Tecnologia è Umanità

Tecnologia è Umanità. Dalla spada all’aratro. Tecnologia e pace

Enzo Ferrara

Biennale Tecnologia 2022 – Tecnologia è Umanità

Dalla spada all’aratro. Tecnologia e pace

venerdì 11 novembre alle ore 18 in sala Poli

https://serenoregis.org/evento/labc-della-pace-scienza-e-tecnologia/

e sabato, 12 Novembre 2022 – 10:00, nell’ambito della Biennale Tecnologia
Sala “Emma Strada” – Politecnico di Torino – Corso Duca degli Abruzzi 24.

Incontri organizzati dal Centro Studi Sereno Regis, con Francesca Farruggia (Università La Sapienza Roma e Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo), Norberto Patrignani (Politecnico di Torino e International Federation for Information Processing), Guglielmo Tamburrini (Università Federico II di Napoli e Unione Scienziati per il disarmo), modera Enzo Ferrara (Centro Studi Sereno Regis)


Ci troveremo al Politecnico con l’ambizione di tenere insieme i punti di vista di più realtà che manifestano e si battono in questi giorni per denunciare la scelleratezza degli sviluppi tecnologici legati alla produzione e al commercio di armamenti.

Dai collettivi portuali che denunciano nei moli del Mediterraneo il passaggio dei carichi di armi destinate a paesi dittatoriali o – peggio ancora – coinvolti in conflitti di repressione, ai gruppi anarchici che manifestano contro le kermesse che fanno vetrina degli strumenti di morte vantandone efficienza ed efficacia, agli abitanti della Sardegna che protestano per l’uso del loro territorio per la produzione di ordigni bellici e la sperimentazione di tecnologie militari fino ai confratelli e alle consorelle di tante fedi che sostengono l’obiezione di coscienza e non accettano di entrare a far parte degli eserciti di nessuna nazione, agli studiosi e semplici cittadini che credono nel mandato definito all’articolo 11 della nostra carta costituzionale:

L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

Non ricordiamo e non saremmo capaci di formulare un migliore modo d’intendere l’indirizzo geopolitico internazionale del nostro paese.

La metafora che abbiamo scelto come titolo di questo incontro rimanda alla profezia di Isaia sulla pace perpetua tratta dall’Antico Testamento “Spezzeranno le loro spade per farne aratri, trasformeranno le loro lance in falci. Una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra. (Isaia 2, 4)”. Non è una banalizzazione, perfino presso il palazzo delle Nazione Unite a New York – vicino alla più nota riproduzione bronzea della pistola con la canna annodata, (una Colt Python 357 Magnum) simbolo della nonviolenza, opera dello scultore svedese Carl Fredrik Reutersward realizzata dopo l’assassinio del suo amico John Lennon – sorge una statua in bronzo creata dallo scultore sovietico Jewgeni Wutschetitsch, donata all’ONU nel 1959 dall’URSS, che rappresenta esattamente un fabbro al lavoro per trasformare una spada in un aratro.

È un modo molto efficace per significare la doppiezza insita in quasi ogni strumento o sviluppo tecnologico. Non c’è infatti tecnologia che non possa avere un doppio uso, uno in tempo di pace e uno in tempo di guerra, e mentre cresce la pervasività del sistema tecnico – dell’informatica soprattutto, che si presta a usi ambigui – non c’è ga­ranzia del suo controllo, a causa dei limiti della conoscenza. Unica base per una vera tecnologia di pace è l’autenticazione partecipata dei suoi sviluppi, se soddisfa bisogni umani, individuali e collettivi.

La necessità della partecipazione nella sua costruzione è insita nel significato stesso della scienza, che non è tale e rimane solo il pensiero di un singolo o di un gruppo fino a che non è apertamente condivisa e replicata. La presunzione di neutralità della scienza è invece un falso dogma: è come la volontà – o pretesa – di non occuparsi di politica, scelta che in sostanza implica il fare politica per il mantenimento dello status quo. Neppure la posizione di neutralità in campo scientifico e tecnologico rappresenta una modalità di posizionamento moderato – oltretutto la moderazione, lo sappiamo almeno dagli insegnamenti di Lorenzo Milani, non è certo una virtù in situazioni di ingiustizia – o equidistante fra scelte alternative; la posizione di neutralità è più simile a un comportamento omertoso (di fronte alle tante contro-produttività generate dal sistema tecnologico) e somiglia alla rinuncia di assunzione di responsabilità – secondo Jacques Ellul, tale rinuncia rimanda alla scelta di Esaù (figlio di Isacco, fratello gemello maggiore di Giacobbe) che come è narrato nel libro della Genesi, rinunciò alla primogenitura per un piatto di lenticchie.

Per quanto concerne il suo coinvolgimento nella guerra, la scienza nei suoi freddi tecnicismi non ha spazio per porsi dubbi sulla sua effettiva necessità e legittimità, si pone al massimo questioni sui limiti della sua giustezza e sulle modalità corrette di condurla. Non è questo il percorso che ci interessa seguire né sappiamo dove porti; sicuramente non porta alla conservazione del connubio fra tecnologia e umanità che questa edizione della biennale sostiene, perché per arrivare alla meta di questo percorso dovremmo prima decidere – per esempio – cosa sono e come si distinguono gli eserciti regolari da quelli irregolari, se anche questi ultimi siano autorizzati a fare la guerra o no e con quali armi, e dovremmo anche stabilire fino a che punto sia possibile coinvolgere civili in un’azione di guerra, sapendo che la risposta razionale a quest’ultima domanda è che il numero delle vittime collaterali sacrificabili dipende dell’importanza dell’obiettivo – come hanno dimostrato i bombardamenti su Hiroshima e Nagasaki.

Non è infatti quello della scienza l’ambito entro cui si decidono le dichiarazioni di guerra o i trattati di pace, anche se gli scienziati possono dare un grande contributo nell’una o nell’altra direzione quando escono dal loro campo di studi e intervengono del dibattito politico-filosofico per contribuire a chiarire concetti controversi.

Per questo è sbagliato pretendere invece che la scienza possa schierarsi direttamente sul suo terreno (non fuori da questo) a favore dell’intervento bellico con i suoi propri contributi di precisione, accuratezza, capacità di scelta intelligente attribuiti impropriamente a ordigni e tecnologie di guerra: le bombe smart, i droni autonomi capaci di riconoscere e distinguere gli amici dai nemici, aerei da caccia come gli F35 sostenuti (assieme ai droni) da una rete informatica diffusa su scala globale che raccoglie informazioni sui movimenti nei territori di conflitto rendendo la guerra di fatto net-centrica, e cioè fondata su dati forniti da un sistema di controllo che consente di ridurre i tempi del processo decisionale, spostandone tuttavia la responsabilità dall’uomo alla macchina. E

d è comunque un’illusione – un inganno – che l’uso della tecnologia, dei droni, dei robot-killer, possa portare a una riduzione delle vittime collaterali quando invece comporta un’ulteriore pervasione della violenza nel quotidiano e confonde gli scenari di pace e di battaglia rendendo ancora di più vera l’affermazione – come è sempre – che ogni guerra è infine una guerra civile.

Ci sembra insomma che la soluzione della diade fra tecnologia e pace vada ricercata non all’interno del mondo tecnologico, ma al suo esterno nel sistema di valori che la società tecnologica sottende – si tratterebbe comunque di un riconoscimento di limiti, anche questo è un concetto quasi ossimorico per la tecnologia contemporanea che sembra persa dietro scenari più di fantascienza che di scienza, per la loro insostenibilità, che si tratti di imprese spaziali, di ricerche nel campo nucleare, di bio- e nano-tecnologie applicate ai campi della biologia, della salute e dell’ambiente.

Detto questo, occorre anche vedere il mondo com’è ora, mentre si osserva un’impennata degli investimenti in armi, che sembra non avere fine. La spesa militare globale totale è infatti aumentata dello 0,7% in termini assoluti nel 2021, fino a raggiungere i 2.113 miliardi di dollari. I cinque Stati che hanno speso di più nel 2021 sono USA, Cina, India, Regno Unito e Russia, che insieme rappresentano il 62 % della spesa, secondo i nuovi dati sulla spesa militare globale pubblicati il 25 aprile 2022 dallo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI).

L’aratro e la spada sono stati citati, ahinoi, anche da Benito Mussolini, il 18 dicembre 1934, durante l’inaugurazione della città di Littoria (ora Latina) dopo le bonifiche nell’Agro Pontino – principalmente un’operazione di propaganda perché gran parte dei progetti non furono mai realizzati, come spiega Internazionale (Numero 1485 del 4 novembre 2022).

Perché questa gigantesca opera non sia turbata o interrotta, è necessario, o Camicie Nere, o Combattenti, è necessario che la Nazione sia fortissima nelle sue armi. Poiché è l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende. E il vomere e la lama sono entrambi di acciaio temprato come la fede dei nostri cuori.

Tralasciamo di commentare la rozzezza, la genericità e l’infantilismo che trasudano da queste parole, va tuttavia precisato che nessuno si illude di poter fare a meno di un sistema di difesa per gli stati moderni, la discussione verte sulle forme e sugli strumenti di cui dovrebbe dotarsi un tale sistema. Certamente, se non tutto il ferro può andare negli aratri, nemmeno è concepibile che vi siano solo spade a sostenere la vitalità di una nazione. Eppure, anche in Italia, mentre diminuiscono le spese di sostegno per la sanità, l’agricoltura e l’educazione aumenta costantemente la spesa militare. Di questa una parte sempre più consistente, circa 5 miliardi di dollari nel 2021 su scala mondiale, è dedicata alle armi “unmanned” (non controllate da esseri umani) principalmente costituite da droni, velivoli relativamente piccoli e poco pesanti, privi di pilota, il cui controllo avviene da remoto – anche da migliaia di km di distanza – con autonomia e armamenti sufficienti e mirati per il compimento di una missione. I loro nomi sono indicativi della loro letalità: predator, reaper (falciatrice), avenger (vendicatore), così come del loro compito, difficilmente riconducibile direttamente all’ambito della pace.

Fra i droni, gli sviluppi più consistenti riguardano quelli a guida autonoma o semiautonoma per i quali il sistema net-centrico sopra citato è elemento essenziale, così come è essenziale interrogarsi – tornando al tema di questa Biennale Tecnologia 2022 – sul contenuto (residuo) di umanità di queste tecnologie, sui rischi connessi al loro impiego e in forma così massiccia, oltre che sulla distanza che queste hanno rispetto alla transizione verso la cosiddetta “singolarità tecnologica”, il momento in cui la tecnologia si distacca dall’umano e si avvia autonomamente lungo una propria strada.

Per queste ragioni ci siamo rivolti a Francesca Farruggia (docente di Sociologia dell’inclusione e della sicurezza alla Sapienza (Roma) e segretaria generale dell’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo, studiosa di sicurezza interna ed internazionale, della post-modernità e dei micro-conflitti inclusi quelli nel contesto migratorio), Norberto Patrignani (docente di Computer Ethics alla Scuola di Dottorato del Politecnico di Torino, rappresentante nazionale italiano al TC9-Technology and Society dell’International Federation for Information Processing – IFIP), e Guglielmo Tamburrini (docente di Filosofia della scienza e della tecnologia all’Università Federico II di Napoli, componente dell’International Committee for Robot Arms Control-ICRAC e del Consiglio scientifico dell’Unione degli Scienziati per il Disarmo- USPID, vincitore del Premio Internazionale Giulio Preti nel 2014 per il suo lavoro di ricerca sull’etica della robotica e dell’intelligenza artificiale).

Un’ultima annotazione riguarda la citazione forse più rilevante della metafora della spada e dell’aratro, ricordata dal 34° presidente degli Stati Uniti (1953 – 1961), Dwight David Eisenhower – il generale Ike già comandante dell’armata Alleata durante lo sbarco in Normandia e nell’ultimo triennio della seconda guerra mondiale – nel suo discorso di commiato quando il 17 gennaio 1961 lasciò la Casa Bianca a John Fitzgerald Kennedy. Eisenhower aveva già rivolto due memorabili discorsi alla sua nazione: Atoms for Peace l’8 dicembre 1953, aprendo al mondo l’uso dell’energia nucleare per usi civili – ma solo dopo che anche l’Unione Sovietica era arrivata a produrre ordigni nucleari – e The Chance for Peace, il 16 aprile 1953, poche settimane dopo la morte di Joseph Stalin. L’ultimo discorso è noto soprattutto per i riferimenti al Complesso militare-industriale.

“Fino all’ultimo dei nostri conflitti mondiali – affermò in quell’occasione Eisenhower, mentre era ancora per tre giorni presidente della più possente nazione del mondo – gli Stati Uniti non avevano industria degli armamenti. I fabbricanti americani di vomeri potevano, con il tempo e quanto basta, anche fabbricare spade. Ma non possiamo più rischiare l’improvvisazione di emergenza della difesa nazionale. Siamo stati costretti a creare un’industria di armamenti permanente di vaste proporzioni. Inoltre, tre milioni e mezzo di uomini e donne sono direttamente coinvolti nell‘establishment della difesa. Ogni anno spendiamo solo per la sicurezza militare più del reddito netto di tutte le società degli Stati Uniti. Ora questa unione di un immenso stabilimento militare e di una grande industria di armi è nuova nell’esperienza americana. L’influenza totale – economica, politica, persino spirituale – si fa sentire in ogni città, ogni amministrazione, ogni ufficio del governo federale. Riconosciamo la necessità imperativa di questo sviluppo. Tuttavia, non dobbiamo mancare di comprendere le sue gravi implicazioni. Sono coinvolti il ??nostro lavoro, le nostre risorse e il nostro sostentamento. Così è la struttura stessa della nostra società.

Nei consigli di governo, dobbiamo guardarci dall’acquisizione di un’influenza ingiustificata, cercata o meno, dal complesso militare-industriale. Il potenziale per il disastroso aumento del potere fuori luogo esiste e persisterà. Non dobbiamo mai lasciare che il peso di questa combinazione metta in pericolo le nostre libertà o i processi democratici. Non dovremmo dare nulla per scontato. Solo una cittadinanza attenta e ben informata può obbligare a unire adeguatamente l’enorme apparato di difesa industriale e militare con i nostri metodi e obiettivi pacifici, in modo che la sicurezza e la libertà possano prosperare insieme.”

Ci sono in queste parole sufficienti indicazioni per ripensare a quanto sia evoluto oggi il complesso militare-industriale anche nel nostro piccolo paese, e quanto sia forte e pervasiva la sua influenza nelle nostre società, nel lavoro quotidiano, nelle ripercussioni sull’ambiente, nel controllo geopolitico di risorse strategiche e, certamente, anche nell’immaginario, come esattamente aveva denunciato un importante presidente ed ex-generale che aveva svolto un ruolo decisivo per la sconfitta di Hitler e del Nazismo.

Tuttavia, poiché ci troveremo non in una caserma, ma in un luogo dedicato allo sviluppo della ricerca teorica e sperimentale e all’insegnamento di scienza e tecnologia, risulta ancor più adatto un riferimento al passaggio successivo che Eisenhower inserì in quel suo ultimo discorso e che risulterà utile ricordare:

Lo stesso è accaduto – aggiunse Eisenhower – per la rivoluzione tecnologica degli ultimi decenni largamente responsabile per i radicali mutamenti avvenuti nella nostra impostazione industriale-militare. In questa rivoluzione, la ricerca è diventata centrale; ed è anche diventata più burocratizzata, complessa e costosa. Una consistente sua parte è condotta per, da, o sotto la direzione del Governo Federale. Oggi, la figura dell’inventore solitario, che si salda gli strumenti nel proprio studio, è stata eclissata da una schiera di scienziati che lavorano in gruppo nei laboratori e verificano operativamente il loro lavoro. Allo steso modo, la libera università, che è stata storicamente fonte di idee nuove e di scoperte scientifiche, ha vissuto una rivoluzione anche nel modo di fare ricerca. In parte a causa degli enormi costi coinvolti, un contratto governativo diventa in definitiva il sostituto della curiosità intellettuale. Per ogni vecchia lavagna ci sono ora centinaia di nuovi calcolatori elettronici.

La possibilità di controllo dei ricercatori del nostro paese grazie a un contratto federale, allo stanziamento di risorse, e al potere economico è sempre più presente e va considerato seriamente.

E tuttavia, nel mostrare rispetto verso la ricerca e le scoperte scientifiche, come dovremmo, abbiamo anche il dovere di vigilare sul pericolo eguale e opposto che la politica pubblica possa essa stessa diventare prigioniera di una élite scientifico-tecnologica.

È compito delle istituzioni politiche modellare, bilanciare e integrare queste e altre forze, vecchie e nuove, entro i principi del nostro sistema democratico – sempre guardando ai migliori obiettivi della nostra libera società.


 

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