Dichiarazione dell’Onu sulla Palestina: false speranze e promesse non mantenute

Ramzy Baroud

Raramente l’ambasciatore palestinese presso le Nazioni Unite rilascia un commento ufficiale in cui esprime la propria felicità per qualsiasi dichiarazione dell’Onu sulla Palestina e in particolare riguardante l’occupazione israeliana della Palestina.

In effetti, l’ambasciatore palestinese Riyad Mansour è “molto contento che ci sia stato un messaggio unitario molto forte da parte del Consiglio di Sicurezza contro la misura illegale e unilaterale” intrapresa dal governo israeliano.

La “misura” è un riferimento specifico alla decisione, presa il 12 febbraio, dal governo di estrema destra del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di costruire 10.000 nuove unità abitative in nove insediamenti ebraici illegali nella Cisgiordania palestinese occupata.

Netanyahu si è prevedibilmente irritato per il presunto “messaggio unitario molto forte” proveniente da un’istituzione che non è certo nota per la sua azione significativa nei confronti dei conflitti internazionali, specialmente nel caso palestinese-israeliano.

La felicità di Mansour può essere giustificata dal punto di vista di alcuni, soprattutto perché raramente si assiste a una posizione forte da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che sia allo stesso tempo critica nei confronti di Israele e totalmente abbracciata dagli Stati Uniti. Questi ultimi hanno usato il potere di veto 53 volte dal 1972 – secondo i conteggi delle Nazioni Unite – per bloccare i progetti di risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU critici nei confronti di Israele.

Tuttavia, esaminando il contesto dell’ultima dichiarazione delle Nazioni Unite su Israele e Palestina, non c’è molto motivo per l’eccitazione di Mansour. La dichiarazione delle Nazioni Unite in questione è solo questo: una dichiarazione, senza valore tangibile e senza ripercussioni legali.

Questa dichiarazione avrebbe potuto essere significativa se il linguaggio fosse rimasto invariato rispetto alla sua bozza originale. Non si tratta di una bozza della dichiarazione in sé, ma di una risoluzione vincolante delle Nazioni Unite introdotta il 15 febbraio dall’ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti.

La Reuters ha rivelato che la bozza di risoluzione avrebbe chiesto a Israele di “cessare immediatamente e completamente tutte le attività di insediamento nei Territori palestinesi occupati”. Questa risoluzione – e il suo linguaggio forte – è stata scartata sotto le pressioni degli Stati Uniti ed è stata sostituita da una semplice dichiarazione che “ribadisce” la posizione del Consiglio di Sicurezza secondo cui “le continue attività di insediamento israeliane stanno pericolosamente mettendo a rischio la fattibilità della soluzione dei due Stati basata sulle linee del 1967”.

La dichiarazione ha anche espresso “profonda preoccupazione”, anzi, “sgomento” per l’annuncio di Israele del 12 febbraio.

La risposta stizzita di Netanyanu è stata pensata soprattutto per il consumo pubblico in Israele e per tenere sotto controllo i suoi alleati di governo di estrema destra; dopo tutto, la conversione della risoluzione in una dichiarazione e l’annacquamento del linguaggio sono stati effettuati a seguito di un accordo preliminare tra Stati Uniti, Israele e P.A. Infatti, la conferenza di Aqaba tenutasi il 26 febbraio è una conferma che tale accordo ha effettivamente avuto luogo. Pertanto, la dichiarazione non avrebbe dovuto sorprendere il primo ministro israeliano.

Inoltre, i media statunitensi hanno parlato apertamente di un accordo, mediato dal Segretario di Stato americano Antony Blinken. Inizialmente il motivo dell’accordo era quello di evitare una “potenziale crisi” che sarebbe derivata dal veto degli Stati Uniti alla risoluzione. Secondo l’Associated Press, tale veto “avrebbe irritato i sostenitori palestinesi in un momento in cui gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali stanno cercando di ottenere il sostegno internazionale contro la Russia”.

Ma c’è un’altra ragione dietro il senso di urgenza di Washington. Nel dicembre 2016, l’allora ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite, Susan Rice, si era astenuta dal porre il veto a una risoluzione simile del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che condannava con forza le attività illegali di insediamento di Israele. Ciò è avvenuto meno di un mese prima della fine del secondo mandato di Barack Obama alla Casa Bianca. Per i palestinesi, la risoluzione è stata troppo poco e troppo tardi. Per Israele è stato un imperdonabile tradimento. Per placare Tel Aviv, l’amministrazione Trump ha affidato il posto all’ONU a Nikki Haley, una delle più accanite sostenitrici di Israele.

Sebbene un altro veto degli Stati Uniti avrebbe sollevato qualche sopracciglio, avrebbe rappresentato un’importante opportunità per il forte campo pro-Palestina all’ONU di sfidare l’egemonia statunitense sulla questione dell’occupazione israeliana della Palestina; avrebbe inoltre rinviato la questione all’Assemblea generale dell’ONU e ad altre organizzazioni correlate all’ONU.

Ancora più interessante, secondo l’accordo mediato da Blinken – riportato da AP, Reuters, Axios e altri – palestinesi e israeliani avrebbero dovuto astenersi da azioni unilaterali. Israele avrebbe congelato tutte le attività di insediamento fino ad agosto e i palestinesi non avrebbero “intrapreso azioni contro Israele presso le Nazioni Unite e altri organismi internazionali come la Corte mondiale, la Corte penale internazionale e il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite”. Questo era il succo dell’accordo anche nell’incontro di Aqaba sponsorizzato dagli Stati Uniti.

Mentre i palestinesi probabilmente si atterranno a questa intesa – dal momento che continuano a cercare gli aiuti finanziari e la convalida politica degli Stati Uniti – Israele molto probabilmente si rifiuterà; in pratica, lo ha già fatto.

Sebbene l’accordo prevedesse che Israele non avrebbe organizzato grandi attacchi contro le città palestinesi, solo due giorni dopo, il 22 febbraio, Israele ha fatto irruzione nella città cisgiordana di Nablus. Ha ucciso 11 palestinesi e ne ha feriti altri 102, tra cui due anziani e un bambino.

Il congelamento degli insediamenti è quasi impossibile. Il governo estremista di Netanyahu è per lo più unito dall’idea comune che gli insediamenti debbano essere mantenuti in costante espansione. Qualsiasi modifica a questo concetto significherebbe certamente il crollo di uno dei governi israeliani più stabili degli ultimi anni.

Perché, dunque, Mansour è “molto felice”?

La risposta deriva dal fatto che la credibilità della P.A. tra i palestinesi è ai minimi storici. La sfiducia, se non il vero e proprio disprezzo, nei confronti di Mahmoud Abbas e della sua Autorità è una delle principali ragioni alla base della nascente ribellione armata contro l’occupazione israeliana. Decenni di promesse di giustizia attraverso i colloqui mediati dagli Stati Uniti non hanno portato a nulla, per cui i palestinesi stanno sviluppando strategie di resistenza alternative.

La dichiarazione dell’ONU è stata pubblicizzata dai media palestinesi controllati dall’AP come una vittoria della diplomazia palestinese. Quindi, la felicità di Mansour. Ma questa euforia è durata poco.

Il massacro israeliano a Nablus non ha lasciato dubbi sul fatto che Netanyahu non rispetterà nemmeno una promessa fatta ai suoi stessi benefattori a Washington. Questo ci riporta al punto di partenza: dove Israele si rifiuta di rispettare il diritto internazionale, gli Stati Uniti si rifiutano di permettere alla comunità internazionale di ritenere Israele responsabile, e dove la P.A. rivendica un’altra falsa vittoria nella sua presunta ricerca della liberazione della Palestina.

In pratica, ciò significa che ai palestinesi non resta altra scelta che continuare la loro resistenza, indifferenti – e giustamente – alle Nazioni Unite e alle loro dichiarazioni “annacquate”.


Fonte: MintPress News, 2 marzo 2023

Traduzione di Enzo Gargano per il Centro Studi Sereno Regis


 

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