Arundhati Roy: quanto è seria la minaccia del carcere?
Copertina: Arundhati Roy a Cambridge nel 2017 | Foto di Chris Boland
Mark the date! Nello stesso giorno, 14 giugno, in cui il neo rieletto primo ministro indiano Narendra Modi dichiarava ai leader del pianeta riuniti per il vertice dei G7 in Puglia che i risultati elettorali erano stati una “grande affermazione di democrazia”, con gran condivisione di selfie per la gioia dei fan di Meloni + Modi = Melodi… un suo fedelissimo in India, un certo Vinar Kumar Saxena nel ruolo di ‘tenente generale di Delhi’, autorizzava l’avvio a procedere nei confronti della scrittrice Arundhati Roy in forza di una legislazione tra le più draconiane e repressive dell’universo mondo, il famigerato UAPA.
We at Deshbhakt did not indulge in any of the #Melodi memes – simply because it was a bit below the belt and sexist to boot.
But when leaders of two nations decide to act like bumbling love struck teenagers – there is no helping them.
PM spent hundreds of crores of tax payer… https://t.co/Aw7fWR5rYD— The DeshBhakt ?? (@TheDeshBhakt) June 15, 2024
UAPA, che sta per Unlawful Activities Prevention Act (Legge per la prevenzione di attività illegali) è un acronimo sempre più ricorrente nelle cronache di questi ultimi anni purtroppo in India, per definire una legge che autorizza la detenzione di chiunque possa essere ritenuto colpevole di comportamento ‘antinational’, solo per essersi manifestato in dissenso con l’ordine vigente, indipendentemente dal fatto che abbia effettivamente compiuto una qualsiasi azione ravvisabile come ‘reato’ o (non sia mai!) ‘sedizione’. Sarà poi compito degli avvocati provare l’innocenza dell’imputat* nel corso di procedimenti che spesso richiedono anni prima di essere istruiti, per cui la condanna è già di fatto nell’incriminazione.
E infatti, come documentava per questo sito Virginius Xaxa in un’intervista di qualche anno fa, le carceri indiane sono stracolme di detenuti in attesa di giudizio, soprattutto nelle aree più interne e tribali. Umili adivasi, giornalisti free lance, attivisti, che finiscono in galera per UAPA, per il solo fatto di essersi distinti ‘in favore’ di qualche sacrosanta mobilitazione contro l’ennesimo progetto di estrattivismo in aree già parecchio impattate dall’emergenza climatica.
Ed è toccato a un anziano gesuita, Stan Swamy, che alla causa degli adivasi del Jharkhand aveva dedicato le sue migliori energie, il non invidiabile ruolo di testimonial di questo draconiano ordinamento, morendo appunto in carcere (ne abbiamo scritto qui).
Ultraottantenne, sofferente di parkinson, con l’ulteriore complicazione del Covid, la sua morte il 5 luglio di tre anni fa, ebbe il merito di mobilitare sit in di protesta in tutti gli stati dell’India, che contribuirono a riaccendere la lampadina sugli altri sedici detenuti ‘eccellenti’ per il suo stesso caso, tra loro valenti avvocati, giornalisti, sindacalisti, attivisti, tutti accusati di collusione con l’insorgenza maoista, con l’obiettivo di attentare (addirittura!) alla vita di Narendra Modi. Una macchinazione letteralmente orwelliana che la scrittrice Alpa Shah ha magistralmente ricostruito nel suo libro più recente, The Incarcerations, svelando nei più minuti dettagli i livelli di sofisticazione e cyber control cui può giungere una sedicente democrazia, quando degenera in autocrazia.
Le motivazioni o meglio il pretesto che autorizzerebbero l’incriminazione di Arundhati Roy proprio adesso, risalgono a…14 anni fa, 21 ottobre 2010, quando in occasione di una pubblica assemblea organizzata a Delhi per evidenziare la situazione di intollerabile violenza e militarizzazione in Kashmir (dove da mesi erano in corso proteste, con scontri e anche parecchi morti) e sollecitare la liberazione di tutti i prigionieri politici, la scrittrice aveva affermato che “il Kashmir non può considerarsi parte integrante dell’India”.
Affermazione indubbiamente discutibile, e quanto mai azzardata considerando la ‘sensibilità’ della questione fin dal 1947, anno in cui venne creato un Pakistan apposta per i mussulmani con molto sommaria ‘partizione’ dal resto del subcontinente – ma tutt’altro che immotivata alla luce dell’ininterrotta storia di resistenza a quella che è a tutti gli effetti un’occupazione, con oltre un milione di militari e un’infinità di martiri nel nome dell’Azadi, libertà. Una condizione, una storia di soprusi, disparizioni, torture di cui la Roy ha scritto in numerose occasioni.
Affermazione che però suscitò le rimostranze sotto forma di esposto di un tale Sushil Pandit, attivista di provata fede indù, ed è sulla base di quel singolo esposto nei confronti della Roy e nei confronti di Sheikh Showkat Hussain, ex professore alla Central University del Kashmir, tra gli organizzatori di quella pubblica assemblea, che il governo di Narendra Modi ha notificato alla scrittrice indiana un primo FIR (First Information Report, ovvero avviso di procedimento) verso la fine di ottobre 2023, per poi ripartire all’attacco con il ben più serio ricorso al UAPA di qualche giorno fa.
“Un procedimento che evidentemente non riguarda solo quella lontana affermazione del 2010, ma che intende colpire la Roy per tutto ciò che ha scritto e detto” fu il commento di Vijay Prashad, affermato giornalista, scrittore, direttore del think tank Intercontinental, all’interno di un lungo articolo sul web site The Wire, subito dopo la notifica del procedimento alla scrittrice, a fine ottobre scorso.
Commento che vale più che mai oggi, con in più la chiara intenzione di soffiare su tutti i possibili fuochi, compreso quello del peggior revanscismo nazionalista, per ravvivare le fortune personali di un Narendra Modi che senz’altro è stato riconfermato Primo Ministro dell’India per la terza volta, ma con risultati parecchio inferiori alle aspettative.
Come finirà? L’interessata si è ben guardata dal rilasciare dichiarazioni, che avrebbero avuto il solo effetto di portare acqua al mulino della propaganda. E quindi auguriamoci che si tratti dell’ennesima tamasha (sparata) mediatica, per la gioia di un elettorato naturalmente predisposto al linciaggio nei confronti di chiunque osi mettere in discussione l’operato del governo alla guida di un’India che si vorrebbe vishwaguru (guida) a livello mondiale.
Ma come si poteva prevedere, la notizia di questa ben poco convincente anzi miserrima ‘prova di democrazia’ è subito diventata virale sui social per non dire dei più importanti media del mondo: Washington Post, The Guardian, BBC, Democracy Now con una lunga e bella intervista al sociologo Siddhartha Deb. E insomma, gran revival di attenzione e solidarietà per la scrittrice Arundhati Roy, e molto probabile ennesimo boomerang per un Narendra Modi uscito molto meno forte di prima dalle recenti elezioni.
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