Vittorio Tavagnutti

Vittorio Tavagnutti attore di “Coming-out Etnico, orgogliosi di essere Rom e Sinti”: l’incontro sul femminismo intersezionale

Benedetta Pisani

Benedetta Pisani intervista Vittorio Tavagnutti

Gli occhiali tondi, il pullover di lana e un sorriso che fa sentire a casa. Ho incontrato Vittorio Tavagnutti solo due volte di persona, ma sento di conoscerlo da molto più tempo. Forse sarà “deformazione professionale” – è ricercatore al Dipartimento di sociologia e ricerca sociale dell’Università Bicocca – ma la cura con cui sceglie le parole e la delicatezza con cui le esprime fa sentire al sicuro. Gli ho chiesto di farci una chiacchierata virtuale e la sensazione non è cambiata.

“In questo momento, la mia vita è molto definita da quello che sto facendo nel mio lavoro. Sono un ricercatore e una persona interessata a esplorare i propri privilegi e tentare con le azioni personali di contribuire a combattere dei sistemi di potere che ci circondano. E questa è anche una delle ragioni per cui partecipo a questo spettacolo.”

La parola privilegio, solitamente, scatena indignazione e paura in chi quei privilegi li ha. Paura di esserne privati, accusati, di veder messo in dubbio il proprio merito. Ignorando il fatto che: 

  1. riconoscere di avere un privilegio, e prendersene la responsabilità, non lo fa scomparire;
  2. avere un privilegio non è una colpa, ma un fatto;
  3. il privilegio non ha nulla a che fare con il merito, ma molto di più con la casualità di essere nato con determinate caratteristiche.

In un contesto sociale in cui le dinamiche di potere pongono gli uomini in una posizione di privilegio – specialmente se bianchi, cis, etero, borghesi, abili e esteticamente conformi agli standard – il femminismo mette le sue radici, reagisce alla subalternità della donna rispetto all’uomo e rivendica pari diritti e dignitià per tutte le persone, a prescindere da genere, orientamento sessuale, etnia, culto, provenienza sociale e geografica…

“Quando ero in Erasmus in Romania, mi sono avvicinato a una protesta del movimento femminista Rom. È stato il primo momento in cui ho visto mettere in pratica questo modo di pensare e vedere la realtà femminista, che fino ad allora avevo solo letto. Ho deciso quindi di scrivere la mia tesi magistrale proprio sul movimento femminista Rom in Romania e, dopo varie esperienze lavorative e riconoscendo anche i limiti della mia precedente ricerca, ho deciso di focalizzarmi sul contesto italiano e affrontare l’attivismo in senso più ampio.

Questo mi ha portato a contattare Ivana, che non conoscevo ancora personalmente ma ascoltavo il suo podcast +Rom-Rum. Ci siamo visti perché le avevo proposto un’intervista e questo ci ha portati ad avere anche un rapporto di amicizia, che andava al di là dell’estrazione di informazioni per la mia ricerca. Poi, lei mi ha proposto di andare con loro ad Auschwitz, per il viaggio nei luoghi della Memoria. 

Sebbene io non sia mai stato vittima di processi di razzializzazione e non ho parenti che sono stati deportati a Auschwitz, è stata un’esperienza fortissima. Durante la cerimonia informale tra i vari gruppi di attivisti di tutta Europa, guardare i loro sguardi che si caricavano di significati, di una Memoria che veniva tramandata o che è stata scoperta da poco… Ogni parola che veniva detta, ogni nota che veniva suonata, erano carichi di un passato e di un presente che si riverberava in quel momento.

È stato reso concreto ai miei occhi quello che molto spesso si dice dell’importanza della Memoria e che i fatti accaduti durante il nazifascismo continuino a influenzare le vite della maggior parte delle persone presenti in quel momento. Mi sono sentito davvero privilegiato ad assistere a un momento che percepivo essere molto importante per loro. L’incontro con persone Rom e Sinte da tutta Europa, il riappropriarsi della propria identità, immergersi nella propria cultura, in un contesto in cui viene celebrata e non denigrata.”

Riconoscere quali siano i privilegi e le oppressioni presenti a livello sistemico nelle relazioni umane – economiche, lavorative, affettive… –  ci consente di osservarle con uno sguardo più attento alla complessità e comprendere meglio il nostro posizionamento – o più posizionamenti – all’interno di queste. Ci porta a fare un passo indietro e contribuire alla creazione di uno spazio sicuro, in cui le voci messe a tacere da dinamiche di potere patriarcali, capitaliste e colonialiste possano essere ascoltate e rispettate. 

“La mia partecipazione nello spettacolo nasce dalla stima e dal rapporto di amicizia con le persone con cui sono sul palco. Nonostante questo, la mia presenza è anche in qualità di ricercatore. Ho, quindi, diversi posizionamenti all’interno dello spettacolo: attore, amico e anche ricercatore, che esplora un fenomeno nel quale sta partecipando. Per quanto io mi sforzi, c’è una dinamica di potere anche nella ricerca. Scriverò quello che sto vedendo con il mio sguardo. C’è questa ambivalenza tra l’essere un attore e anche una persona che avrà il potere di interpretare e riportare in determinate forme quello che vede. La ricerca è ciò che mi ha portato a entrare in questo campo ma, in un’ottica intersezionale, il mio posizionamento è cambiato in termini di vicinanza personale alla lotta.

Il concetto di intersezionalità aiuta a comprendere che una persona non può essere definita da una sola categoria identitaria e rende visibili esperienze di chi, come Swami, è parte di più comunità e, di conseguenza, può essere oppressa per ragioni diverse. Viviamo in una società complessa, con esperienze di discriminazioni e di vita complesse. Il fatto stesso di usare il termine coming out è indice della molteplicità di dinamiche che portano le persone a nascondere parte della propria identità, per protezione e vergogna – atteggiamenti che hanno la stessa matrice. 

Il poter fare coming etnico è, però, anche una forma di privilegio, così come il non passare per persona romanì (white passing). Non tutte le persone sono messe nelle condizioni di poterlo fare in modo sicuro. Non è una scelta assoluta, ma si decide a chi dirlo, quando dirlo e se dirlo in tutte le sfere della propria vita. A lavoro, per esempio, è più difficile. E il fatto di poterlo dire anche in quel contesto è un’altra forma di privilegio. In un’ottica politica, nell’attivismo romanò è importante che le persone con un privilegio relativo e che quindi non corrispondano allo stereotipo dicano pubblicamente di essere Rom e Sinte, perché va nella direzione di cambiare gli stereotipi maggioritari nella nostra società.”

L’intersezionalità è un invito a pensare in modo più ampio e andare oltre la comodità intellettuale, per restituire complessità alle esperienze soggettive e rifiutare le narrazioni semplicistiche che ci vengono vendute come assolute. Utilizzare una prospettiva intersezionale è un buon punto di partenza per scardinare gli stereotipi, per leggere le politiche socio-economiche con uno sguardo più cosciente e agire con maggiore intenzionalità nella propria vita, avendo cura delle vite altrui. E l’arte può farsi strumento per mettere in pratica questa prospettiva. 

“Il valore politico di questo spettacolo sta nell’intenzione di accrescere, nelle persone che lo verranno a guardare, la consapevolezza sulle dinamiche di potere che esistono e influenzano la vita di tutti e tutte, in particolare quella di chi è sul palco. Alle spalle, ovviamente, c’è un’esigenza personale di intraprendere un processo di liberazione, avvenuto anche grazie al lavoro di Ivana, che ha favorito la creazione di uno spazio sicuro e di legami solidi. In questo senso, lo spettacolo è consapevolmente politico perché tenta di cambiare queste dinamiche a partire dal personale e dall’arte. L’arte diventa mezzo per portare avanti questa lotta e rende evidente come il personale sia politico.”


 

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