di predominanza militare si sarebbe dimostrato temporaneo. Quando i palestinesi e le nazioni arabe vicine mossero guerra a Israele nel 1948, tale convinzione fu scossa ma non mandata in frantumi. Durante la guerra, le truppe e le milizie israeliane sloggiarono circa 750.000 palestinesi e distrussero oltre 500 villaggi.

Sostenendo (contro sovrabbondanti prove contrarie) che i profughi se n’erano andati volontariamente, il nuovo stato rifiutò sia di riammetterli sia di indennizzarli per le loro perdite. La maggioranza ebraica d’Israele fu rimpinguata nei vent’anni successive da una grossa immigrazione dal mondo arabo e dalla Russia – un’applicazione del “diritto al ritorno” accordata esclusivamente ad ebrei. Ma dopo la “Guerra dei sei giorni” del 1967, gli israeliani si ritrovarono di nuovo al comando di più di un milione di palestinesi in Cisgiordania, Striscia di Gaza e Gerusalemme-est occupate. Tornò in questione come Israele potesse essere sia uno stato ebraico sia una democrazia, nonché la correlata contraddizione profonda fra nazionalismo militarista ed etica ebraica.

La risposta sionista morbida che emerse durante la generazione successive fu promuovere uno stato palestinese, che non minacciasse il controllo ebraico d’Israele né demograficamente né militarmente; uno stato che occupasse la Cisgiordania e la Striscia di Gaza (ed eventualmente anche Gerusalemme-est), concepito sempre come entità disarmata e con poteri limitati che sarebbe stata costretta come condizione per la propria esistenza ad accettare la superiorità militare ed economica israeliana. Non sorprende che quest’idea non fosse popolare per le “strade” palestinesi o fra gruppi in cerca di ottenere uguaglianza con gli ebrei israeliani o di espellerli dalla regione.

Nei tre decenni successive, una folta maggioranza di sionisti morbidi come i primi ministri Yitzhak Rabin e Shimon Peres perciò alternarono la carota dei negoziati di pace (la “soluzione a due stati”) al bastone di una guerra condotta dell’esercito (IDF) contro gli oppositori. Col tmpo il bastone divenne ben prevalente rispetto alla carota.

L’acme del successo sionista morbido furono gli Accordi di Oslo del 1993 in cui i palestinesi guidati da Yasir Arafat e la sua organizzazione Fatah concordarono di riconoscere Israele e vivere in pace con i suoi cittadini, mentre gli israeliani, guidati dai sionisti laburisti Rabin e Peres, accettarono di riconoscere l’Autorità nazionale Palestinese e permetterle di governare Cisgiordania e Gaza entro l’anno 2000. Gli Accordi suscitarono grandi speranze ma mancarono di trattare una serie di temi cruciali, fra cui i continui insediamenti israeliani nei Territori Occupati e l’asserito diritto al ritorno dei profughi palestinesi, nonché lo status di Gerusalemme-est.

Inoltre, importanti settori di ambo le comunità, sempre più influenzati da organizzazioni e capi religiosi politicizzati, erano contrari all’accordo e rifiutarono ulteriori tentativi di compromesso. Fra settembre 2000 e febbraio 2005 circa 3.000 palestinesi e 1.000 israeliani morirono in un sollevamento chiamato dai palestinesi l’Intifadah di Al-Aksah. Mentre organizzazioni come il Jihad Islamico e la Brigata dei Martiri di Fatah organizzava attentati suicidi in Israele, sionisti militanti moltiplicavano gli insediamenti in Cisgiordania e giuravano di non abbandonare mai “Giudea e Samaria”. Uno di questi ultranazionalisti, Baruch Goldstein, assassinò 29 fedeli musulmani alla Tomba dei Patriarchi nel 1994, e un altro, Yigal Amir, assassinò il primo ministro Rabin un anno dopo.

Un altro anno dopo, Benjamin Netanyahu divenne primo ministro, marcando l’inizio della fine dell’egemonia sionista morbida in Israele. Avrebbe governato di nuovo dal 2009 al 2021, mentre il movimento dei coloni in Cisgiordania diventò un‘alluvione, e sarebbe terminato con la formazione del governo di più estrema destra nella storia d’Israele. In pratica, i sionisti di ambo le scuole accettavano il principio del “Muro di Ferro” di Jabotinsky, che sembrava loro il solo modo di assicurare l’esistenza di un Israele sicuro con una maggioranza ebraica permanente.

Contemporaneamente, i gruppi palestinesi imparavano a non fidarsi delle professioni di fede dei sionisti liberali in una soluzione a due stati o la buona fede dell’Autorità Palestinese (PA), le cui attività di governance in Cisgiordania parevano poco più che una foglia di fico per un insediamento israeliano espanso e misure di sicurezza aspre. Ciascun versante accusava l’altro del fallimento dei precedenti negoziati, e la fiducia che un tempo aveva persuaso qualche membro dei gruppi d’élite a trattare con qualche controparte in modo nonviolento venne dissipata.

Il tentativo di Netanyahu di mantenere diviso il movimento palestinese sostenendo direttamente l’autorità della PA in Cisgiordania e indirettamente il governo di Hamas a Gaza si è rivelato spettacolarmente controproducente il 7 ottobre 2023. Pur così, gli israeliani traumatizzati dalla violenza di Hamas, compresi quasi tutti i sionisti morbidi, si sono uniti appresso alla determinazione del regime di sradicare e distruggere completamente quella organizzazione, anche se questo significava una massiccia distruzione della popolazione civile. Un’ondata di ripugnanza contro la violenza indiscriminata d’Israele negli USA e in altre nazioni ha messo in pericolo le chance del presidente Biden di essere rieletto a novembre 2024 e l’ha indotto ad incolpare il regime di Netanyahu per l’uso di forza “sproporzionata” e il mancato riconoscimento della necessità di qualche sorta di stato palestinese nel dopoguerra.

Benché questa ricetta abbia un accento “sionista morbido”, il nuovo stato che hanno in mente Biden e il segretario di stato Blinken pare virtualmente identico a quello già proposto dal governo Trump e dal suo portavoce-capo per il Medio Oriente, il genero di Trump Jared Kushner. Sarebbe cioè un’entità sostenuta e finanziata dall’Arabia Saudita e dagli stati del Golfo, governate dalla PA o qualche élite altrettanto conservatrice, disarmata, pacificata, e impegnata a contribuire all’avanzamento degli interessi regionali USA contro il “Fronte di Resistenza” guidato dall’Iran e da Hezbollah. La soluzione “a due stati” diventa così parte di una soluzione “a due blocchi” per il Medio Oriente, con gli americani al comando del blocco più ricco e più potente. Che sorta di stato o di sistemazione regionale i palestinesi di Gaza o della Cisgiordania potrebbero volere non è stata – e non è – considerata una faccenda rilevante.

Lo schema ripetitivo qui sembra inequivocabile. i governanti USA mantengono la propria egemonia nella regione con tutti i mezzi necessari, ricompensando generosamente gli stati e i gruppi che cooperano e conducendo guerre dissimulate o palesi contro chi si oppone. Quando le politiche sioniste dure non provocano gravi ribellioni interne o guerre fra stati, gli americani sono felici di sostenere dirigenti come Netanyahu, che trattano i palestinesi come “non popolo”. Ma quando politiche dure producono sollevazioni o guerre che destabilizzano la regione, i capi USA, Repubblicani o Democratici che siano, fanno una conversione a U sionista morbida.

Che è esattamente quel che fece il governo Clinton nel 2000, quando Bill Clinton tento di forgiare alla meglio un accordo fra Ehud Barak d’Israele e Arafat della Palestina. Chi incolpa i palestinesi per il fallimento di tale sforzo, non capiscono (o non vogliono) che quel che tali accordi offrono effettivamente è ciò che Rashid Khalidi chiama una soluzione a “uno stato, multiplo Bantustan”. Lo stato ebraico definito e difeso dai sionisti dell’una o dell’altra scuola mantiene sempre un’assoluta superiorità militare, tecnologica, ed economica rispetto a qualunque entità palestinese progettata. Lo staterello palestinese è perciò disegnato per funzionare, in effetti, come suddivisione amministrativa d’Israele e come avamposto imperiale (alleato con altri satelliti) degli Stati Uniti.

Non meraviglia pertanto che tanti palestinesi optino invece per una soluzione a “singolo stato” che costringerebbe gli israeliani o a trattarli come uguali o abbandonare pubblicamente le proprie pretese democratiche.

La situazione rievoca un conflitto ben più antico di cui ho scritto in un libro intitolato Thus Saith the Lord: The Revolutionary Moral Vision of Isaiah and Jeremiah [Così dice il Signore: la rivoluzionaria visione morale di Isaia e Geremia] (Harcourt, 2006), in cui descrivevo l’imperialismo “morbido” di Ciro il Grande, che liberò le nazioni fatte prigioniere da Babilonia, permise agli esuli ebrei di tornare in Israele, e promise al mondo una nuova era di pace e giustizia sotto il governo persiano. Che soggetto!

Il profeta Isaia di Babilonia fu così impressionato da Ciro che lo dichiarò essere Messaggero di Dio. Ancor prima che il leader persiano morisse, però, fu chiaro che il suo impero dovesse essere mantenuto da una forza massiccia. Successori di Ciro furono Dario e Serse, imperialisti “duri” che “spinsero i confini dell’impero più addentro in Asia ed Europa trovandosi però intrappolati in una lotta sempre più brutale per mantenere il controllo sui propri estesi sudditi irrequieti” (pag. 160). Come riconobbero i Profeti, il sogno di un mondo giusto e stabile in pace non poteva comunque realizzarsi ad opera di costruttori di imperi smaniosi di potere.

E così va fino ad oggi. Varietà dure e morbide di etnonazionalismo sono le facce opposte della stessa moneta – o, se si vuole, ingranaggi diversi dello stesso motore. Loro scopo comune, come per un poliziotto “duro” e uno “morbido” all’opera su un sospetto per ottenere una confessione, è mantenere la supremazia e il comando di un’élite dominante. Quando una modalità non produce il risultato desiderato, si mette in gioco quell’altra; in un caso o nell’altro, il sospetto insubordinato viene condannato per aver rifiutato di accettare le esigenze inesorabili del potere superiore.

Il sionismo come attualmente definito connota la supremazia ebraica in Israele, la supremazia israeliana in Palestina, e la supremazia americana nella regione. Il che costringe chi patrocina l’uguale dignità delle nazioni e la solidarietà globale dei popoli per andar oltre al sionismo sia “duro” sia “morbido” al fine di abbracciare una prospettiva più umana – e più Profetica. Si chiami quato punto di vista antisionista, post-sionista, o ancor meglio umanista radicale; qualunque sia l’etichetta, ci esorta ad andare oltre l’attuale sistema di violenza endemica per creare un mondo in cui il massacro di nemici etnici e l’oppressione di popoli sudditi non sono mai permessi – neppure per salvare il proprio gruppo da una presunta minaccia di estinzione.

Il giorno dopo la guerra di Gaza – e oltre lo stato ebraico

I “sionisti laburisti” liberali di sinistra erano ancora al governo d’Israele nel 1958, quando feci la mia prima visita a quel paese con un gruppo di compagni universitari. Liberali o meno, quasi tutti gli israeliani parlavano con orgoglio della guerra del Sinai, un’avventura militare in cui le Forze di Difesa d’Israele, spalleggiate da truppe britanniche e francesi, invasero l’Egitto e presero il canale di Suez per impedire al presidente dell’Egitto Nasser di nazionalizzare quel pezzo prezioso di proprietà immobiliare europea. Frattanto, i capi del partito Laburista che incontrammo c’informarono che la grande sfida d’Israele era restare culturalmente europeo evitando di diventare uno “stato levantino”.

Dopo una settimana di ascolto di questa sorta di propaganda, andammo all’Università Ebraica a sentire il filosofo Martin Buber denunciare la guerra del Sinai, criticare il razzismo israeliano, e chiedere l’istituzione di uno stato “binazionale” in cui ebrei e palestinesi condividessero reciprocamente il potere e facessero la pace con i loro vicini.

Il pubblico a questa conferenza era sparuto – dieci studenti americani, i loro due supervisori, e un’esile presenza di persone dell’Università Ebraica. Pur così, l’autore di I and Thou [Io e Tu] ci disse che era lieto di parlare a un pubblico pur che fosse, poiché quasi tutti gli israeliani consideravano le sue opinioni utopiche e sleali. Ricordo vividamente la sua aura di saggia compassione (che sentii molto più tardi alla presenza del saggio buddhista Thich Nhat Hanh), la sua difesa appassionata del diritto al ritorno dei profughi palestinesi alla propria patria, e la sua tristezza per essere ignorato o sbertucciato dai suoi correligionari ebrei. Allora non avevo indizi, ma quindici anni dopo scoprii, in udienze parlamentari sulle attività d’intelligence USA presiedute dal senatore Frank Church, che i nostri capi in quella visita erano stati inviati dalla CIA per riferire sull’attività di “oppositori” come Martin Buber.

Buber era sionista? Certamente, quando il termine non implicava l’esistenza di uno stato posseduto e gestito da ebrei nei propri interessi, ma incarnava l’idea successivamente riassunta da Edward Said di “uno stato per due popoli”. L’ispirazione di Buber era né il duro nazionalismo dei nazionalisti di destra come Jabotinsky né la versione lievemente più morida di David Ben-Gurion, bensì le idee del “sionista spirituale” noto come Ahad Ha-Am (Asher Ginsberg), che insisteva che la Palestina non fu mai una “terra vuota” e dichiarava che dovesse essere condivisa con i residenti arabi esistenti.

Buber insisteva che la Palestina dovesse diventare uno stato in cui una comunità ebraica (NON uno “stato ebraico”) potesse vivere in pace e sicurezza con i suoi vicini palestinesi sotto una costituzione progettata per riconoscere l’integrità e uguali diritti di ciascuna comunità. Come Ahad Ha-Am, credeva che uno stato-nazione dedito a difendere la supremazia ebraica contro tutti i concorrenti avrebbe inevitabilmente deformato il giudaismo e suscitato una violenta resistenza.

Altri, sia in Palestina che in NordAmerica erano giunti ad analoghe conclusioni, sebbene per ragioni differenti. Gli Ebrei della Riforma (Reform Jews) organizzati dal rabbi Elmer Berger e il suo American Council for Judaism sostenevano che il giudaismo fosse una religione, non una comunità politica o culturale, e che il sionismo ostruisse l’assimilazione ebraica nelle proprie (vere) culture nazionali. Al tempo stesso, ebrei appartenenti a certe sette devotamente ortodosse asserivano che uno stato ebraico fosse una contraddizione in termini, poiché un corpo politico governato dalla legge di Dio e che perseguisse la giustizia e la pace non poteva esistere fino all’inizio dell’era Messianica.

Martin Buber, d’altro canto, non era né un assimilazionista, un Messianista, né un nazionalista. Secondo lui e un gruppo d’intellettuali comprendenti il presidente della Università Ebraica Judah L. Magnes e Henrietta Szold, fondatrice di Hadassah, ciò che ci voleva era uno stato democratico la cui costituzione riconoscesse gli interessi delle autonomie locali di ebrei e palestinesi e i loro comuni interessi come lavoratori. Allorché incontrai Buber, la sua organizzazione “Unità” (Ichud), era già stata aggirata dal partito sionista e respinta da un pubblico israeliano sempre più nazionalista. Più avanti, l’idea binazionale fu adottata da pensatori e attivisti che spaziavano da Hannah Arendt ed Edward Said a Tony Judt, ma opposta sia dai sionisti sia dai nazionalisti palestinesi miranti a costruire un singolo stato in cui i propri soggetti di diritto/elettori costituissero una maggioranza.

Con tutto ciò, i conflitti del ventennio scorso, culminanti nella catastrofica guerra d’Israele a Gaza, hanno insufflato nuova vita nell’idea. Questa guerra ha delegittimato lo stato ebraico rivelando le implicazioni genocide del sionismo. Ma ci rammenta anche che l’etnonazionalismo militante da parte di qualunque gruppo determinato a dominare tutti gli altri conduce in direzione della pulizia etnica e del genocidio. Per ulteriore trattazione dei temi che hanno a che are con il binazionalismo, si veda l’opera del professore di diritto alla Georgetown University Lama Abu-Odeh e quella di Bashir Bashir e Leila Farsakh dell’Università aperta d’Israele (The Arab and Jewish Questions, Legend Press, 2020).

Che il futuro della Palestina comporti la creazione di due stati o di un singolo stato, e che la costituzione di quel tale stato sia binazionale o unitaria, sembra comunque chiaro che Israele come attualmente strutturato debba essere radicalmente trasformato. Ma il fato di questa terra e anzi dell’intera regione, non è mai stato materia da decidersi dai propri abitanti, ebrei o musulmani che siano. Il controllo da parte dei poteri imperiali della regione, originariamente sfidati dalle rivolte arabe contro i britannici e i francesi, è stato mantenuto e addirittura rafforzato dalle guerre e macchinazioni americane/europee.

A partire dall’invasione USA del 1958 del Libano alle due guerre contro l’Iraq, l’intervento nella guerra civile siriana, il rovesciamento dello stato libico , la guerra dissimulate contro l’Iran, e il sostegno indefettibile a Israele in una dozzina di conflitti  regionali, gli Stati Uniti non han cessato di brandire il proprio potere militare per decidere chi governa e chi serve nel Medio Oriente. Altrettanto influenti sono gli atti di corruzione sotto forma di pacchetti di aiuti civili e militari che mantengono al potere i capi obbedienti ed emarginano i loro oppositori, e le manovre diplomatiche che forniscono composizioni di liti temporanee favorevoli agli interessi USA, come l’accordo di Camp David fra Egitto e Israele.

Come risultato, definire l’attuale guerra in Terra Santa come un “conflitto israelo-palestinese” e speculare su eventuali forme di composizione nel “giorno dopo Hamas” valuta in modo grossolanamente erroneo la situazione reale, che è di guerra imperiale per procura. Le differenze d’opinione molto pubblicizzate fra il regime Netanyahu d’Israele e il governo USA di Biden sono puramente tattiche (e non hanno impedito ai dirigenti Democratici come Repubblicani d’invitare Netanyahu a rivolgere le proprie considerazioni al Congress USA).

Gli obiettivi strategici di tali dirigenti – il mantenimento dell’egemonia USA e della superiorità militare israeliana nella regione – restano invariati. Ma se il sistema imperiale in Medio Oriente è fonte di violento conflitto, che sembra innegabile, come si può parlare seriamente di un pacifico “giorno dopo” che lascia al suo posto tale sistema?

Comprendendo il nesso fra imperialismo e guerra in Medio oriente, il compianto Johan Galtung, uno dei fondatori degli studi su/per la pace, sosteneva che la pace nella regione non dipendesse da una “soluzione a due stati” bensì da una “a sei stati” — l’istituzione di un’organizzazione regionale autonoma in grado di farsi valere con gli USA e prendere decisioni collettive negli interessi dei suoi membri. Il principio guida, secondo lui, era di collegare qualunque piano di pace per la Palestina e Israele a una effettiva diminuzione del potere onde permettere alle parti locali di decidere dei propri destini.

Analoga argomentazione è stata espressa più di recente da Kaye e Vakil in “Only the Middle East Can Fix the Middle East: The Path to a Post-American Order” [Solo il Medio Oriente può sistemare il Medio Oriente: la pista verso un ordine post-americano].

Se non viene riconosciuto il ruolo USA nel creare, esacerbare, e perpetuare il conflitto Israele/ Palestina – cioè, se peschiamo acritici nella fantasia dell’imperialismo nobile e della pax americana – le soluzioni per il “giorno dopo” che si stanno articolando per l’attuazione risulteranno altrettanto illusorie. Ciascun giorno di continuazione della macelleria di Gaza rende più chiaro che il sionismo non potrà mai più assicurarsi la lealtà degli ebrei dediti alla pace e alla giustizia o chiunque altro impegnato nello sviluppo di una comunità umana.

È da tanto giunta l’ora che gli ebrei americani si disfino delle bandiere israeliane troppe volte sventolanti sulle bimas delle loro sinagoghe e templi. Ma così dovrebbero essere eliminate anche le bandiere USA. Realizzare la visione di una comunità umana – la visione dei profeti da Isaia a Marx – vuol dire trascendere ogni forma di etnonazionalismo d’intralcio allo sviluppo umano.

Il punto è non negare la propria eredità etnica e culturale ma superare la fissazione sulle identità nazionali (e nel caso USA, imperiali) e procedere, fuori dalle vampe dell’attuale olocausto, verso la consapevolezza di specie.


EDITORIAL, 22 Jul 2024

#858 | Richard E. Rubenstein – TRANSCEND Media Service

Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis

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