Racconti hindī del Novecento

Cinzia Picchioni

Pinuccia Caracchi, Racconti hindī del Novecento, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2004, pp. 316, € 20,00

Il volume è stato pubblicato con il contributo del Dipartimento di Orientalistica dell’Università di Torino. In questa università, Facoltà di Lingue e Letterature moderne, la curatrice, Pinuccia Caracchi, ora in pensione, ha insegnato Lingua e letteratura hindī.

Per me, che faccio l’insegnante di yoga (Raja Yoga, lo yoga di Patanjali, o degli Otto Passi) è stato un vero piacere trovare il Glossario delle parole sanscrite incontrate lungo i racconti. Anche perché in genere nei testi che trattano dell’antica disciplina i glossari riguardano i soliti termini generalmente usati per insegnarla: āsana=postura; pranayama= tecniche di respirazione ecc.

Qua invece scopro che il termine sādhu – usato per indicare monaci e religiosi di ogni tipo – significa «buono». Che bello! O anche: sapete quel pane piatto, buonissimo, non lievitato (che anch’io so cucinare) che qui chiamiamo capāti (pronuncia: ciapati)? È chiamato così al di fuori dell’India, dove è invece detto roti: «sottili focaccette di farina integrale, non salate e non lievitate, cotte su una piastra di ghisa, che costituiscono il pane di consumo quotidiano […]», p. 299. Quindi – tra l’altro – la parola è di genere femminile: le capāti e non il capāti. Anche rispettare la grafia e la pronuncia delle parole è linguaggio nonviolento, non credete?

Un’altra meraviglia che ho scoperto leggendo il Glossario del libro presentato questa settimana è stato un certo volatile, papihā. Leggevo: «una varietà di cuculo indiano (Cucculus melanoleucus) chiamato anche cātak […]», p. 297. Aspetta-aspetta… mi ricorda qualcosa. Mi ricorda una posizione yoga che adoro, l’usignolo, che si appoggia su una goccia di rugiada, al mattino presto… Ma sì, chatak-āsana! E continuando a leggere infatti: «[…] che si riteneva si nutrisse esclusivamente di gocce di pioggia, alla quale, nella stagione secca, anela soffrendo e sopravvivendo solo grazie a qualche goccia di rugiada», p. 297. Che bello lo yoga, che ancora oggi, dopo oltre 40 anni di pratica e 36 di insegnamento mi regala sorprese commoventi come queste.

Buona idea, il Glossario, anche se il libro contiene racconti, anzi aumenta il senso degli stessi, che narrano di vita vissuta del popolo: vestiti, cibi, divinità, testi sacri, preghiere. È meglio conoscere il significato delle parole sanscrite che si incontrano, no? Nel Glossario si trovano dei rimandi (v.) all’interno del singolo termine.

Così, di rimando in rimando, si può riempire di significato le singole parole, anche quelle che usiamo comunemente senza conoscerne davvero la composizione. Per esempio, forse non tutti sanno che cosa vuol veramente dire mahātmā, l’appellativo con cui conosciamo Gandhi; dal Glossario apprendiamo questo: «Mahātmā ‘grande ātma‘ (v.), appellativo onorifico rivolto a personaggi di grande rilievo in campo religioso (era per esempio rivolto a Gāndhī, che è tuttora ricordato come il Mahātmā per eccellenza», p. 296.

Andiamo a esplorare l’altro termine incontrato, ātma dove c’era infatti l’indicazione del rimando (v.): «la realtà spirituale dell’uomo, il principio cosciente presente nell’uomo che, secondo le principali scuole di pensiero di tendenza non-dualista (advaita), è identico al Supremo Brahman (v.)», p. 290; e anche qui c’è il rimando alla Voce Brahman, leggendo la quale scopriamo che è «il termine sanscrito più usato nei testi sacri hindū per designare l’Assoluto. Secondo le visioni teologiche più correnti, esso è il fondsamento ontologico del mondo manifestato e, trascendendo nome e forma, supera qualunque possibilità di definizione o di comprensione da parte della mente umana», p. 292.

Capito? Per capire e rispettare una cultura occorre conoscerne il linguaggio. Ma questo già lo sapete. Quello che potreste non sapere è che in un libro di racconti si trovi un omaggio così rispettoso.

Se ora vi interessano i racconti ecco qui ricopiata la Quarta di copertina, con le biografie di chi li ha tradotti e curati.

«Il racconto moderno ha nella letteratura hindī appena un secolo di vita, ma si tratta di una vita straordinariamente intensa, ricca di sviluppi e feconda di indimenticabili capolavori. Il racconto riflette, come forse nessun altro genere letterario, la vita del popolo: le tensioni ideali che preparano l’indipendenza, la ricerca di identità nella riscoperta del proprio grande passato, le lotte fra le diverse comunità religiose, la tragedia della separazione di India e Pākistān, le lacerazioni sociali e il disagio esistenziale nella vita metropolitana di oggi… I racconti di quest’antologia, molti dei quali sono qui tradotti per la prima volta in una lingua europea, ci fanno ripercorrere questo cammino attraverso la penna dei più grandi narratori hindī del Novecento».

Traduzioni di Pinuccia Caracchi e Stefano Piano.

Pinuccia Caracchi [già] docente di Lingua e letteratura hindī presso la Facoltà di Lingue e Letterature moderne dell’Università di Torino. È autrice della prima Grammatica hindī in italiano (Torino 1992, 20024), di saggi e articoli su diversi aspetti della realtà religiosa hindī e sulla poesia mistica medioevale in lingua hindī.

Stefano Piano [già] docente di Indologia presso la Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Torino, dove è stato Direttore del Dipartimento di Orientalistica.


 

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