Diritti umani come discorso oltre 60 anni dopo
Si è appena concluso a Parigi un incontro celebrativo per il 60° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 10 dicembre 1948: il 9° Vertice Mondiale dei detentori di Premio Nobel per la Pace, dedicato a “Diritti Umani e un mondo senza violenza”. Un’impressionante parata di 50 dichiarazioni, per metà di detentori di Premi Nobel e per l’altra metà da parte di “invitati”. Allora, come si pongono i diritti umani in quanto approccio alla condizione umana, sociale, mondiale, cioè come discorso sociologico complessivo?
I diritti umani, incorporate nella costituzione francese del 1789 e riformulati come Dichiarazione Universale, sono un’importante conquista, prossima a una costituzione mondiale, pur non costituendo diritto internazionale, ma lo sono le Convenzioni – civil-politiche, economico-social-culturali del 16 dicembre 1966; queste tuttavia non ratificate dagli USA, i quali beneficiano tuttora di una qualche egemonia residua, per cui la non-ratifica serve da segnale di semi-validità per alcuni. Come l’articolo 1,2 che afferma chiaramente che i ricavi dalle risorse di un paese debbano competere al popolo di quel tal paese — non a stranieri, né solo alle élite: molto significativo in Nigeria, Sudan, Congo, etc.
Il che ci conduce dritti al punto. Il discorso sui diritti umani afferma valori morali derivati da una cultura dei diritti umani che favorisce coloro con un deficit di diritti umani. Un valore può tradursi in una pretesa e diventare una forza sociale, e dove c’è una forza c’è solitamente anche una contro-forza pur se non necessariamente delle stesse dimensioni; magari più forte, si spera bilanciata dalla legittimità degli obiettivi di diritti umani attribuiti ad ognuno. C’è molta forza morale cui attingere, e una ricchissima tradizione.
Ma il discorso sul conflitto contribuisce qualcosa che sovente fa apparire quello sui diritti umani ingenuo moralismo designato a sollevare chi lo proferisce piuttosto che chi si trova in deficit di tali diritti.
Basilare al discorso sui conflitti è l’idea che ci sia più di un obiettivo, i diritti umani, per ogni problematica. Possiamo simpatizzare con i sottoposti con un catalogo non adempiuto di diritti umani non solo definendone gli obiettivi ma anche fornendo loro una legittimità tale da renderli non-negoziabili. Ma che cos’è avvenuto allora all’altra parte o parti e ai loro obiettivi? Dobbiamo supporre che ci sia nessuno con obiettivi magari talmente differenti dai diritti umani da essere incompatibili con essi? L’elevato fondamento morale dei diritti umani ha reso gli obiettivi incompatibili non solo illegittimi, ma anche altrettanto invisibili e non menzionabili che gli obiettivi dei “terroristi”?
Un discorso sui diritti umani è essenzialmente moralistico, e stabilisce una legittimità di obiettivi. Un discorso sui conflitti è essenzialmente discorsivo, analitico, identifica le parti coinvolte e i loro obiettivi e procede quindi a trattare la legittimità di tali obiettivi, e come appianare i divari fra tutti gli obiettivi legittimi delle parti.
La legittimità data ai diritti umani tende per implicazione a rendere illegittimi gli obiettivi di chiunque sia considerato d’intralcio. Gli USA non ratificano, ma questo rende la loro posizione automaticamente illegittima? Nel senso di “investimenti legittimanti il rimpatrio dei profitti per l’eternità”, sì. Ma c’è qualche legittimità nella compensazione, nel pagamento, della ricerca e sviluppo iniziali dei mezzi di mezzi di produzione. Un dibattito ben noto.
Passiamo a un dibattito meno noto. I diritti agli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, come acqua, alimenti, alloggiamento, alfabetizzazione-istruzione, sanità, energia, sono tutti facilmente soddisfatti se c’è la volontà. Ma molto spesso la volontà non c’è. C’è una greve inerzia, addirittura una pesante azione contraria. Perché, e che cosa ci si può fare?
Primo, a causa di un forte interesse a mantenere violenza strutturale, tenere la gente in miseria nera, molto sfruttabile e aggrappata alla minima possibilità di un qualunque lavoretto. Qualunque istruzione la renderà più costosa, quindi li si tenga dove stanno, usando la “bellezza” di un capitalismo che genera ricchezza per i pochi ma anche povertà per i molti, riproducendo così la violenza strutturale. Lo si chiama “Mercato libero”, perfino “libertà”.
Secondo, a causa di un gran timore di violenza diretta se la gente degli strati infimi dovesse uscire dalla miseria-apatia, in grado di trattare i benestanti allo stesso modo in cui sono stati trattati da loro: un’ansia esistenziale. Si pensi:
- ai cinesi spaventati da gente delle campagne repressa da millenni, venuta su in una Rivoluzione Culturale, più o meno fra il 1966 e il ’73;
- agli hindi di casta elevate spaventati dai senza casta, i dalit;
- ai bianchi del sud degli Stati Uniti, che sanno benissimo quel che hanno fatto agli schiavi;
- ai proprietari terrieri-militari-clero dei poteri fattuali iberici e alle loro vittime fra la gente comune in una Colombia che combatte le FARC ma non le condizioni che le creano.
Però, l’“interesse allo sfruttamento” e la “paura della rivalsa” sono obiettivi legittimi? Riformulati in “interesse ai mezzi di sostentamento” e “amore per la sopravvivenza”, suonano perfino molto legittimi, dando luogo a una conclusione. Non ci sarà soddisfazione dei diritti umani basilari dei poveracci a meno che si soddisfino pure questi obiettivi basilari dei ceti più in alto. Ma come?
Non è poi così difficile. L’istruzione, con il saper leggere e scrivere e l’istruzione permanente per tutti, è basilare. Un minimo garantito, come un reddito per vivere e misure previdenziali statali, aiuterebbero. Rendendo il lavoro più orizzontale e ad alta intensità di manodopera per garantire equità e spazio per tutti. “Cooperatività” è una delle formule is one formula. In quanto alla paura: atti di conciliazione, fatti così magnificamente da un Kevin Rudd verso gli aborigeni in Australia o da un Silvio Berlusconi verso la Libia.
C’è parecchio lavoro da fare. Ma, cosa essenziale, per quanto si favoriscano i diritti umani, possono ridursi a niente se non si bada al conflitto e alle forze contrarie.
Originariamente pubblicato da TMS il 15 dicembre 2008 – #40
EDITORIAL, 17 Jun 2024
#853 | Prof. Johan Galtung – TRANSCEND Media Service
Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!