Swami Della Garen, attrice di “Coming-out Etnico, orgogliosi di essere Rom e Sinti”: l’incontro ai Murazzi
Benedetta Pisani intervista Swami Della Garen
Sedute sulla panchina in pietra grigia dei Murazzi, il vento umido soffia leggero. Swami Della Garen prende dalla borsa un Estathè al limone, fa un sorso. “Pronta”, mi dice con il timore di non riuscire a esprimersi come vorrebbe.
“Sono Swami, ho 22 anni, sono metà Sinta e faccio parte della comunità queer, anche se non ho voglia di identificarmi in un’etichetta, non ne sento il bisogno. Studio Scienze dell’Educazione, a Palazzo Nuovo, ma non con l’intenzione di lavorare poi con i bambini. Non so ancora cosa voglio fare, ma sento che il mio scopo in questa vita è aiutare le persone. E per farlo, devo aiutare prima me stessa… Infatti, vado dalla psicologa!”
La psicoterapia è un percorso che ci accomuna, quotidiano, progressivo e spesso doloroso. Una scelta dettata dal bisogno di affacciarsi sul proprio mondo interiore e capirci qualcosa in più, abbandonando l’idea che questo possa accadere in un tempo calcolabile a priori. Ma la bellezza che si manifesta nel chiedere aiuto e nell’imparare, pian piano, ad accoglierlo, è inestimabile.
“Dovrei iniziare a notare e raccogliere le gentilezze che mi vengono rivolte. È strano che non ci abbia mai fatto caso… Sono più concentrata a dare che a ricevere, forse per questo non me ne accorgo.”
L’umidità che effonde dal fiume e l’emotività che Swami mette in tutto ciò che fa, mettono in pausa la chiacchierata per un minuto, chiediamo un fazzoletto a una passante. I capelli biondi e un po’ ricci, il cappotto verde pistacchio e un cappello che sembrava molto caldo. Ci sorride e prende dalla borsa il pacchetto. “Ecco un gesto di gentilezza… che bello”, mi dice Swami.
L’ho conosciuta durante una cena a casa di Ivana, pochi giorni prima delle festività natalizie. Busso alla porta e sua mamma Jasminka mi accoglie con affetto. Tolgo le scarpe e le porgo una scatola rossa piena di biscotti speziati. Sorride e mi abbraccia. Quei pochi minuti all’ingresso sono stati il preludio di una serata bellissima e di incontri nuovi e importanti.
“L’incontro con Ivana è stata un intreccio dell’universo. Era il 2020 e io mi trovavo in piazza Castello per partecipare alla manifestazione antirazzista in memoria di George Floyd. A un certo punto, sento una voce al megafono che dice: «Sono una Rom bosniaca…». Scoppio in lacrime, non sapevo neanche che potesse esistere un attivismo Rom e Sinto. Credevo di essere l’unica. Ho iniziato a piangere e mi fa piangere ancora.”
La consapevolezza di essere parte di un qualcosa di più grande accresce la voglia di attivarsi, conoscere e scoprire. E così la vergogna, un sentimento che alimenta solitudine e isolamento, lascia spazio al percorso di riappropriazione, collettiva e individuale, della cultura, della lingua e dell’orgoglio romanì.
“Mio padre è Sinto e vive al campo. Io ho vissuto la vita del campo fino ai sette anni circa, poi mi sono separata da mio padre e sono cresciuta con mia madre. Non ho potuto vivere appieno la mia parte Sinta, le tradizioni e l’identità. Portavo solo il peso del mio cognome e dei pregiudizi che suscitava, volevo cambiarlo. Poi alla maturità mi hanno assegnato come tema da elaborare il razzismo, e qua inizia l’aiuto dell’universo! Ho letto Il razzismo spiegato a mia figlia di Tahar Ben Jelloun, ho scoperto che esiste la disforia etnica e che vergognarsi della propria identità etnica dipende dal pregiudizio esterno. Ho concluso l’elaborato scrivendo che avevo compreso molto bene quel sentimento, perché lo provo ogni giorno. Non avevo ancora accettato le mie origini, ma ho deciso di non tenerle più nascoste.
Ho fatto una specie di coming out etnico alla maturità e tutti i professori, anche quelli più cattivi, mi hanno fatto i complimenti. È stato bello. Da lì ho iniziato a studiare in modo più approfondito tutti i libri su Rom e Sinti della Biblioteca di Pinerolo e, facendo ricerche online, ho scoperto la Scuola Politica Kethane e tante persone della comunità che fanno attivismo. Tra queste, c’era Ivana e quindi ho collegato… Era sua la voce al megafono in piazza Castello! Siamo entrate in contatto sui social e, poi, ci siamo incontrate di persona durante la mostra artistica Romanipen ai Bagni Pubblici di via Agliè. Lì mi ha proposto di partecipare al viaggio nei luoghi della Memoria.”
Tenere viva la Memoria per contrastare l’oblio e il negazionismo storico che adombra il passato di un popolo che ha sofferto e di cui nessuno parla. In politica, in televisione, a scuola. Si parla tanto di tante cose, ma ci si dimentica sempre delle stesse. Non tutti gli Stati europei hanno riconosciuto ufficialmente il genocidio dei Rom e Sinti, il che è tutto dire. L’ignoranza – intesa come non conoscenza, trascuratezza e indifferenza – sedimenta pericolosi stereotipi, che non si limitano ad alimentare una narrazione distorta, parziale e unilaterale, ma si traducono in discriminazioni concrete e violente.
“Ad Auschwitz, ero un po’ dissociata, non riuscivo a sentire niente. Non ero triste, non ero emozionata. Ho avuto difficoltà a realizzare che quelle cose surreali e lontane erano realmente accadute. Ma ho avuto anche la fortuna di aver vissuto questa esperienza con delle persone belle, che mi hanno fatto sentire al sicuro. Ci siamo accolti reciprocamente nella nostra vulnerabilità, creando un legame molto forte. Ivana ha sicuramente avuto un ruolo fondamentale.
Ci chiedeva sempre “Come state? Cosa provate?”… e io non ero abituata a questo tipo di condivisioni. Questo viaggio mi ha cambiata molto a livello personale, è stato di grande aiuto, soprattutto per avvicinarmi alle mie origini, per entrare in contatto con altre persone Rom e Sinti e sentirmi finalmente parte di questa comunità. Se mi avessero parlato del Samudaripen quando ero più piccola, se mi avessero detto che siamo stati perseguitati, che non siamo cattivi ma che, anzi, abbiamo subito la cattiveria, forse avrei sviluppato prima questo orgoglio che sento oggi. Invece, sono cresciuta sentendo solo commenti negativi… gli zingari, così ci chiamano. Però, credo che tutto abbia il tempismo giusto. Quindi, va bene così”
Ascoltando Swami sono entrata in una dimensione atemporale, in cui il passato e il presente si intrecciano in un disegno dell’Universo – come direbbe lei – a volte caotico, ma pieno di senso. Avere fiducia nel destino e accettare che gli eventi hanno un loro tempo e un loro modo per realizzarsi, però, non significa cedere al destino con fatalismo e accettare passivamente il corso degli eventi. Lo spettacolo teatrale scritto e diretto da Ivana Nikolic si sviluppa proprio in quest’ottica di intenzionale attivismo, di contrasto alla rassegnazione, all’ignoranza e alla violenza. Mettere in scena una rappresentazione teatrale per ribaltare gli stereotipi, incuriosire, informare, emozionare.
“Nell’ultimo atto dello spettacolo reciterò un monologo in cui racconto la mia storia, a partire dal primo luogo dove ho abitato, il campo, da cui sono uscita all’età di sette anni. Questo ha reso ancora più difficile accettare il mio cognome e le mie origini, portandomi ad avere atteggiamenti razzisti contro le persone della mia stessa comunità. Volevo convincermi che ero diversa da loro. Alle medie, i genitori dei miei amici impedivano ai figli di uscire con me, perché ero una Della Garen.
Un giorno sono stata ripresa da una professoressa che stava facendo una supplenza nella mia classe, e quando mi ha chiesto il nome: “Ah, allora ho già capito tutto”. Avevo undici anni, è stato traumatico. Condividere la mia storia e le mie emozioni con altre persone – e farlo con questo gruppo – è un’occasione per provare a cambiare la narrazione, ma mi è di grande aiuto anche a livello personale. Io mi sono sempre sentita in imbarazzo a parlare in pubblico, a mostrarmi, da quando ero bambina. Sono veramente elettrizzata.”
Un viaggio interiore e collettivo che parte dalla vergogna. Un’emozione secondaria che si apprende e si sviluppa con le interazioni che l’individuo ha in un contesto caratterizzato da specifici standard. Alla base di questa esperienza emotiva, risiede un senso di profonda inadeguatezza e impotenza, una paura di diventare oggetto del giudizio altrui e di poter essere “smascherati” nella propria intimità, ritenuta inaccettabile. Da ciò deriva spesso l’esigenza di costruire un’immagine di sé che non corrisponde a quella reale, di essere altro.
“Il cognome è una cosa di cui mi sono sempre vergognata, tanto. Sono andata anche da un’avvocatessa per capire come cambiarlo, ma ero ancora minorenne quindi non potevo farlo senza l’autorizzazione dei miei genitori. Nel tempo ho cambiato idea. Ora sto leggendo una ricerca sulla presenza dei Rom e Sinti in Piemonte. Il libro è intitolato A dodici anni dalla legge regionale 10 giugno 1993, n.26, “Interventi a favore della popolazione zingara”, ed è curato dall’IRES Piemonte.
Il cognome assume così profondo valore identitario, istituendo legami tra il singolo e il gruppo, l’individuo e la collettività. Il cognome fa esistere e resistere, permette di appartenere e di rivendicare un posto sicuro.
“In Piemonte la popolazione romanì viene menzionata per la prima volta in un documento del 1601, anche se, come spiegato nel libro, si può ragionevolmente supporre che le persone Rom e Sinti siano arrivate a partire dal XV secolo, dato che la loro presenza era stata già segnalata in Svizzera, Germania e Francia tra il 1417 e il 1419. Per questo molte persone romanì in Piemonte hanno cognomi di origine francofona… E il libro cita anche il mio! De La Garenne, oggi italianizzato in Della Garen. Ho trovato questo libretto per caso, dando uno sguardo ai nuovi arrivi in Biblioteca. Come sempre, tempismo perfetto”.
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