Austerlitz e la memoria riacquistata

Massimiliano Fortuna

All’inizio di questa settimana ho cominciato a leggere Austerlitz di Winfried Georg Sebald, poggiato da tempo su uno scaffale della mia libreria. Ho cominciato a leggerlo senza nulla saperne, se non che si trattava di un libro di Sebald e che, da quanto ricordavo, molto era piaciuto a Roberto Calasso e Pietro Citati. Mi sono dunque avvicinato a queste pagine, cosa che assai raramente mi capita, senza alcuna forma di precomprensione e di conoscenza del contenuto del racconto dettata da un testo precedente, risvolto di copertina compreso. Solo leggendo il libro ho capito che, simbolicamente, era proprio questa la settimana più indicata per farlo.

AusterlitzA pensarci meglio però non è possibile che, anni fa, al momento dell’acquisto del libro io non abbia letto il risvolto di copertina, lo faccio immancabilmente per ogni libro che compro, a maggior ragione per quelli editi da Adelphi, nei quali il breve testo del risvolto è spesso un pezzo di letteratura a sé, un esercizio di stile nel quale Calasso è stato maestro sommo (il suo Cento lettere a uno sconosciuto è un piccolo gioiello da non perdere). E questa lettura, fatta e dimenticata, del risvolto di Austerlitz mi è stata suggerita anche dall’aver avuto, ancora all’inizio del libro, in un punto nel quale è improbabile intuirlo, la percezione di come si sarebbe svolto lo sviluppo del racconto.

Evidentemente il contenuto di questo risvolto corrispondeva a una memoria nascosta, che si era sedimentata in me anche se a livello superficiale l’avevo perduta. A questo punto è stato inevitabile rendermi conto, non senza una sorta di brivido per la forza evocativa della coincidenza, che quello di una memoria oscurata e man mano riacquistata altro non è che il filo conduttore lungo il quale si dipana la storia del protagonista di questo romanzo. Jacques Austerlitz, infatti, cresciuto in una cittadina del Galles in casa di un pastore calvinista e di sua moglie, recupera solo in età adulta, anni dopo la morte dei suoi genitori adottivi, il ricordo della propria origine, rendendosi conto di essere arrivato in Inghilterra alla fine degli anni Trenta proveniente dall’Europa orientale e scopre il motivo, carico di indicibile dolore, alla radice di quel viaggio in treno che lo portò a Londra.

«Tutto questo adesso lo capivo, e nel contempo non lo capivo: ogni particolare che, mentre visitavo il museo da una sala all’altra e poi di nuovo all’indietro, si dischiudeva davanti a me – davanti a colui che, come temevo, era rimasto nell’ignoranza per propria colpa – superava infatti di gran lunga la mia capacità di comprensione. Vidi i bagagli, con i quali gli internati da Praga e da Pilsen, da Würzburg e Vienna, da Kufstein e Karlsbad e da innumerevoli altre località erano giunti a Terezin, oggetti come borse, fibbie, spazzole e pettini che essi avevano fabbricato nelle diverse manifatture, piani di produzione elaborati con estrema meticolosità e progetti per lo sfruttamento agricolo delle aree verdi nei rifossi e fuori dagli spalti, dove in parcelle accuratamente distinte le une dalle altre bisognava coltivare avena e canapa, nonché luppolo, zucche e mais.

Vidi fogli di bilancio, liste dei morti, elenchi di ogni tipo e interminabili filze di numeri e cifre, con cui gli amministratori dovevano essere rassicurati che nulla fosse sfuggito al loro controllo. E ogni volta che ripenso al museo di Terezin, disse Austerlitz, vedo la planimetria incorniciata della fortezza a forme di stella, dipinta ad acquerello in morbide tonalità verde bruno per l’imperial-regia committenza di Vienna».


 

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