Convention 1968: sessant’anni dopo le sommosse i Democratici tornano a Chicago

Richard E. Rubenstein

È un problema?

I Democratici devono temere il caos della convention 1968 preparandosi a rinominare Joe Biden a Chicago? Un recente report USA Today (27 aprile 2024) suggerisce che dovrebbero. Annotando che “Migliaia di americani arrabbiati per l’indefettibile sostegno a di Biden Israele nella sua guerra con Hamas si preparano a protestare all’esterno dell’arena sportive dove deve accettare la nomina”, l’articolo lasca intendere che dimostrazioni tempestose potrebbero far fallire la corsa presidenziale di Biden proprio come i disordini del 1968 condannarono i tentativi di Hubert Humphrey.   Congettura interessante – ma il 2024 non è il 1968. Almeno, non è costretto ad esserlo.

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Il 28 agosto 1968 ero nel parco Grant di Chicago con circa 5mila altre persone per partecipare a una protesta pacifica contro la guerra in Vietnam. La giunta cittadina, guidata dal sindaco come suo feudo personale, aveva rifiutato di dare agli organizzatori di dare un permesso di adunata ovunque salvo che in quello spazio isolato. Quando decidemmo di andarcene da lì e marciare pacificamente per Michigan Avenue, ci siamo scontrati con migliaia di poliziotti che menavano di manganello, chiaramente più tesi a rompere teste che a fare arresti.

Alcuni mesi dopo, una task force della Commissione Nazionale sulle Cause e la Prevenzione della Violenza capeggiata da Daniel Walker, futuro governatore dell’Illinois, avrebbe descritto i disordini alla convention come una “sommossa di polizia”. A meno che il sindaco di Chicago Brandon intenda “fare una [mossa] Daley” – negando ai manifestanti il permesso di dimostrare e mobilitando poi polizia e truppe per punirli – non bisogna che il 2024 sia un 1968.

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È utile rammentare la violenza che permeava la politica USA nel 1968. Prima che i Democratici si riunissero in agosto, c’erano state le offensive del Tet e di Maggio in Vietnam, col rimpatrio di migliaia di sacchi mortuari americani dal Vietnam e centinaia di migliaia di vietnamiti uccisi. In aprile fu assassinato Martin Luther King, e in giugno accadde lo stesso a Robert F. Kennedy. A Washington, Baltimore e Kansas City scoppiarono importanti rivolte razziali, e una sommossa di tre giorni fini con 11 cittadini di colore morti, 48 feriti da spari della polizia, 90 poliziotti feriti, e 2.150 arrestati.

Nel 2024, nonostante l’orribile tributo di vite perse e distrutte a Gaza e in Israele, la nonviolenza resta la norma nella politica in America. Sì, ci sono manifestazioni antiguerra nei campus universitari come ce n’erano allora, e i loro dirigenti hanno di nuovo chiesto ai poliziotti di ristabilire quel che chiamano ordine. Ma nel 1968, un’intera generazione di giovani americani stava lottando per evitare la coscrizione, per fermare i massacri di vietnamiti e riportare a casa le truppe USA. Facevano pure parte di un movimento per por fine all’oppressione delle persone di colore, delle donne, delle minoranze sessuali, dei lavoratori, e dei poveri negli Stati Uniti. L’attuale campagna per metter fine alla guerra di Gaza è collegata ad altre campagne per la giustizia sociale, ma non fa ancor parte di un sollevamento a livello nazionale come quello con la maiuscola degli anni 1960 e primi ’70.

Il parallelo più prossimo fra il 1968 e il 2024 mi pare sia il rapporto fra proteste antibelliche e una elezione presidenziale incombente. Ancora una volta, il candidato liberal è un “falco” in politica estera, la cui contiguità con un guerreggiare atroce (seppur per procura) gli ha alienato molti giovani e non meno adulti/anziani. Ancora una volta il candidato conservatore è un destrorso di dubbia statura morale le cui politiche interne sono aborrite dagli elettori progressisti e molti moderati. E ancora una volta l’elezione promette di essere molto tirata. (Nel 1968, il Repubblicano Richard Nixon superò il Democratico Hubert Humphrey per meno dell’un per cento del voto popolare).

Io nel 1968 diedi il mio voto a Dick Gregory, famoso autore-intrattenitore radio-TV e leader antibellico che abitava vicino a me a Chicago. Fu la prima e sola elezione presidenziale di cui guardai i risultati trasmessi in TV nel soggiorno del candidato – ma nonostante quell’emozione, il mio voto contribuì a far intascare a Nixon i 29 voti elettorali dell’Illinois. Votai per Gregory perché Humphrey aveva rifiutato di promettere la fine della guerra del Vietnam. Ma grazie a Nixon e al segretario di Stato Henry Kissinger, a guerra durò altri sette anni, espandendosi in Cambogia, polverizzando il Laos, e uccidendo ben due milioni di civili su ambo i lati, oltre a più di un milione di soldati.

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Spero che i manifestanti che chiedono una tregua completa a Gaza e la fine del sostegno USA all’oppressione dei palestinesi vengano a Chicago – e a Milwaukee – e facciano sentire chiara e forte la propria voce. Ma spero anche che essi e i loro sostenitori non ripetano il mio sbaglio nel 1968. Il sistema politico americano, come la sua politica estera, ha bisogno di un serio rifacimento. Ma Donald Trump non è la persona per risolvere questi problemi più di quanto lo fosse Richard Nixon. Primo, sconfiggere Trump. Poi, combattere per una riforma radicale del sistema belligerante.


EDITORIAL, 20 May 2024

#849 | Richard E. Rubenstein – TRANSCEND Media Service

Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis

 

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