“Non possiamo smettere di sperare” – Incontro con il regista Markus Imhoof

Daniela Bezzi

E d’altra parte non possiamo smettere di sperare, non possiamo permetterci di arrenderci alla disumanità che ovunque prende il sopravvento. Soprattutto non possiamo smettere di sperare che anche nel nemico ci sia un briciolo di umanità. E provare a guardarlo dietro la sua armatura, provare a percepire le debolezze, le ferite, le motivazioni, la storia che lo identificano come nemico, è il solo modo che ci resta per restare noi stessi umani.

A 81 anni suonati non gli è ancora passata la voglia di fare cinema. Un cinema, il suo, molto particolare, laboriosissimo, meticoloso. Cinema come ricerca, che sai quando comincia e tra archivi, perlustrazioni, successive stesure di sceneggiatura, potrebbe richiedere anni.

Non possiamo smettere di sperare

Giovanna e Markus

È Markus Imhoof, regista svizzero, ormai da tempo residente a Berlino, che negli anni ’70 ha vissuto, anzi è sconfinato (come ama dire lui) in quel di Milano, sulle tracce di una ragazza di nome Giovanna, che la sua famiglia aveva accolto in casa quando lui era piccolino. Ragazza-profuga-di-guerra, in fuga dai bombardamenti, più grande di Markus, che infatti chiamava con affetto Marcolino… Ed è proprio da queste primi ricordi d’infanzia, nelle sequenze di quelle foto in bianco e nero che il tempo ha conservato nei taccuini di famiglia, che si mette in moto il film più recente e sicuramente notevole della sua scarna filmografia. Titolo: Eldorado (2018) per dire di quel mondo che in tanti sognano di sconfinare, quando pensano a una vita migliore.

Lo abbiamo raggiunto per telefono, in occasione del suo recente soggiorno a Torino per la 21ma Edizione del Premio Maria Adriana Prolo, che gli è stato conferito dalla Associazione Museo Nazionale del Cinema (AMNC) qualche giorno fa, lunedì 12 dicembre, nella persona di Emanuele Russo, Presidente di Amnesty International, per celebrare la Giornata Mondiale dei Diritti Umani.

Ma prima di dire dell’intervista, non possiamo non dire della seguitissima proiezione (subito dopo la premiazione) di quel film straordinario, La barca è piena, che nel 1981 gli meritò l’Orso d’argento alla Berlinale, oltre a una candidatura all’Oscar per miglior film straniero – ma che in Svizzera, suo paese natale, suscitò non poche polemiche, per aver osato rappresentare un’accoglienza verso i profughi in fuga dalla Germania nazista, ben diversa dalla narrazione ‘ufficiale’, di una Svizzera “paradiso dei rifugiati”.

Non meno seguita, tutto esaurito da settimane, la proiezione del mattino dopo per le scuole, nell’ambito del progetto Ragazzi in Città promosso dai Ministeri della Cultura e dell’Istruzione. Per vedere il suo Eldorado, straordinario affresco di un’umanità soccorsa in mare e poi sfruttata alla grande nelle campagne di Puglia ma a tutti i costi intenzionata a raggiungere un futuro migliore oltre i nostri confini, sono arrivate anche le scolaresche dei quartieri più periferici. E il dibattito che ne è seguito è stato talmente stimolante anche per il regista, da motivare senz’altro un molto prossimo replay nell’anno che verrà, forse già a gennaio. Con Markus in collegamento da Berlino e contando sulle sue straordinarie qualità di comunicatore, oltre che sul suo ottimo italiano.

Markus nel 1986

Autore dotato di una rara sensibilità umana, che gli permette di sapere cosa è davvero importante (cioè: da quale punto di vista) guardare, e quindi raccontare, Markus Imhoof viene normalmente descritto come un regista per niente prolifico: solo nove lungometraggi, e qualche breve documentario nell’arco di cinquant’anni di carriera. Solo perché ogni suo film è frutto appunto di anni di preparazione, una total immersion nelle tante storie di cui ogni storia è la scrematura – e con il tempo che ci vuole. Setacciando archivi, rivisitando i luoghi, immedesimandosi nei personaggi che a poco a poco prendono corpo nell’immaginazione – per non dire delle visualizzazioni grafiche che, a un certo punto, provano a schematizzare quanto reperito in “piani di regia” che regolarmente cambieranno in fase di ripresa, aperti ad accogliere il ‘ciò che può sempre succedere’, davanti alla macchina da presa.

Come è successo per quella scena del film “Eldorado”, in cui davanti agli agenti al confine con la Svizzera incaricati di rispedire indietro l’ennesima famigliola di migranti, la bambina reagisce lanciando a terra le bottigliette d’acqua premurosamente fornite dagli sbirri…

Non possiamo smettere di sperare

Una reazione totalmente imprevista, che mai avremmo potuto immaginare scrivendo una sceneggiatura. E bravissimo è stato il cameramen che ha subito spostato le riprese di quella scena (che era un momento di realtà non replicabile, da catturare al volo) posizionandosi alle spalle della bambina, per poter meglio cogliere al tempo stesso la rabbia istintiva del suo gesto, e l’abbraccio della madre che tenta di consolarla nonostante la sua stessa disperazione. Una scena che in pochi minuti riesce a dire tutta la crudeltà di questo sistema di respingimenti –permettendoci di percepire chissà quanti momenti difficili già vissuti prima di quello.

E poco dopo, nello stesso film, ecco quel primo piano sul volto della giovane di colore che lei intervista nella casa di cura in Svizzera, dove lei lavora. In pochi minuti la vediamo passare da un resoconto assolutamente neutro (chi sono, da dove vengo ecc) a un silenzio che si prolunga, nel tentativo di trattenere le lacrime, e ci fa intuire il vissuto di inenarrabile violenza da cui è passata…

Sono felice di poter dire che per quella giovane c’è poi stato il Lieto Fine. Perché dopo aver assistito a una proiezione del film in Svizzera, la Ministra della Giustizia ha deciso di recarsi personalmente in quella casa di cura per accertarsi che quella giovane avesse ottenuto il permesso di soggiorno, ‘altrimenti il film che ho visto non ha alcun senso’, queste le sue parole. E infatti per quella donna c’è stato poi l’apprendistato come assistente sociale, ha superato gli esami con onore e recentemente ci ha invitati tutti quanti in Svizzera, io, la troupe e altri amici, per una festa con menù africano.

C’erano 1800 persone su quella nave dove, nel ricordo della mia sorella-profuga Giovanna, mi ero imbarcato molti mesi prima ‘per vedere cose che non avrei voluto vedere’… e almeno una di queste persone ce l’ha fatta. Non si può salvare tutti, ma se tutti collaborano in qualcosa, se ciascuno di noi fa qualcosa per qualcuno, alla fine qualcosa succede.

Lei ha sviluppato questo particolare tema della collaborazione nel film “Un mondo in pericolo” (2012), per dire non solo delle api che sono in pericolo, ma della nostra stessa sopravvivenza in pericolo, in un mondo senza più api. Un film che ha richiesto un lungo lavoro preparatorio.

Verissimo, ho fatto un primo viaggio, direi proprio un giro del mondo, solo per prendere appunti: dall’America all’Australia passando per la Cina e parecchi paesi europei, armato solo di una piccola video camera e un quadernino. Non so quanti apicoltori ho incontrato: un film che non mi sarei mai sognato di fare senza il ricordo di mio nonno, appassionato apicoltore; e senza mio padre che da piccolo mi ha insegnato a entrare in contatto con la natura.

Non possiamo smettere di sperare

Ma solo da adulto, mentre ero completamente immerso in un altro progetto (che però non stava in piedi, cinque anni persi), ho appreso che le api erano una specie in via d’estinzione, in grado di sopravvivere solo stando insieme, in quella che si chiama ‘intelligenza di sciame’. Anche le piante non potrebbero sopravvivere senza le api. La nostra stessa sopravvivenza non potrebbe essere garantita senza l’impollinazione da parte delle api.

Basterebbe guardare le api al lavoro, per capire che il modo migliore per perseguire qualsiasi obiettivo è lavorare insieme. E’ ciò che ho cercato di dire con il mio film: se invece di dire solo “io” riuscissimo a capire il valore del “noi”, quante cose potrebbero cambiare… Vale per i singoli, come per le nazioni. Il solo modo per opporci alla distruzione che avanza, è coltivare idee positive. E fare di tutto perché come per le pianticelle in un orto, possano crescere e disseminarsi.

Purtroppo il mondo sembra proprio andare nella direzione opposta. Dalla data del suo ultimo film “Eldorado” (era il 2018) ad oggi, quante cose sono cambiate in peggio. La situazione già abbastanza tragica all’epoca di “Mare Nostrum” è degenerata in questa data per scontata ecatombe del passaggio in mare, e dei controlli sempre più rigidi sulle frontiere, per non dire della guerra in Ucraina.

E d’altra parte non possiamo smettere di sperare, non possiamo permetterci di arrenderci alla disumanità che ovunque prende il sopravvento. Soprattutto non possiamo smettere di sperare che anche nel nemico ci sia un briciolo di umanità. E provare a guardarlo dietro la sua armatura, provare a percepire le debolezze, le ferite, le motivazioni, la storia che lo identificano come nemico, è il solo modo che ci resta per restare noi stessi umani.

Operazione Mare Nostrum, salvataggio di naufraghi a bordo di un barcone da parte della fregata FREMM Bergamini della Marina Militare al suo primo impiego in questo tipo di operazioni. 2014-06-07 © Massimo Sestini

Ci dica qualcosa del suo prossimo progetto. Un progetto monumentale, al tempo stesso così personale e universale, anzi globale…

Ci sono arrivato pensando alla mia nonna che ogni tanto, parlando del colore della sua pelle, più scura del normale almeno per la Svizzera, ne attribuiva la causa a qualche goccia di sangue nero che le derivava da una bis-bis-bisnonna, nata nei Caraibi. Leggendo l’autobiografia lasciata da mio padre, che essendo uno storico aveva svolto ricerche approfondite, mi è venuta voglia di farne un film, ci sto lavorando da due anni e mezzo solo per fare ricerche e scrivere, cosa che continuerò a fare per altri due anni almeno… A ottantuno anni potrebbe sembrare una bella sfida, ma la storia è talmente appassionante che ormai siamo una squadra, tra cui mio figlio: diverse persone dislocati in tre paesi, alla caccia di sempre nuovi dettagli.

Per esempio, ho scoperto che il mio bis-bis-bisnonno, nato nel 1748 da una famiglia di ugonotti, rifugiati francesi, venne spedito per due anni in Marocco quando aveva 17 anni, da un banchiere svizzero di Copenaghen. Insieme a lui andò anche il padre, e alla sua morte eccolo veleggiare su una nave per altri due anni in India e in Cina, fino a raggiungere i Caraibi, nelle Virgin Islands (che erano una colonia danese) quando aveva ventitré anni.

Fu proprio lì che ebbe una figlia da una schiava, per l’appunto la mia bis-bis-bis-bis bisnonna, che poi a Vienna si sarebbe sposata con un mio antenato svizzero in fuga per l’Ucraina e da lì è nata la discendenza europea. Per quanto riguarda mia mamma la storia è solo apparentemente più semplice: nata in India, da un padre missionario, nello stesso identico luogo dove era morto cent’anni prima il fratello del mio trisavolo dei Caraibi!

Noi pensiamo di avere inventato la globalizzazione, ma duecentocinquanta anni fa, la famiglia da cui provengo era già tutta intrecciata tra i Caraibi, Zurigo e l’India – e dunque qual è la differenza tra caso e destino? Questo il tema del film, che si concentrerà sulla vicenda di tre donne, e di come sono riuscite a liberarsi dopo essere state vendute. Stanno emergendo particolari così emozionanti, che spero solo di avere il tempo per portare in porto il progetto, senz’altro il più impegnativo della mia vita.

Di Markus Imhoof si parlerà di nuovo anche questa sera (purtroppo senza di lui, già ripartito per Berlino) al Sereno Regis di Torino, con la proiezione di uno dei suoi primi documentari a conclusione di un pomeriggio-sera tutto dedicato all’obiezione di coscienza, perché il 15 dicembre di quest’anno coincide con il cinquantenario dell’approvazione della legge 772, che dopo vent’anni di resistenza nonviolenta al servizio militare, inaugurò l’alternativa del servizio civile.

Dopo la presentazione del libro di Marco Labbate Non un uomo né un soldo (in Sala Poli alle 17.30) la serata proseguirà dalle 20.30 in poi con la proiezione del film Kukushka. Disertare non è reato di Aleksandr Rogozkin, per concludersi appunto con un breve documentario che Markus Imhoof realizzò nel 1969, e che per molti anni restò censurato in Svizzera. Intitolato Ormenis 199+69, attinge all’esperienza personale del regista (ovvero il servizio militare che Imhoof svolse nella cavalleria svizzera) e sfruttando tutte le possibilità derisorie del montaggio finisce per mettere in satira un argomento che per le autorità svizzere era evidentemente un tabù!

Non possiamo smettere di sperare

dal film “Ormenis 199+69”

Infine merita senz’altro una segnalazione il numero 107 della rivista Mondo Niovo, diretta da Davide Mazzocco per AMNC, con una lunga e bellissima intervista a Markus Imhoof a cura di Valentina Noya e Vittorio Sclaverani: a tutti gli effetti  la prima monografia dedicata al regista svizzero, con contributi e testimonianze di amici e collaboratori tra cui Maud Corino, Raffaele Falcone, Marco Tullio Giordana, Peter Indergand, Stefan Jäger, Judith Kennel, Dieter Kosslick, Pierre-Alain Meier, Isis Rampf, Antonia Whalter, Martin Wiebel e Maurizio Zaccaro.


 

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