HUMANS of the Balkans – Lubiana 2

Benedetta Pisani

HUMANS of the Balkans – Lubiana 2. Diciotto giorni nei Balcani, per incontrare persone e ascoltare le loro storie. Da Lubiana a Tirana, 55 ore di autobus e tanta voglia di condivisione.

Capitolo 2 – Pranzo con Mitja Velikonja: Storia e attualità dei Balcani

Sono seduta sulla riva del fiume, sento il sole basso sulle spalle, il cinguettio entusiasta e alcune voci lontane. Ho lo stomaco pieno e il cuore appagato. Mitja aveva cucinato per me un pranzo delizioso, in pieno stile “army jugoslavo”. Quando aveva diciotto anni, era il cuoco in una piccola caserma di frontiera dov’era stato chiamato. C’era la leva obbligatoria in Slovenia e lui aveva deciso di posticipare l’iscrizione all’università “per togliersi il pensiero” e, poi, immergersi a pieno in ciò che lo appassiona di più.

“La mia carriera universitaria si è sviluppata lentamente, in modo quasi organico. Il mio interesse per la cultura, soprattutto per le sottoculture (vibranti anni ’80), per la diversità culturale (vivevo a poche centinaia di metri dal confine italo-jugoslavo, di cui non avevo mai percepito veramente l’esistenza) e per come la società (non) funziona, è nato durante l’adolescenza e si è approfondito nel corso degli anni di studio. È stato un periodo intenso per me, non solo a causa dello studio, ma anche perché ho vissuto da vicino il crollo di un sistema politico e sociale, di uno Stato e delle ideologie dominanti. E, poi, l’affermazione di ideologie nuove. Luci e ombre. All’epoca mi sentivo nel bel mezzo di un esperimento sociale che alla fine ha portato alla situazione attuale: la completa egemonia di due ideologie e pratiche politiche concrete, il neoliberismo e l’etno-nazionalismo. Dopo aver terminato il mio corso di laurea, mi è stato offerto di lavorare presso la Facoltà di Scienze Sociali dell’Università di Lubiana. Da allora insegno e faccio ricerca, anche come visiting professor/ricercatore in altri paesi, da New York a San Pietroburgo. Mi auguro di conservare sempre – e sviluppare ulteriormente – la curiosità, l’entusiasmo e la riflessione critica che mi hanno portato alla posizione che occupo ora.”

La casa è bianca, le piante verdissime. Le ampie finestre illuminano l’ambiente di luce fresca e i quadri colorano le pareti. È un appassionato d’arte e qualche mese fa era a Ferrara per la mostra di Adelchi Riccardo Mantovani, il suo pittore preferito. Ma nello studio primeggia il ritratto di Raffaella Carrà – Mitja ne è follemente innamorato: “Alterno arte antica e arte moderna, per bilanciare!”. Mi sento accolta e per qualche ora mi sembra di tornare indietro nel tempo, a 5 anni fa, quando da studentessa Erasmus cercavo di creare connessioni con le persone che vivevano autenticamente la città. Volevo scoprirne la quotidianità e crearne una tutta mia. “Possiamo avere tante vite differenti. Basare tutta la nostra esistenza sul lavoro è frustrante e triste”. E con questa consapevolezza, Mitja riesce a preservare la curiosità, l’entusiasmo e lo spirito critico, che gli consentono di creare connessioni umane con studenti e studentesse, e di prendersene cura. Trasmettere conoscenza non basta, è necessario trasmettere fiducia per generare passione. Ci vuole umanità e l’umanità è talmente ampia che è impensabile ridurla al mestiere che svolgiamo. Io purtroppo non ho avuto il piacere di essere sua studentessa, ma un’amica mi aveva parlato del suo corso “Balkan studies” con grande entusiasmo e di lui con dolcezza e affetto.

Ero certa che Mitja mi avrebbe aiutata a fare chiarezza sul contesto storico e socio-culturale dei Balcani e ho deciso di riportare l’intervista in modo classico, con domanda e risposta, per far sì che il quadro possa essere altrettanto chiaro per chi legge.

La regione sud-orientale d’Europa, spesso riconosciuta con la denominazione di Balcani, è prossima e territorialmente contigua al resto del continente, ma risulta generalmente conosciuta in modo superficiale, interpretata attraverso cliché e stereotipi ormai associati alla “realtà balcanica”. Quali sono gli immaginari che si sono sedimentati rispetto alla regione balcanica, consolidando preconcetti e pregiudizi che spesso condizionano la comprensione delle vicende della regione?

“A mio parere, sono sei le risposte ideologiche alla domanda “Che cosa sono i Balcani?”, che insieme creano il nucleo degli stereotipi e dei pregiudizi su quest’area. La prima è di tipo geografico: i Balcani vengono intesi semplicemente come una penisola separata e omogenea, che si estende dal nord dell’Adriatico al delta del Danubio.Tuttavia, la stessa distanza si trova anche tra il Baltico e il Mar Nero – quindi secondo questo criterio l’intera Europa potrebbe essere trattata come una penisola. La seconda risposta è di carattere storico: si tratta di un luogo nato dalla tarda dissoluzione del “principio imperiale” (esistenza di imperi e Stati multinazionali fino al XX secolo), a favore del principio europeo occidentale degli Stati-nazione. Negli ultimi due secoli, infatti, i Balcani non hanno sperimentato la balcanizzazione, ma l’europeizzazione: il processo di divisione in piccoli Paesi forzatamente omogeneizzati dal punto di vista etnico e antagonisti. Il cd. Kleinstaaterei. La terza risposta riguarda la sua condizione culturale: i Balcani sono intesi come una caotica mescolanza – in prospettiva huntingtoniana, naturalmente confliggenti – di diverse tradizioni culturali, etnie e confessioni religiose. Sono stati identificati, in diversi periodi storici, come crocevia, ponte o baluardo tra diverse culture. In un’ottica più romantica, come una “macedonia”, un insieme di piccoli pezzi non correlati tra loro. La risposta socio-psicologica – quarta in ordine di tempo – è costruita sull’essenza dell’homo balcanicus, molto in linea con l’ambivalenza del “buon selvaggio” di Rousseau, in cui la brutalità si incontra e convive con la gentilezza, la bruttezza con la bellezza e il coraggio con il tradimento. La risposta politica dipinge i Balcani come la polveriera d’Europa – i francesi direbbero: pays balkaniques, pays volcaniques – da cui sono scaturiti tutti i problemi dell’Europa, compreso il nazismo (secondo la tesi del famigerato Kaplan). L’ultima, sesta risposta alla domanda su come definire i Balcani, riguarda la sua posizione simbolica: definisce i Balcani come non del tutto europei, o non europei affatto – come “l’altra Europa”, “la seconda Europa”, “l’Europa selvaggia”, “l’Oriente più vicino”, ecc. (nel mio archivio ho raccolto decine di squalifiche di questo tipo da discorsi politici, dichiarazioni ufficiali, opinioni dei media, definizioni di “esperti”, nella letteratura e nell’arte in generale e così via). Quindi, un altro interno dell’Europa, un Quasimodo che potrebbe essere salvato dalla sua barbarie se seguisse il “cammino europeo”, ma che può anche facilmente ricadere nell’indefinita “arretratezza orientale”. In breve, una descrizione ideologica chiave dei Balcani sarebbe: liminalità.”

Le vicende dei Balcani sono spesso interpretate attraverso un paradigma di totale eccezionalità (nella maggior parte dei casi declinata in termini negativi), prodotto dal mancato confronto tra le vicende locali e contesti più ampi. Il passato e il presente di questa regione sono contraddistinti da lingue, culture e religioni differenti ma anche da comunanze e prossimità, da esperienze storiche specifiche ma anche da dinamiche politiche, economiche, culturali di dimensione regionale, transnazionale e globale. Come si può provare a rappresentare tale complessità, evitando di ridurla a una storia di violenza, ma nemmeno a un paradiso multiculturale romanticizzato?

“Allo stesso modo in cui hai posto la domanda: rappresentando criticamente tutte queste complessità; combattendo gli eccezionalismi (sia quelli negativi balcanici sia quelli positivi “occidentali”); esponendo le somiglianze e le differenze con le regioni vicine (il bacino del Mediterraneo: suggerisco ai miei studenti di leggere l’opera principale di Braudel anche dal punto di vista balcanico. L’Europa orientale e centrale: il riferimento è ovviamente a Larry Wolff. Il Vicino e Medio Oriente: Grosrichard e Said/) e nel contesto di un mondo sempre più globalizzato; storicizzando, come ci ha insegnato Jameson, e collocando il suo passato, il suo presente e il suo futuro in una prospettiva storica più ampia; e, infine, anche evidenziando l’eccezionalità e l’unicità dei suoi progetti e periodi di emancipazione (come l’antifascismo autoctono e la liberazione partigiana, la rapida modernizzazione, le alternative politiche come la politica di non allineamento jugoslava e il socialismo autogestito, ecc.). Inizio i miei corsi sui Balcani, qui e all’estero, in modo derridiano, spiegando che in realtà non ci sono Balcani, non c’è Europa, non c’è Occidente, non c’è democrazia, non c’è libero mercato, non c’è nazione, ecc., che tutti questi non sono altro che costruzioni ideologiche con conseguenze reali e molto concrete (e per definizione, in ultima istanza, dolorose). Poi discutiamo come e perché funzionano in modo così persuasivo.”

Questa complessità si riflette anche sulla disomogeneità delle esperienze socialiste e delle transizioni post-socialiste. Penso in modo particolare alle guerre di dissoluzione della federazione jugoslava. In che modo e perché tali processi sono stati contraddistinti in modo diverso a seconda dei contesti?

“Le guerre jugoslave sono state la conseguenza della combinazione letale di due ideologie e pratiche politiche già menzionate. Come Darko Suvin espone nel suo brillante libro, le pressioni neoliberiste, esercitate dalle istituzioni finanziarie internazionali sulla già debole economia jugoslava all’inizio degli anni Ottanta, portarono alla crisi economica. In pochi anni avvenne la disintegrazione politica e – con le nuove élite – l’ascesa di un paradigma ideologico, politico, economico e sociale completamente nuovo. Affianco alle élite emergenti, vi erano ancora le vecchie élite che pretendevano di conservare i loro privilegi. Entrambe si sono rivolte al neoliberismo e all’etno-nazionalismo, che si sono assicurati il potere attraverso la cosiddetta privatizzazione – non era altro che un furto legale – la de-nazionalizzazione, diverse forme di corruzione e infine attraverso i conflitti armati. Chiamarle “guerre etniche” è una menzogna persistente e deliberata che nasconde i loro veri motivi e conseguenze, ossia la radicale ridistribuzione del potere (o dei poteri, se seguiamo Bourdieu) da parte delle élite. Una volta che i beni collettivi e statali sono diventati improvvisamente e legalmente loro proprietà privata, il caso è chiuso. (Come nel caso della figura Superciuk nel fumetto italiano Alan Ford che è stato il più popolare fumetto in Jugoslavia: ruba ai poveri per dare ai ricchi…).”

Le difficoltà e le contraddizioni del lungo processo di trasformazione del sistema politico-economico hanno sicuramente determinato le questioni che riguardano l’attualità politica, economica e sociale della regione. Quali sono principali sfide dell’oggi?

“Sono molte e tutte interconnesse. La vittoria ideologica dell’etno-nazionalismo e del neoliberismo definisce i Balcani in modo orizzontale, come un luogo di serie di differenze culturali, etniche ecc. sullo stesso piano. La prospettiva verticale, di classe è quasi del tutto trascurata: non si parla di povertà, di migrazioni di massa, della fuga dei cervelli, del neo-patriarcalismo, del neotradizionalismo, della pauperizzazione di intere regioni, delle élite cleptocratiche che – spesso con la benedizione e il sostegno della cosiddetta “comunità internazionale” – esercitano un potere totale nei loro Paesi che stanno cadendo sempre più in una posizione periferica, se non addirittura coloniale, non solo al di fuori, ma anche all’interno dell’”Europa Unita”. Credo quindi che le principali sfide dei Balcani siano molto simili a quelle di altre parti del Terzo Mondo contemporaneo: trovare le alternative praticabili al paradigma neoliberista/etno-nazionalista; stabilire una società giusta; emancipare i gruppi discriminati ed emarginati; trasformare l’avidità capitalistica in un paradigma sostenibile di non crescita; invertire le tendenze di classe, genere, etnia, sesso e tutte le altre gerarchie. Parafrasando Horkheimer: chi non è disposto a parlare di neoliberismo dovrebbe tacere anche sull’etno-nazionalismo; e chi non è disposto a parlare della nuova Europa, dovrebbe tacere sui Balcani.”

— 

Terminato il pranzo, brindiamo con un liquore alle erbe della Dalmazia, fortissimo. Aveva appena ricevuto la notizia che il suo saggio Poetry After Srebrenica? Cultural Reflection Of The Yugoslav Eighties sarà tradotto anche in ucraino. Nel suo denso lavoro di ricerca, pubblicato nella raccolta “Yugoslavia: Chapter 1980-1991”, curata dal Comitato di Helsinki per i Diritti Umani in Serbia, Mitja ha analizzato la creazione odierna di versi, suoni, vignette, quadri, parole o immagini della Jugoslavia degli anni Ottanta, con l’obiettivo di comprendere il modo in cui questi risuonano nella società di oggi, 40 anni dopo il suo inizio e 30 anni dopo la sua fine. Riporto un breve estratto – tradotto da me (scusa Mitja!) – che può aiutare a farsi un’idea su quale sia la prospettiva indagata dall’autore:

“Il virus culturale degli anni Ottanta è migrato anche in rete. Internet è pieno di eventi Facebook, pagine web, blog un tempo popolari, chat room e tutto ciò che consente di creare reti digitali e incentiva la feticizzazione della belle epoque tardo-jugoslava. Uno dei più emblematici è il gruppo Facebook  “Osamdesete u Zagrebu” (Gli anni ’80 a Zagabria), che dal 2014 ha riunito circa 35.000 membri. I suoi post sono per lo più incentrati su argomenti quali musica, moda, sport, design, libri e riviste popolari e vita quotidiana. Inoltre, una valutazione così esclusivamente positiva degli anni ’80 è stata gradualmente adattata dal settore commerciale come fonte redditizia. Gli imprenditori nostalgici lo sanno bene: la nostalgia vende! Le catene di supermercati, anche quelle di proprietà straniera, organizzano le settimane dedicate allo shopping nostalgico, in cui offrono prodotti dei giganti dell’ex Jugoslavia, dai cioccolatini Bajadera all’immancabile Cockta.”

Mitja non è l’unico della sua famiglia ad avere una propensione per la scrittura. Sua sorella, Nataša Velikonja, è sociologa, poetessa, saggista, traduttrice e attivista lesbica. Nel 1994, ha pubblicato “Abonma” (Subscription), la sua prima raccolta di poesie nonché la prima raccolta di poesie apertamente lesbiche in Slovenia. È la fondatrice della Biblioteca Lesbica e dell’Archivio presso il centro sociale AKC di Metelkova, il quartiere più colorato di Lubiana.

Ha ricevuto numerosi premi letterari, tra cui il Premio Župan?i? nel 2016 e il Premio letterario internazionale Kons nel 2018. Avrei voluto tanto incontrarla, farmi raccontare da lei quand’è che ha trovato nella poesia la libertà di esprimere se stessa.

Io e Mitja voliamo da un argomento all’altro e tutto sembra essere intrecciato, interconnesso. Parliamo del disagio giovanile, di quanto sia difficile “diventare adulti” e entrare nel mondo del lavoro. Molti giovani vanno via dai Balcani, alla ricerca di opportunità più diversificate, di un posto in cui farsi notare e poter essere completamente se stessi, senza paura di essere etichettati o giudicati. La possibilità di essere visti e il potere di rendersi invisibili. L’assenza di questa bidimensionalità simultanea caratterizza anche molti luoghi al di fuori dei Balcani, ripenso alla mia esperienza. Sono nata e cresciuta in una città che conta più di 900 mila abitanti e non ricordo una fase della mia vita napoletana libera dalla sensazione di essere osservata con giudizio.

“Si può essere veramente liberi in un luogo in cui tutti ti conoscono e giudicano le tue scelte?”.


 

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.