L’Assemblea Generale ONU trascina Israele alla Corte dell’Aia

Chandra Muzaffar

L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (UNGA) ha votato la settimana scorsa [ultima del 2022 – ndt] per deferire Israele alla Corte Internazionale di Giustizia (Tribunale dell’Aia) per la sua perdurante violazione del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese nei territori occupati di Cisgiordania e Gaza e per l’adozione di misure miranti ad alterare la composizione demografica, il carattere e lo status della città santa di Gerusalemme.

Prima di analizzare il significato del voto, sondiamo l’effettiva struttura del voto: 87 stati hanno votato per deferire Israele alla corte dell’Aia, cioè quasi tutti gli stati a maggioranza musulmana compresi quelli che avevano recentemente stabilito rapporti diplomatici con Israele – il che mostra che almeno a questo proposito le manovre diplomatiche d’Israele e suoi sostenitori non sono servite allo stato sionista.

Anche altri stati a maggioranza ampiamente non-musulmana in Latin-America, Africa e hanno approvato la risoluzione; da notare che sia Cina sia Russia hanno sostenuto la citazione in giudizio d’Israele. 26 paesi hanno votato contro la risoluzione dell’UNGA, fra cui ovviamente USA, Gran Bretagna e vari altri stati occidentali. Molti paesi — 53 — si sono astenuti; fra essi L’India, che al tempo della creazione d’Israele nel 1948 era propugnatrice della lotta in difesa dei diritti dei palestinesi; i suoi crescenti legami con Israele, specialmente in ambito militare, sono stati spesso citati come ragione principale di tale cambio d’atteggiamento, che peraltro non annulla in alcun modo la rilevanza del voto a favore della risoluzione.

L’UNGA chiede alla suprema autorità giurisdizionale mondiale di prendere posizione sulla condotta d’Israele come Potenza Occupante su terre in suo possesso da ben 55 anni. Dal 1967 infatti l’UNGA lo considera tale ma ne richiede il ritiro dalla Cisgiordania e da Gaza, appello, manco a dirlo, ignorato da Israele. Vale la pena osservare che questa volta la richiesta dell’UNGA viene fatta con un Israele guidato dal governo forse più d’estrema destra, che ha promesso di perseguire politiche che minino ancor più quel poco che resta dei diritti del popolo palestinese e demoliscano ulteriormente le caratteristiche cristiane e musulmane di Gerusalemme.

Chiedendo alla corte dell’Aia di esaminare il comportamento d’Israele nei Territori Occupati, l’Assemblea generale ONU dice a Israele che è sotto scrutinio, che lo tiene soggetto a rendiconto, che costringe a comportarsi propriamente uno stato canaglia — che dal 1948 rifiuta di attenersi alle norme e agli standard di condotta che ci si aspetta mantengano tutti gli stati.

Se la Corte concorderà essenzialmente con la tesi UNGA sulla violazione da parte d’Israele del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese e del divieto d’alterare il carattere [inter-nazionale e -religioso] di Gerusalemme, come reagirà il governo israeliano di Benjamin Netanyahu? Sulla base della sua condotta passata e presente, è quasi certo che ignorerà la posizione della corte inveendole addirittura contro, così come ha condannato l’UNGA per la sua recente risoluzione. Cioè in altre parole non cambierà nulla nel comportamento israeliano nei Territori Occupati o a Gerusalemme.

Dopo tutto, la Corte aveva già sentenziato nel 2004 che gli insediamenti israeliani nei Territori Occupati contravvenivano al diritto internazionale ma Israele ha continuato ad espanderli fino ad ospitare attualmente ben 700.000 coloni ebrei.

Ciò non dovrebbe tuttavia sminuire l’utilità di adire la Corte o di agire mediante l’UNGA, percorsi importanti per almeno due ragioni. Uno, rivelano che è Israele il vero problema e tale da dover essere risolto nell’interesse di un’autentica pace. Due, sfruttando il sostegno degli stati membri e delle agenzie ONU si esalta la causa palestinese, la si rafforza nel confronto non solo con Israele ma col suo principale sostenitore, gli USA, e vari stati europei talvolta affiancati da Giappone e Sud-Corea.

È forse a questo snodo che dobbiamo esaminare brevemente il rapporto della Palestina con l’ONU: ambivalente nel migliore dei casi. È stata l’ONU che sotto l’influenza degli USA e di altre potenze occidentali ha presieduto all’ingiusta partizione della Palestina storica nel 1948 dando a neppure 30% della sua popolazione, quella ebraica, due terzi delle terre e assegnando il terzo rimanente ai cristiani e ai musulmani, maggioranza del 70%. E senza alcun plebiscito per determinare come la pensasse l’intera popolazione sulla partizione proposta. Ignorandone l’opinione, l’ONU di fatto contravvenne al proprio stesso Statuto.

Ma dopo che Israele nel 1967 s’impossessò di Gaza e della Cisgiordania ivi compresa Gerusalemme-est, le risoluzioni ONU  — come abbiamo visto — riconoscono chiaramente i palestinesi che abitano in tali territori come vittie dell’Occupazione. Si dovrebbe anche tenere in risalto che l’ONU continua con varie risoluzioni a riconoscere il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione, all’indipendenza e alla sovranità nazionale. Inoltre, dal novembre 2012 la Palestina è uno stato osservatore non-membro all’Assemblea Generale ONU.

Inoltre ‘ONU bada anche ai profughi palestinesi. L’UNRWA (Agenzia ONU per Soccorso e Opere) fornisce istruzione, (pronto) soccorso sanitario e servizi social per oltre 5 milioni di profughi palestinesi in Giordania, Libano, Siria, Gaza e Cisgiordania inclusa Gerusalemme-est.

Il rapporto della Palestina con l’ONU è dunque avvolto in obblighi, responsabilità, diritti e aspirazioni. Ha avuto i suoi alti e bassi; a dovrebbe continuare ad essere considerato uno dei molti canali attraverso i quali il popolo palestinese cerca di assicurarsi la propria giustizia, libertà e dignità.


 TRANSCEND MEMBERS, 9 Jan 2023 | Dr. Chandra Muzaffar | JUST – TRANSCEND Media Service

Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis


 

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