ONU ai cantieri dello scempio

Nicoletta Dosio

Un resoconto della visita con il relatore speciale dell’ONU ai cantieri dello scempio, San Didero e Chiomonte

Raccontare.
Raccontare la storia di una Valle disboscata, cementificata, inquinata,
militarizzata, schiacciata sotto il tallone di ferro delle grandi male opere.
Denunciare la repressione esercitata a suon di tribunali e carceri, secondo il diritto penale del nemico.

Questa volta i nostri interlocutori sono Michel Forst, relatore speciale dell’ONU sui difensori dei diritti ambientali e alcune rappresentanti di Amnesty International, venuti in Valle per incontrare il Movimento NO TAV.

Foto di Diego Fulcheri

Li accompagniamo ai cantieri, perché siano i luoghi stessi a raccontare. A San Didero fa impressione l’immensa spianata di asfalto. Dove c’era il bosco che, coraggiosamente, attraverso decine di anni, aveva messo radici a bonificare un’area inquinata dai rifiuti velenosi delle acciaierie, ora c’è un labirinto di reti e cancelli tra cui si aggirano mezzi militari e macchine movimento-terra.

A guardia del fortino stanno loro, poliziotti in divisa e in borghese, militari in armi, come in una vera e propria campagna di guerra. I nemici in questo caso siamo noi popolo di troppo, c’è la nostra testarda volontà di continuare a vivere sulla terra che amiamo, di difenderne gli ecosistemi, la delicata, irripetibile bellezza.

Andiamo insieme agli ospiti lungo le reti, percorrendo quello che era un sentiero tra gli alberi ed ora è diventata una larga pista polverosa. Tra i muri del cantiere e la strada scorre il canale. E’ l’antico canale che, a partire dalla Dora a Bussoleno, attraversava tutta la valle alimentando i cotonifici, uno in ogni paese, la maggior risorsa economica, mancata di botto negli anni ‘70 a causa della bancarotta fraudolenta del faccendiere Felice Riva. La sua sopravvivenza è attualmente legata alle produzione di energia idroelettrica.

Il canale è largo e profondo. Un tempo lo metteva in sicurezza una fitta cortina d’alberi. Ora, dopo il totale disboscamento per permettere al cantiere totalità di controllo, non c’è alcun riparo rispetto alla corrente che scorre silenziosa e veloce, quasi un richiamo ipnotico.

Foto di Diego Fulcheri

Dentro al cantiere la Digos si è messa in movimento e ci segue passo passo, fotografandoci a distanza. A un certo punto sentiamo il ronzio di un elicottero che ben presto appare in alto, sopra di noi, inquisitore. Unica nota gentile, quasi richiamo ad un passato di alberi, prati fioriti e animali, il cucciolo di lepre che, sbucato da un cespuglio, si ferma un attimo a guardarci con i suoi grandi dolcissimi occhi, poi scompare tra l’erba.

Il nostro viaggio continua a Chiomonte, al cantiere della Maddalena. L’inviato ONU ha modo di sperimentare il posto di blocco che, a quasi due chilometri dal cantiere, ferma chi voglia proseguire verso quella che fu un’antica cascina, poi un museo archeologico d’accesso al sito neolitico degli insediamenti sotto roccia ed ora edificio a servizio del cantiere.

Dopo una sosta non indifferente ci viene data l’autorizzazione a proseguire. La strada si snoda tra le vigne, ancora curate da pochi, eroici vignaioli che ogni giorno sfidano i controlli polizieschi per fedeltà ad una resistenza fatta di antichi vitigni, di vecchissimi ceppi che ad ogni primavera ributtano tralci e gemme e in autunno si caricano di grappoli di Avanà, di Bequet, nomi ignoti al mercato, ma che conservano il sapore aspro e dolce della lotta per la libertà.

Sono loro, Baba e Matteo, vignaioli per testardo, appassionato amore, ad accogliere la nostra piccola delegazione alla cantina sociale ancora esistente nei pressi del cantiere. Il loro racconto è netto e dettagliato, emozionante. Raccontano la repressione quotidiana, le soste al punto di identificazione e gli immotivati divieti, e anche il duro lavoro di una coltivazione tutta fatta a mano, su versanti scoscesi per difendere e far vivere vigne che gli anziani del posto hanno affidato a loro, venuti da fuori Valle, ma riconosciuti come figli di testarda, faticosa passione.

Ci offrono un bicchiere del vino che stanno imbottigliando, un rosso che ha il profumo della lavanda e le sfumature dei tramonti montani. La visita si conclude tra autoblindo e militari, un nugolo di divise, schierati nel piazzale antistante l’antico museo per controllare la nostra sparuta delegazione.

Foto di Diego Fulcheri

La memoria mi corre a quel giugno del 2011: qui, su questo piazzale, lungo questi sentieri che si inoltrano nel bosco nacque e visse una breve, indimenticabile stagione la libera repubblica della Maddalena. Rivedo la grande tenda che faceva da cucina e mensa, la roulotte di Radio NO TAV, il tendone delle assemblee, risento le voci, le risa, le canzoni di chi, da ogni parte del paese era accorso a vivere quegli indimenticabili giorni di coraggioso, irriducibile amore.

Rivedo la profumata bordura di lavanda e la rossa rosa rampicante che copriva i muri del museo. Ricordo le bandiere i grandi pupazzi di Piero Gilardi, la fiaccolata dell’ ultima notte… e poi l’alba, la lunga fila dei blindati sull’autostrada, le ruspe contro le barricate, l’ultima resistenza sulla barricata Stalingrado demolita pezzo a pezzo da una mostruosa cesoia… le grida… il fumo dei lacrimogeni… la faticosa marcia su per la montagna con anziani e bambini, inseguiti da nugoli di divise….
Qui ogni pietra, ogni zolla racconta la libera repubblica della Maddalena in catene, chiede giustizia e riscatto.

La delegazione è ormai sulla via del ritorno, i saluti sono affettuosi, le promesse sincere, come di chi ha capito e porterà anche nei palazzi chiarezza e verità.

Per noi la lotta continua.


 

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