HUMANS of the Balkans - Lubiana 1

HUMANS of the Balkans – Lubiana 1

Benedetta Pisani

HUMANS of the Balkans – Lubiana 1. Diciotto giorni nei Balcani, per incontrare persone e ascoltare le loro storie. Da Lubiana a Tirana, 55 ore di autobus e tanta voglia di condivisione.

HUMANS of the Balkans - Lubiana 1

Capitolo 1 – Incontro con Max Shonhiwa Zimani: Imprenditoria sociale e migrazioni

Ho un ricordo nitido e anche un po’ lontano delle conversazioni profonde e delle risate spontanee con Maria Elena, sedute al tavolino di Skuhna, cinque anni fa, quando eravamo due studentesse Erasmus in una città tutta di scoprire. Mi sembra di poter sentire il profumo del cibo speziato, forse indiano ma non ne sono sicura. Il menù cambia regolarmente e ogni giorno si possono provare le ricette tradizionali, tramandate da generazioni, di cuochi e cuoche provenienti da tanti paesi diversi. Non dimenticherò mai il sapore dei biscottini di ceci e cardamomo. Ho provato a rifarli appena tornata in Italia, ma ho capito che valeva la pena astenermi e aspettare di tornare a Lubiana per mangiarli. Sono passati 5 anni e sono ancora totalmente convinta di aver fatto la scelta giusta.

Cammino per Trubarjeva cesta e, quando incontro lo sguardo di Max, un sorriso illumina il suo viso e anche il mio. Tutto sembra rimasto fermo e vivo nel 2017. Lui è bellissimo con la sua camicia colorata e gli occhi che potrei guardare per ore. Mi trova bene, me ne rallegro. Ho sempre un po’ paura di rivedere persone che mi hanno conosciuta quando pesavo 20 kg meno. Molti non immaginavano che stessi male, forse neanche Max. Ma il suo sguardo dolce mi fa intendere il contrario. Mi rasserena, mi sento a mio agio. Chiacchieriamo tanto, abbiamo 5 anni di vita da raccontarci. 

In questi anni Ljubljana è cambiata molto e Max conferma questa mia percezione. Se una città attira un numero preponderante di turisti italiani, vuol dire che è diventata una “moda” visitarla, quasi un obbligo da assolvere per poter confermare il proprio status di cittadino/a del mondo. Il processo di gentrificazione della capitale slovena è in corso e a dimostrarlo non è solo la presenza – a tratti ingombrante – di individui con zainetto in spalla, felpa legata alla vita, jeans e scarponcini del Decathlon (aka turista medio italiano), ma anche l’aumento spropositato dei prezzi.

Quando vivevo qui, da studentessa avevo diritto al meraviglioso “Študentski boni”, che mi consentiva di mangiare un menù completo a meno di 4 euro: zuppa, insalata, primo, frutta o dolce, in qualsiasi ristorante della città. In quelle condizioni, ci si abitua facilmente a mangiare fuori. Ora, senza buoni pasto e con il rincaro dei prezzi, è diventato tutto un po’ meno spensierato. Ma, per fortuna, alcuni posti sembrano resistere alle dinamiche di mercato.

“Skuhna è un’impresa sociale. Nello spettro dell’imprenditoria, si colloca tra le aziende ordinarie e quelle no-profit, il che significa che la ragione principale della sua esistenza non è guadagnare tanti soldi, come nel caso delle aziende classiche, ma piuttosto quella di affrontare una questione sociale, nello specifico l’esclusione dei migranti provenienti dal Sud del mondo. Skuhna nasce, quindi, con l’intenzione di risolvere questo problema offrendo alle persone l’opportunità di fare rete e di trovare lavoro. All’inizio, per entrare in contatto con loro, avevamo programmi di sensibilizzazione e collaboravamo con le organizzazioni che lavorano con i migranti. Oggi, non è più necessario perché ci conoscono e vengono direttamente da noi per iniziare a lavorare.”

Quando ci siamo incontrati questa estate, Max aveva residui di vernice bianca sulle mani. Vuole fare una sorpresa alle figlie e sta ristrutturando il locale mentre loro sono in vacanza con le zie. Mi spiega che in Zimbabwe, secondo la cultura tradizionale, quando le ragazze si trovano in uno specifico momento di passaggio nella loro vita, affrontano determinati argomenti con le zie e non con i genitori. Posso immaginare a quali temi si stia riferendo Max e mi fa sorridere perché, come direbbe mia nonna, tutt’o munno è paese. Avevo 16 anni quando ho scoperto cos’è, per me, l’amore romantico – ero un po’ più grande delle figlie di Max, che si stanno avvicinando adesso a quell’affascinante strazio, apparentemente infinito, chiamato adolescenza.

Quel sentimento così bello e struggente che provavo per un mio caro amico non si è mai concretizzato in una storia, e questo lo rendeva ancora più intenso. Razionalizzare era l’unico strumento che conoscevo per attutire il dolore – e che ancora oggi prediligo – e la prima persona a cui ho affidato l’arduo compito di aiutarmi a mettere ordine nella mia vulnerabilità, è stata zia Debora. Le zie hanno la straordinaria capacità di tranquillizzare come le mamme e consigliare come le amiche. Sono persone adulte in grado di trasformarsi all’occorrenza in entusiaste adolescenti, coscienziose e non giudicanti. Mentre Max mi parla delle sue figlie, con il cuore torno a Napoli, nella camera con la scrivania di legno chiaro e il copriletto a quadretti bianchi e rossi dove mi sono innamorata per la prima volta.

“Una parte del mio cuore è rimasta in Zimbabwe, dove sono nato. Nonostante io sia andato via tanti anni fa, quel posto è ancora casa mia. In particolare, quando torno da mia madre e poi vado via, sento di aver lasciato una parte del mio cuore. Sono venuto in Slovenia quando ero ragazzino per andare a scuola. Ho studiato informatica e lavorato in un’azienda che si occupava di sviluppo di software.  Prima di Skuhna, ho lavorato anche come traduttore professionista. Nel frattempo, ero anche molto attivo nel settore delle ONG; ero a capo dell’organizzazione “Unione degli studenti africani in Slovenia”, e questo mi ha regalato tanta esperienza nell’ambito del sociale e nella gestione dei progetti, facendomi anche avvicinare alle problematiche che molti migranti affrontano per poter avere una vita migliore… Questo mi ha portato a fondare Skuhna.”

Le iniziative dal basso nascono da un ascolto profondo dei bisogni specifici, generano una presenza consapevole e creativa, incentivano la comunicazione proattiva sui temi specifici e favoriscono il cambiamento. I piccoli gesti possono fare la differenza. Questo aforisma, tutt’altro che banale, racchiude l’essenza dell’attivismo: osservare cosa ci circonda, ascoltare chi ci è vicino, esperire in prima persona, imparare l’arte della cura – reciproca e collettiva – e agire a livello locale. Skuhna nasce come proposta creativa a un bisogno, ossia creare uno spazio lavorativo sicuro in cui le persone migranti del Sud del mondo possano inserirsi una volta arrivate in Slovenia, e anche come realizzazione di una passione, la cucina.

“Il consiglio principale che darei a chiunque voglia avviare un’impresa sociale è quello di interrogarsi su quali sono gli obiettivi che vuole perseguire. Se lo scopo è quello di guadagnare, allora non è il caso di avviare un’impresa sociale. Prima di aprire Skuhna, abbiamo trascorso molte ore a lavorare come volontari, dato che non avevamo esperienza nella gestione di un ristorante. È stata una sfida enorme, sia a livello legislativo che sociale. Abbiamo avuto la sensazione che la gente non avesse capito il senso. Alcuni pensavano che un’impresa sociale fosse un posto dove si poteva venire a mangiare gratis…

Ma non è così, ovviamente. C’è anche da dire che la Slovenia, soprattutto quando abbiamo iniziato, non è un contesto in grado di favorire l’operato delle imprese sociali. Paghiamo lo stesso ammontare di tasse delle aziende “classiche”, anche se utilizziamo la maggior parte del nostro tempo in attività che non generano denaro, come la formazione delle persone. La sfida principale che dobbiamo affrontare oggi è la mancanza di comprensione di cosa sia il social business, ma anche il fatto che non siamo ancora ben preparati come imprenditori. Perché, in fin dei conti, l’impresa sociale è un’impresa a tutti gli effetti, ma che nasce da una diversa intenzione. Ha davvero senso solo se si ha passione e motivazione profonda per quello che si sta facendo.”

Un po’ di tempo fa, mi sono trovata coinvolta in una bellissima conversazione con sette adolescenti, che si confrontavano sul concetto di bellezza. Una riflessione, in particolare, ha risuonato molto in me. “È bello ascoltare e guardare una persona mentre parla di qualcosa che l’appassiona”. Mi sono chiesta quale sia la mia passione e ho avuto non poche difficoltà a trovare la risposta. Il livello di astrazione della domanda è al pari di un “Cos’è la felicità?”. Poi, un po’ come fossi nello studio della mia psicologa, seduta sulla poltroncina blu con i braccioli in legno, nella mia mente si sono schiarite immagini, voci, sorrisi. Ascoltare ciò che le persone hanno da dire, prendermi cura delle loro parole, esprimere entusiasmo per le loro idee. Questo mi appassiona e mi rende felice. Consapevole della complessità della domanda, ho deciso di porla anche a Max.

“Più vado avanti negli anni, più mi rendo conto di come il sogno di una vita bella per tutti sia reso difficile dalle scelte di vita di pochi. L’idea alla base del social business è proprio quella di aprire le porte e ampliare la possibilità di scelta a tutte le persone. Quando anche qualcun altro sale un po’ più alto, non significa che chi era già in alto debba necessariamente cadere. Mi appassiona dare opportunità e mi rende felice sentirmi soddisfatto, quando sento che le persone intorno a me stanno bene e che io ho contribuito al loro benessere.

Cercherò di essere un po’ più preciso. Ho una madre anziana e mi rende felice contribuire a farle vivere una vita bella, aiutandola economicamente. Mi rende felice aiutare mio fratello a pagare le rette scolastiche dei figli, dato che al momento mi trovo nelle condizioni per poterlo fare. Anche fare quotidianamente le cose che ti fanno sentire a tuo agio, rendersi conto che la vita è fatta per essere vissuta e non essere troppo severi con se stessi, credo sia felicità.”

Guardo l’ora, è mezzogiorno. Il tempo è volato. Quello stesso giorno il prof. Mitja Velikonja mi aveva invitata a pranzo da lui. Abita a Vi?, un quartiere che non avevo ancora mai esplorato. Max mi offre un passaggio con la sua “old and dirty car”, per poter chiacchierare ancora un po’. In quella macchina grigia, vissuta e anche piuttosto malandata, mi sono sentita appassionata e felice.


 

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