Come risolvere i conflitti. Senza armi e senza odio con la resistenza civile

Antonino Drago

Erica Chenoweth, Come risolvere i conflitti. Senza armi e senza odio con la resistenza civile, Sonda, Milano 2023, pp. 446, € 22,00

Le rivoluzioni dei Paesi dell’Est-Europa hanno sconvolto l’atlante politico mondiale e hanno sconvolto l’immaginazione politica perché per la prima volta si sono visti popoli interi liberarsi assieme dalle loro dittature per di più ideologizzate come progressive per l’umanità, usando una nuova forza, la nonviolenza. Per di più altre importanti rivoluzioni non violente sono accadute negli anni successivi. Nel passato alcune rivoluzioni (inglese, francese e russa) hanno preparato le nascite di nuovi modelli di sviluppo. Anche le rivoluzioni non violente quindi potrebbero essere la preparazione della nascita storica di un modello di sviluppo ecologico-non violento e del suo particolare tipo di Stato.

La sorpresa del mondo politico tradizionale davanti al 1989 è stata così grande che, dopo più di trenta anni, ancora si usa dire una frase da ebeti: «Il crollo del muro di Berlino» pur di non dire nulla del senso politico di quell’evento. Lo sconcerto è stato in un certo senso «sanato» riportando l’opinione pubblica alla ragione delle armi (guerra Iraq 1, guerra in Jugoslavia, guerra permanente in risposta al terrorismo posto come nemico mondiale, guerra all’Iraq 2, in Afghanistan, in Siria, in Libia). Ci si è approfittati che la nonviolenza non aveva né Stati, né figure morali rappresentative che sapessero interpretare autorevolmente il senso storico dei nuovi avvenimenti: i mass-media hanno potuto raccontarci di tutto (pure le «armi di distruzioni di massa» di Saddam Hussein e le «giuste ragioni» di Sarkozy che per primo ha bombardato Gheddafi, benché questi gli avesse pagato la campagna elettorale). Dall’89 la sinistra è crollata e sulla scena internazionale il nuovo non appare ancora.

In questa attesa le persone più avvedute non hanno perso l’interesse di capire le «sbalorditive» rivoluzioni non violente. In inglese sono usciti molti libri, che vanno dagli studi accademici (di ogni disciplina, comprese le relazioni internazionali; ricordo in particolare quelli di Kurt Schock e di Véronique Dudouet) fino ai manuali per i militanti di queste rivoluzioni. La nonviolenza ha fatto breccia nel mondo accademico; che non rifiuta più a priori di discutere su questo tema; anche perché la rivoluzione non violenta come tecnica è risultata efficace anche per indirizzare dall’esterno una popolazione: le «rivoluzioni (non violente) arancioni» (di solito si considera la rivoluzione di Otpor! in Serbia contro Milošević). Esse sono attraenti per la politica di ingerenza delle superpotenze negli Stati fastidiosi, contro i quali una guerra sarebbe troppo deflagrante.

Tra questi studi la novità scientifica è stato quello delle due ricercatrici Erica Chenoweth e Maria Stephan che nel 2008 con un articolo di rivista e poi con un libro (Why civil resistance work, Columbia U.P., 2011) hanno raccolto i dati di tutte le rivoluzioni del secolo scorso e le hanno suddivise in violente e non violente; su basi statistiche hanno mostrato che 1) quelle non violente sono in grande crescita, fino a essere numerose come quelle violente e 2) sono efficaci addirittura il doppio di quelle violente (53% contro 24%). Il dato scientifico è irrefutabile. Addirittura in America Latina, dove la guerriglia doveva sconfiggere rapidamente il capitalismo oppressore, le rivoluzioni non violente sono state efficaci all’82% contro il solito 24% delle violente. Come ha detto Erica C., tutto ciò dimostra che: «Gandhi aveva ragione».

Con ciò è finita la minore età della nonviolenza e delle sue tecniche. Oggi non si può più dire delle rivoluzioni non violente che si tratta di fatti eccezionali, di altri luoghi e altre civiltà, di culture arretrate; chi lo facesse passerebbe per ignorante che parla senza conoscere dati di fatto ormai acclarati. Inoltre dopo così tanti eventi storici non violenti ora anche i libri danno conto intellettuale di questi nuovi fatti. «Braccio e mente»: non solo il «braccio» delle azioni collettive delle popolazioni, alla «fatti forte e spera in Dio»; ma anche la «mente», la riflessione su di esse per accumulare una capacità interpretativa che renda gli attori delle azioni collettive pienamente coscienti di ciò che essi compiono. Lo studio risponde alla richiesta del movimento stesso, quella di capire meglio la complessità della storia di questo tipo di eventi.

Ma il libro del 2011 è stato uno studio accademico; per apprezzarlo a fondo occorre una cultura scientifica di tecniche statistiche. Ecco allora che con il libro in esame Erica C. ha proposto quanto proviene dalla sua esperienza di innumerevoli conferenze, seminari, tavole rotonde, convegni su queste rivoluzioni del secolo scorso che sono avvenute fuori di ogni schema mentale della politica occidentale. In questi luoghi il pubblico ha espresso i suoi dubbi, perplessità sorprese, meraviglie, con innumerevoli domande. Ecco il nocciolo di questo libro: esso rappresenta un rapporto diretto che una profonda esperta della materia ha avuto con la gente; con la quale ha esaminato le mille sfaccettature di questi eventi storici così sconvolgenti sia il pensiero ordinario che il pensiero accademico. Ella ha raccolto le mille domande e le ha ordinate in modo logico e sintetico, dando poi loro risposte; che sono soprattutto fattuali, senza tanti retropensieri. Il libro è quindi il resoconto della esperienza preziosa dell’autrice; ci permette di essere presenti virtualmente in mille dibattiti pubblici che Erica ha avuto in varie parti del mondo confrontandosi con vari gruppi sociali.

Il punto centrale dell’argomento del libro è che siamo di fronte a una massa eccezionale di novità, le azioni rivoluzionarie popolari non violente; e stiamo riflettendo su di esse. Per questa riflessione innanzitutto occorre distinguere con precisione i due aspetti: i fatti e le loro interpretazioni. Queste dipendono dagli «occhi» con cui i fatti sono visti. Per questo motivo consideriamo prima, come fa anche l’autrice, «gli occhi», cioè le definizioni e le impostazioni dell’autrice; le quali sono nel primo dei cinque capitoli in cui è diviso il libro.

Cap. 1 Le basi. Prima di tutto ella definisce l’oggetto del discorso, la resistenza civile (RC) come una campagna di almeno mille persone che agiscono con azioni dal basso, senza violenza.

Che significa per questo libro la nonviolenza?

Qui il mio discorso, prima rivolto a un ambito generale di lettori passa all’ambito di quelli che parlano di nonviolenza. Già da venti anni Thomas Weber (Nonviolence Is Who? Gene Sharp and Gandhi, «Peace and Change», 28, 2, 2003, pp. 250-270) ha chiarito che l’espansione della nonviolenza nel mondo ha preso una connotazione diversa da quella originaria. Specie nel mondo anglosassone oggi la nonviolenza non è Gandhi, ma Gene Sharp. L’autrice è una seguace del lavoro di Gene Sharp di rendere la nonviolenza pragmatica; la nonviolenza è una tecnica valida indipendentemente dalle motivazioni (spirituali ed) etiche delle persone; le quali, se le hanno, vengono chiamate da Sharp «Non violenti di principio [assoluto]»; mentre invece essa, come dice la parola, è ricerca di un metodo. Sharp riduce la nonviolenza  a tecniche sociali oggettive, utilizzabili secondo una concezione pragmatica; cioè, chi le applica si domanda se funzionano o no per il raggiungimento dello scopo politico che egli si propone.

(La nonviolenza di Gandhi viene messa in questione: «in realtà egli era una persona profondamente pragmatica» (pp. 111-112): inoltre si riporta una sua frase del 1927: di fronte alla viltà e alla passività Gandhi invita alla violenza (p. 38); ma l’autrice non cita il seguito, in cui egli dice che su tutte le soluzioni è migliore quella della nonviolenza. V. Antiche come le montagne, Comunità, Milano 1966, p. 140, n. 72).

Come Sharp, l’autrice ha una visione oggettiva della società, ma non strutturale. Nella storia della crescita della nonviolenza dal soggettivo (Tolstoy, Gandhi, Capitini) all’oggettivo (Gandhi, Dolci, Sharp, Galtung) allo strutturale (Lanza del Vasto e Galtung) l’autrice è ferma (come tutta la cultura anglosassone sulla nonviolenza) all’oggettivo. Quindi Gandhi è considerato solo come origine storica, mentre Lanza del Vasto e Galtung neanche sono nominati.

Per capire la struttura politica della società in cui c’è il sistema da combattere la teoria politica di Sharp si basa sul concetto di «potere»; questa  è una idea astratta: che cosa è il «potere»? A causa dell’astrattezza di quel concetto la sua teoria appartiene alla filosofia politica di destra (ad es. quella dell’italiano Mosca); rispetto a quella di sinistra che guarda alla società come composta da istituzioni sociali intese come strutture (per primo: il modello di sviluppo, secondo i non violenti Martin, Salio, L’Abate ed io). (Già da tempo Brian Martin ha magistralmente analizzato il concetto di «potere» in Sharp: Gene Sharp’s Theory of Power, «Journal of Peace Research», 26, 2, 1986, pp. 212-222).

Anche sulle RC la filosofia politica dell’autrice è quella di G. Sharp; il quale ne sottolinea tre componenti: tecniche non violente + fonti del potere da combattere + strategia. Anche per l’autrice la preoccupazione principale è quella di Gene Sharp: la strategia, formulata da una élite che la gestisce e chiede alla popolazione una forte organizzazione assieme a una disciplina molto esigente.

Non dà relazioni con l’economia, né con il tipo di sviluppo (ad es.: nucleare o solare?).

Coerentemente con la scuola di Sharp, la scelta per la pace è considerata un’altra cosa dal partecipare a una RC (p. 111). In generale l’autrice non ha una teoria politica; si dichiara per un «orientamento politico progressista» (p. 26) che vede con timore il nascere di autoritarismi in molti Paesi (compresi gli Stati Uniti), senza però darne spiegazioni.

A p. 27 l’autrice dichiara il motivo per cui preferisce la dizione «resistenza civile» alle tante altre possibili. È chiaro che le varie dizioni non sono affatto equivalenti. Dopo le precisazioni espresse in precedenza, la sua scelta della dizione RC sembra appropriata: rispetto a quella massimamente impegnativa, «rivoluzione popolare non violenta», essa è minimale, ci rientrano molte più campagne; tanto che per l’autrice una RC così definita non è granché diversa da un semplice «movimento sociale» (p. 114).

La parte più interessante: i fatti, che sono esposti soprattutto nei Capitoli 2-4:

        Cap. 2 Come funziona la RC

       Cap. 3 La RC e la violenza all’interno del movimento

       Cap. 4 La RC e la violenza contro il movimento.

Il libro vuole essere «una conversazione continua» p. 24) basata su un centinaio di domande. Le risposte sono tutte basate su esempi di RC nel mondo. Il rapporto che l’autrice stabilisce con chi legge è sull’informativo, persuasivo ed esortativo. Ella dichiara che il suo libro non è un manuale, perché troppo mutevole e cangiante è il fenomeno sociale (p. 26); non propone elaborazioni né ragionamenti.

La varietà dei casi presentati è grandissima e il numero è grandissimo. Ne risulta un resoconto degli sconvolgimenti non violenti in tutto il mondo lungo più di un secolo; è una specie di enciclopedia (nello spirito enciclopedico di Sharp che elenca 198 tecniche non violente). Può essere esaltante passare in rassegna questa panoramica così ampia di lotte non violente lungo un secolo e più.

Lei non cerca di stringere questa varietà per stabilire delle lezioni o delle regolarità. Comunque sono molto utili le tabelle e i grafici che riporta alle pp. 43, 155, 156, 162, 173. Dalla sua ricerca precedente sa bene che la forza straordinaria delle RC è quella di creare fratture nelle forze repressive. Ma dichiara che non esiste una formula della RC, si possono dare solo alcune indicazioni. (p. 144)

Tra i tantissimi temi trattati ne scelgo uno che è il più controverso dell’argomento RC.

Quale politica delle RC?

A p. 89 l’autrice cita favorevolmente la lotta guidata da Guaidò in Venezuela contro Maduro; ma molti ci hanno visto un tentativo di golpe della CIA. Il problema è generale e l’autrice lo riconosce: la maggior parte delle RC lottano per la democrazia, ma ci sono anche RC che hanno lottato contro la democrazia (p. 119), e sono «immorali» (p. 122). La riconosciuta esistenza di rivoluzioni «arancioni» pone la domanda: le RC possono essere strumentalizzate da parte di una potenza straniera (ad es. gli Stati Uniti) per una ingerenza nella politica di una nazione? La sinistra politica continua a ignorare le RC con il motivo che le RC sarebbero tutte di destra, perché gestite dalla CIA (che agisce in segreto, non lasciando prove delle sue ingerenze). La questione non viene risolta. L’autrice tratta quale sia lo sbocco politico di una RC nelle pp. 324-330, ma non la qualifica con soluzioni di destra o di sinistra (questa distinzione politica non compare nel libro).

Comunque come conclusione di quanto esaminato a largo raggio l’autrice ricava alcune lezioni, indica che

1) le RC di solito cercano la democrazia (ma non sempre);

2) se anche falliscono, entro cinque anni hanno quattro volte più probabilità di portare alla vittoria di quelle violente;

3) nel decennio successivo hanno meno probabilità di sprofondare in una guerra civile;

4) comunque ne escono con vari indicatori sociali migliori (aspettativa di vita, qualità della vita, minor numero di morti) (p. 325).

Ci sono anche lezioni che fanno pensare.

1) il fenomeno sociale è troppo mutevole e cangiante, così tanto che lei dichiara che il tutto tra dieci anni potrà essere molto differente (p. 26);

2) negli ultimi anni le repressioni sono diventate maggiori, ma soprattutto «intelligenti» (pp. 22 e 315);

3) le RC raccolgono meno popolazione che nel passato;

4) preferiscono le manifestazioni di piazza alle forme di disobbedienza civile e alle forme di solidarietà sociale;

5) la gente si affida di meno a «strutture direttive» (spesso non ci sono élites adeguate alle RC);

6) tende a compiere le azioni non violente in maniera meno disciplinata (p. 23);

7) paradosso: ci sono state più resistenze civili non violente negli ultimi dieci anni che in tutto il periodo precedente; eppure la loro efficacia è diminuita di molto (p. 25): occorrerebbe una spiegazione. Purtroppo il chiarire i punti basilari di questi eventi storici è molto difficile.

Mancanze

A mia conoscenza, mancano alcune lotte importanti:

  • la lotta ungherese per l’indipendenza 1858-1868, guidata dall’avvocato Deak;
  • la lotta vittoriosa delle donne di Carrara sui nazisti che volevano deportare tutta la popolazione a Modena (luglio 1944);
  • la resistenza italiana (indicata come solo violenta e fallita; purtroppo Sémelin ha incominciato a ignorarla; eppure nel quadro delle resistenze europee essa è stata la più forte);
  • il rifiuto dei 600.000 internati militari italiani di collaborare con il regime di Salò e con i nazisti (solo questo atto non violento collettivo a rischio di morte ha permesso di iniziare una resistenza in Italia);
  • la lotta di Danilo Dolci in Sicilia (che per prima ha dimostrato che si può fare azione nonviolenta popolare anche in Europa);
  • la lotta del Larzac in Francia (1973-1981);
  • le lotte antinucleari (a es. Avetrana TA),
  • quelle francesi anche se poi fallite (il referendum antinucleare è una resistenza civile? Se lo è una RC finalizzata ad avere una libera elezione, allora sì); Servizio civile autogestito e Campagna italiana di obiezione fiscale, la più forte nel mondo.

In generale, anche se l’attenzione si allarga dagli Stati Uniti a guardare il mondo, c’è difetto sull’Europa.

(Inoltre penso che nella bibliografia italiana potevano starci i miei libri sull’argomento: Difesa popolare non violenta, EGA, Torino 2006 e Le rivoluzioni nonviolente del secolo scorso. I fatti e le interpretazioni, Nuova Cultura, Roma 2010, il primo libro italiano a riportare i dati delle due ricercatrici).

Conclusioni In definitiva, a parte difetti e questioni di impostazione, il libro è molto importante. Mancava un’opera competente che coprisse tutto il panorama dei dati. A chi si accosti per la prima volta a questo tema «sbalorditivo» il libro offre una documentazione che è anche essa «sbalorditiva». È un libro che si pone come discorso non ideologico ma concreto sulla importanza storica di questi eventi eccezionali. Con ciò registra molto efficacemente un salto storico nella coscienza politica generale. È un libro che nella cultura generale fa crescere la coscienza dell’importanza della nonviolenza nella politica internazionale e permette «di essere più attrezzati, preparati e capaci di fare la differenza nella lotta globale per la giustizia» (p. 26).


 

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