Rinnovare l’educazione alla pace: il Sereno Regis al meeting consultativo del Consiglio d’Europa

Ilaria Zomer

Il 24 e il 25 gennaio il Consiglio d’Europa ha convocato a Strasburgo circa 50 persone in rappresentanza dei 46 paesi membri per ridiscutere i pilastri e gli approcci di un ambito, quello dell’educazione alla pace, profondamente sfidato dalla situazione in Ucraina, anche il Centro Studi era presente. Vi raccontiamo come è andata, per provare a rinnovare l’educazione alla pace.

Il Centro Europeo per la Gioventù è stato costruito durante la guerra fredda per essere uno spazio di incontro per le nuove generazioni d’Europa, uno spazio in cui costruire relazioni fra persone che avrebbero poi contribuito a prevenire l’escalation di conflitti armati e proprio lì a Strasburgo, a rinsaldare l’amicizia fra il popolo francese e quello tedesco che si erano letteralmente massacrati per metà del ‘900.

In sala ci sono educatori/trici, persone impegnate nel campo della ricerca, coordinatori di organizzazioni storiche, celeberrime e transnazionali come YMCA (sì, quelli della canzone) e rappresentanti di piccole organizzazioni locali ma ciò che mi colpisce è che, al di là della facile retorica politica, attorno al tavolo effettivamente ci sono persone che provengono da contesti di post-guerra, da territori in cui la retorica del nemico è e continua ad essere alimentata: ci sono le diverse comunità del Kossovo, le comunità cipriote, ci sono armeni e azeri, georgiani e Abkhazi e poi ci sono partecipanti ucraini, che trascinano dentro la sala e nelle discussioni, un peso di dolore e di rabbia non facilmente digeribili dalla dialettica politica e diplomatica di chi l’incontro l’ha convocato.

La grande domanda nella stanza: l’educazione alla pace può sopravvivere alla guerra in Ucraina (e a tutte le altre guerre)? Il valore della pace può convivere con la crescente militarizzazione delle nostre società? Di fronte alle incongruenze di un’Europa occidentale sempre più arroccata nei suoi privilegi? Con un modello di educazione alla pace ancorato all’educazione ai diritti umani, pilastro dell’azione del CoE, le incongruenze emergono lampanti: “come parlare di educazione alla pace, come educazione ai diritti quando ogni diritto si viola in guerra?” interviene un’educatrice ucraina, la voce le trema, gli occhi sono lucidi, è proprio seduta a fianco me.

Penso tra me: “Ma se non sarà educazione alla pace che cosa sarà? Educarsi alla non pace? Rassegnarsi a un mondo in cui la guerra e vedere l’altro come nemico sono la normalità?” E poi penso alla crisi climatica e alle microviolenze e crescenti polarizzazioni nella nostra società, un po’ mi sconforto. Riguardo l’educatrice ucraina, così fisicamente vicina e sideralmente lontana da me per l’esperienza di vita che ha avuto nell’ultimo anno e penso che deve sentirsi un’aliena in questo momento dentro questa sala, vedendo un mondo che continua nella normalità mentre il suo viene distrutto come se fosse una cosa normale. C’è tanto bisogno di parlarsi e confrontarsi, le aspettative cadono come pioggia, ma il tempo è pochissimo e il CoE ha bisogno che “produciamo”: pensiero, buone prassi, consigli, raccomandazioni politiche (chissà se qualcuno vi presterà poi orecchio…).

Ci chiedono di lavorare su quattro domande principali:

  1. Esperienze e nuovi approcci portate avanti con e dai giovani nei diversi contesti locali.
  2. Contenuti e competenze del peacebuilding e della trasformazione nonviolenta dei conflitti necessari per essere credibili ed efficaci
  3. Come raggiungere e coinvolgere giovani che vivono o hanno vissuto in contesti di conflitti armati
  4. Come coinvolgere educatori e giovani in qualità di moltiplicatori nelle loro comunità.

Ed è il momento di alcuni input per stimolare il pensiero collettivo, interviene Andreas Oberprantacher, filosofo, Innsbruck University and the UNESCO Chair for Peace Studies che prova a condividere alcune riflessioni sull’educazione alla pace. Alcune cose che colgo:

“L’educazione alla pace non è una materia accademica ma una materia relazionale, può essere concepita come una pratica “amatoriale” , richiede un impegno quotidiano, deve svilupparsi in un ambiente trasformativo, non deve essere confusa con gli strumenti che utilizza, deve essere critica del sistema presente, quindi implica apprendere ma anche dis-apprendere (posizioni, privilegi…), implica la de-colonizzazione dei suoi termini, educazione alla pace deve implicare educazione al conflitto e educazione alla violenza, l’educazione alla pace può assumere forme conflittuali (i conflitti sono catalizzatori per trasformazioni pacifiche), l’educazione alla pace deve affrontare la violenza e le sue diverse forme, trascende la guerra come evento singolo ed è uno sforzo comprensivo per promuovere la pace, l’educazione alla pace è allo stesso tempo trasversale, intersezionale e trasformativa”.

Mi piace il discorso del Professore che a latere mi dice, “sono italiano” e include nella sua presentazione uno slogan finale “Defund military industry, refund peace education”, condivide nel suo intervento il suo background, nato sulle Dolomiti, terra di frontiera e di conflitto, in fondo tutti noi portiamo un po’ di conflitto dentro… e va bene così. Ma lo slogan finale non piace all’educatrice ucraina in sala che lo definisce pericoloso perché l’unica cosa che sta tenendo in vita il suo paese a suo parere è la resistenza militare, ricomincia un lento lavoro di tessitura collettiva in cui tutto il gruppo prova a ricostruire un pensiero che superi questa contraddizione profonda ma lei rimane rossa in volta sentendosi di nuovo aliena fra noi.

Ci offrono una pausa e le chiedo in che cosa si sta impegnando che la sta aiutando a essere resiliente alla guerra e alla violenza, mi parla di un lavoro importante di ricerca fra studenti e insegnanti sulle competenze che ritengono essenziali per l’apprendimento in contesto di guerra, ascolto lei e la sua passione. Mi dispiace che non veda come la sua sia anche resistenza nonviolenta, ho già capito che la parola le è invisa e quindi mi limito a suggerirle dei nuovi contatti e fonti di approfondimento.

Interviene poi la Professoressa Cecile Barbeito della Escola de Cultura de Pau di Barcellona, mi colpisce la sua empatia, ci presenta innumerevoli mandala, spirali, grafici che cercano di tenere insieme tutti i complessi filoni e approcci dell’educazione alla pace ma ciò che realmente mi convince della sua presentazione è una affermazione:

“Lavoriamo molto sul concetto della trasformazione dei conflitti ma che cosa facciamo realmente per eradicare la violenza? Cosa facciamo per criticare e agire contro la violenza strutturale? Come ci attiviamo per l’azione diretta nonviolenta”.

Finalmente si sente parlare di nonviolenza… è lì per me il nodo, c’è una terza via fra la passività e la violenza.

Avviamo i primi lavori di gruppo strutturati,  come me educatrici e operatrici di pace di Romania, Georgia, Abkhazia, Armenia, Moldavia, Azerbaijan, ci confrontiamo sulle rispettive buone Prassi: che cosa funziona? Che cosa può essere replicabile? Uno spaccato di piccoli mondi attivi come il nostro, di altre spirali di violenza ma anche di innumerevoli azioni quotidiane di resistenza nonviolenta. Emergono anche le difficoltà, le contraddizioni e le paure in contesti molto più esposti alla violenza dei nostri.

Rinnovare l’educazione alla pace

Il giorno dopo altri interventi accademici, Rina Alluri, Università di Innsbruck, fa una lunga digressione attorno ai 3 concetti: diversità, equità e inclusione e poi è il momento del racconto di alcune buone prassi locali nella forma del word cafè. Il Centro Studi Sereno Regis è stato scelto per raccontare il suo lavoro, a partire da riflessioni e priorità emersi nei giorni precedenti. Decido di parlare di 2 progetti.

  1. Participation Needs Debate (sulla promozione di forme di dibattito nonviolente per contrastare la polarizzazione delle discussioni), i progetti di dialogo strutturato giovani/decisori politici;
  2. Pace, Carote e Patate: educazione alla pace 0-3 anni (il nostro lavoro con mamme e papà).

Una ventina di operatori si alternano nel workshop, molto interesse e domande per il nostro lavoro, diverse richieste di contatto a cui fare seguito nei prossimi mesi, gli incontri internazionali sono uno spazio importante per costruire nuove collaborazioni, alleanze, progetti.

Al pomeriggio ritorniamo alle domande da cui eravamo partiti e si sviluppa un intenso lavoro di analisi in gruppi e la presentazione delle raccomandazioni finali. Attendiamo i risultati e i prossimi passi sperando di ritrovare nei documenti ufficiali lo stesso spirito di confronto e voglia di cambiamento che ha animato le discussioni che hanno generato le nostre raccomandazioni. Dalla finestre vedo spegnersi lentamente le luci ai palazzi del Consiglio d’Europa e dell’Unione Europea, torniamo a casa anche noi, Vardan, educatore armeno, vecchia volpe dell’attivismo internazionale ci saluta in maniera evocativa:

“L’educazione alla pace è come una candela, la dobbiamo tenere accesa, perché quando il mondo sarà al buio e chiederanno la luce noi gliela potremo offrire”.

 


 

1 commento

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.