La rivoluzione copernicana di Lorenzo Milani

Pietro Polito

Lorenzo Milani nasce a Firenze nel 1923 da una famiglia dell’alta borghesia fiorentina. La sua origine gli permette di trascorrere un’infanzia priva di assilli economici in un ambiente ricco di stimoli. Nel 1930 si trasferisce con la famiglia a Milano dove rimane fino al 1942. Frequenta per due anni il regio liceo-ginnasio “Chiabrera”, consegue da privatista la maturità classica presso il liceo “Berchet” e, dopo alcuni anni di studio privato, si iscrive nel 1941 all’Accademia di Brera per la pittura. Nel 1933, quando cominciano a manifestarsi anche in Italia le conseguenze della ventata di odio contro gli ebrei alimentata dal nazismo, i genitori Alice Weiss, ebrea, e Albano, indifferente al problema religioso, si sposano in chiesa e fanno battezzare i due figli, Adriano e Lorenzo.

Il “battesimo fascista” non lascia alcuna traccia nel giovane Milani. Si può dire che la “conversione” al cristianesimo, presentata come una ricerca dell’assoluto (Adele Corradi), risulti compiuta il 12 giugno 1943, quando con la cresima egli conferma liberamente la propria appartenenza alla Chiesa cattolica. Intanto, la famiglia è tornata a Firenze nel 1942: l’8 novembre 1943 entra nel Seminario maggiore, dove rimane fino al 13 luglio 1947, quando viene ordinato sacerdote e destinato cappellano a San Donato di Calenzano. A San Donato fonda la prima scuola popolare per i giovani operai e contadini. La scuola è imperniata sull’insegnamento della lingua concepita come uno strumento contro l’ignoranza.

Ben presto don Milani diventa un prete scomodo. La sua scuola è frequentata da socialisti, comunisti e cattolici. A tenere le lezioni o le consuete conferenze settimanali chiama spesso professori atei. In quegli anni di contrapposizioni frontali, l’atteggiamento di don Milani, che rifiuta le distinzioni manichee tra bene e male, interroga i laici e suscita scandalo tra i cattolici. A ragione il suo trasferimento a Sant’Andrea di Barbiana non può non essere chiamato esilio.

A Barbiana don Milani arriva il 6 dicembre 1954 con le fedeli Eda e nonna Giulia. «E lui continuò a fare quanto faceva prima», si legge in una testimonianza di Giorgio, il fratello di Eda. Don Milani si prodiga in mille iniziative a favore dei barbianesi, ma l’impegno centrale resta la scuola. Organizza prima una scuola serale frequentata da giovani che desiderano emigrare e poi una scuola frequentata da ragazzi che altrimenti sarebbero stati impiegati nel duro lavoro dei campi.

Nell’aprile 1958 pubblica Esperienze pastorali, una severa critica delle istituzioni e dei metodi consolidati del cattolicesimo di allora. Il libro, attaccato da “La Civiltà cattolica”, viene ritirato dal commercio per l’intervento della Suprema Sacra Congregazione del Sant’Uffizio.

All’inizio degli anni Sessanta don Milani interviene sul problema dell’obiezione di coscienza. L’occasione è un comunicato emesso l’11 febbraio 1965 da un gruppo di cappellani militari della Toscana contro gli obiettori di coscienza. Nella Risposta ai cappellani militari, che avevano definito l’obiezione un insulto alla patria e un atto di viltà, Milani scrive: «Auspichiamo tutto il contrario di quello che auspicate voi».

E aggiunge: «Aspettate ad insultarli. Domani forse scoprirete che sono dei profeti». Rinviato a giudizio insieme al direttore di “Rinascita”, Luca Pavolini, che aveva pubblicato la lettera, Milani, gravemente malato fin dal 1960, colpito dai primi sintomi del tumore, non riesce a partecipare al processo. La conferma del suo atteggiamento si trova nella Lettera ai giudici. Il processo, iniziato il 30 ottobre 1965, si conclude con l’assoluzione degli imputati. In appello, il 28 febbraio 1967, alcuni mesi dopo la morte del “prete ribelle” (28 ottobre 1967), Pavolini e Milani vengono condannati per il “reato di obiezione di coscienza”.

Il processo a don Milani è un momento decisivo nel cammino dell’obiezione di coscienza in Italia. I documenti del processo sono stati raccolti dalla Libreria Editrice Fiorentina nel volume L’obbedienza non è più una virtù nel 1978 (segnalo l’edizione a cura di Carlo Galeotti, Roma, stampa alternativa, 1998 e quella più recente con il titolo La scuola della disobbedienza, introduzione di Roberta De Monticelli, Roma, Chiare Lettere, 2015).

Don Milani conduce una critica serrata nei confronti della guerra. Attraverso una lucida analisi della storia italiana, in considerazione della Costituzione, in particolare dell’art. 11, secondo il quale «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», e dell’art. 52, che definisce la difesa della patria «un sacro dovere del cittadino», arriva a sostenere che le guerre combattute dall’Italia dal 1860 in poi sono state guerre di offesa e non di difesa.

C’è stata una sola «guerra giusta (se guerra giusta esiste)»: «L’unica che non fosse offesa delle altrui Patrie, ma difesa della nostra: la guerra partigiana». Prosegue don Milani: «Da un lato c’erano dei civili, dall’altro dei militari. Da un lato soldati che avevano obbedito, dall’altro soldati che avevano obiettato». E domanda retoricamente ai cappellani militari: «Quali dei due contendenti erano, secondo voi, i ribelli, quali i regolari». Accanto alla critica della guerra, sono da sottolineare i forti accenti politici e sociali che si ritrovano nella polemica di don Milani, che denuncia senza mezzi termini il carattere storicamente classista che ha avuto e continua ad avere l’esercito: «gli eserciti marciano agli ordini della classe dominante».

Lorenzo Milani

Di Fotografo sconosciuto –  Pubblico dominio, Collegamento


La novità della posizione di Lorenzo Milani è stata colta fin da subito da Umberto Terracini, comunista eretico e originale, che, nel saggio Obiettori di coscienza e partigiani della pace, pubblicato da “Rinascita” l’11 dicembre 1965, vede nell’obiezione di coscienza una «innovazione di civiltà», un «alto gesto di perfezione morale» che commuove, perché «compiuto oscuramente, senza iattanza, da solo, nei confronti dello Stato onnipossente, tonitruante e gallonato e non già allo scopo di piegarlo alla propria sublime certezza interiore, ma bensì per non piegare se stesso a fare rinuncia di questa certezza».

Inoltre, accanto alla «grandezza morale» del gesto, lo scrittore comunista sottolinea la carica di trasformazione politica assunta dall’obiezione di coscienza dopo i due grandi conflitti mondiali e auspica che l’obiezione dei nonviolenti e l’antimilitarismo dei socialisti si ritrovino alleati nel comune scopo di «superare […] l’odiosa eredità ancestrale per cui le armi dovrebbero ancora sempre decidere della sorte dei popoli e dell’umanità».

La conclusione cui giunge Lorenzo Milani è la «critica dell’obbedienza ad ogni costo». Bisogna, egli afferma, «avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni». Le idee del prete ribelle costituiscono una prima critica radicale ad atteggiamenti e schemi morali precostituiti, ai limiti e ritardi di un sistema politico vecchio e anchilosato, che, insieme alla critica nei confronti dell’autorità scolastica condotta nel suo libro più famoso Lettera a una professoressa, apparso nel 1967, un mese prima della morte, troverà un collegamento esplicito con la contestazione giovanile degli anni ’68-’69.

La visione milaniana dell’obiezione di coscienza poggia su una concezione della democrazia intesa come nonviolenza e come partecipazione. Intesa come nonviolenza, la democrazia afferma il diritto dei poveri di «combattere» i ricchi con «le uniche armi» che egli approva, «nobili e incruente», vale a dire «lo sciopero e il voto»; intesa come partecipazione, la democrazia «rappresenta il più alto tentativo dell’umanità di dare, anche su questa terra, libertà e dignità umana ai poveri».

Si tratta di una concezione della democrazia che contrasta le nostre democrazie contemporanee appagate e ripiegate sul presente. Nel nostro tempo sembra che si sia pienamente realizzato il futuro preconizzato da Tocqueville nel 1840, «l’era del materialismo onesto»: poiché del domani non c’è certezza, i cittadini si ingozzano di conforti, di beni, di ogni cosa, allegramente, spensieratamente, oltre ogni misura (mi ha colpito la notizia riferitami da un’amica maestra: quasi tutti i trenta bimbi di una quarta elementare della “rossa” Toscana hanno chiesto e ricevuto in dono un telefonino in occasione della loro prima comunione).

Così Tocqueville nel classico La democrazia in America descrive in modo preveggente la nostra attuale condizione: il torto delle democrazie non è di «trascinare gli uomini a inseguire godimenti proibiti» ma di «assorbirli nella ricerca di godimenti permessi». Per questa via, «si potrebbe benissimo stabilirsi nel mondo una specie di materialismo onesto, che non corromperebbe le anime, ma che le renderebbe molli e finirebbe per fiaccare, senza chiasso, tutte le loro energie».

Che fare?

A mio avviso, l’obiezione di coscienza può rappresentare un salutare richiamo in un’era in cui ci sentiamo sostanzialmente soddisfatti da quanto si è ottenuto sul piano dei diritti civili e del benessere materiale. Il cittadino obiettore di Milani si oppone tanto al cittadino appagato dei nostri tempi quanto al cittadino militante e incarna l’idea del “cittadino sovrano”, il cittadino aperto ai valori, solidale con gli altri esseri umani, consapevole che gli uomini e le donne nascono per essere liberi. Una possibile terza via tra la politica novecentesca e l’odierna anti-politica.

L’obbedienza non è più una virtù – l’aureo libretto di Milani – ha rappresentato una sorta di rivoluzione copernicana: bisogna – e in questo consiste la rivoluzione – «avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto».

Nel 2023 ricorrono cento anni dalla nascita di Lorenzo Milani. Il suo esempio è un invito a uscire dalla generica ribellione, a costruire insieme, scavando nelle coscienze, a lavorare per una società che accoglie e include i più fragili, i deboli, i più lontani. La possibilità di un progresso morale dell’umanità che non sia oscurato dal progresso tecnico poggia su un patto che unisca la sovranità alla responsabilità individuale.


 

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