André Neher, il silenzio e il dialogo
Avevo letto L’esilio della parola di André Neher, una copia dell’edizione Marietti presa in biblioteca, in un tempo ormai distante e lo ricordavo come un gran libro. Passati diversi anni ho colto l’occasione di comprarlo e di rileggerlo, anche perché nel frattempo ne è uscita una nuova traduzione per Medusa. Direi che quella prima impressione di grandezza non si è affievolita.
Di fronte a ogni teologia gloriosa e rassicurante si stagliano quelle concezioni di Dio che, come in Neher, si edificano sull’incertezza, sul dubbio, su una possibilità radicale che apre a un esito non ancora scritto e non previsto in anticipo, affidato a una libertà senza condizioni.
In una religione, quella ebraica, che pare così profondamente incentrata sulla Parola, Neher ritiene di individuare la più autentica rivelazione del Dio biblico nel silenzio, quella “voce di silenzio sottile” con la quale Dio si rivolge a Elia in un famoso passo del Primo libro dei Re, dopo che si è avvertito che il Signore non era nelle manifestazioni naturali che si erano succedute: il vento, il terremoto, il fuoco. Il tentativo di enucleare le diverse forme di silenzio biblico è dunque uno dei fili che Neher prova a dipanare nel suo libro.
Si capisce allora che, in quest’ottica, ogni nostro tentativo di dialogo può darsi soltanto se non si elude a priori lo spazio di questo silenzio. Parliamo di dialogo verticale, per così dire, cioè tra Dio e uomo, ma anche orizzontale, interno alle relazioni umane. Ecco, ogni seria prospettiva nonviolenta, nel momento in cui invoca la necessità del dialogo e del perseguimento di pratiche di riconciliazione, non dovrebbe mai dimenticare che questa è la dimensione entro la quale occorre sapersi muovere, se non si vuole dar vita a un semplice esercizio artefatto e fine a se stesso.
Neher ammonisce a non fare confusione tra il “dialogo” e il “duetto”. Il secondo è un alternarsi di voci che si snoda in un’armonia intenzionale e prestabilita, nel duetto non c’è silenzio se non come pausa studiata volta a far risaltare la suggestione estetica di un insieme.
Il dialogo non è il duetto, non è l’arte della conversazione (per quanto questa possa possedere una sua non trascurabile dignità mondana), il dialogo è un momento dal sapore drammatico, una lotta sull’orlo di un precipizio, lotta necessaria per provare a partorire la possibilità della costruzione di una relazione con l’altro, che abbia come presupposto un’assoluta capacità di ascolto e di messa in discussione di se stessi, del proprio mondo, delle proprie convinzioni più radicate.
Una reale capacità di ascolto richiede dunque, avverte Neher, un’autentica pratica del silenzio: se non si è disposti a tacere mentre l’altro parla, a sentire veramente le ragioni del nostro interlocutore, si scivolerà inevitabilmente in una condizione nella quale ogni dialogo è sottomesso a un monologo, un incessante parlare di noi stessi a noi stessi. Dialogare veramente significa invece, come dice Raymond Carpentier, le cui parole Neher riporta nel libro:
«accettare il rischio che la forma dell’altro ci rimodelli a sua immagine e distrugga ciò che costituisce la nostra persona. […] Allora il vero dialogo non sarebbe solamente lo scambio tra due coscienze, la comunicazione di due universi mentali, ma la costruzione di un mondo nuovo che passa attraverso l’immolazione di due interlocutori pronti ad aprirsi alla creazione».
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