Architettura di un rito. L’ultima manifestazione ambientale prima delle elezioni

Mirko Vercelli

El topo accompagna il figlio nudo nel deserto. Gli porge dalla sacca sgualcita un peluche e una cornice. Freddo gli comanda “Oggi compi sette anni, ormai sei un uomo. Sotterra il tuo primo giocattolo e il ritratto di tua madre.”

Guardandolo bene, il rito è sempre espressione inconscia della condizione politica. Dice molto più di quanto l’occhio possa vedere: movimenti, pratiche, parole normate feriscono il sottile velo e scoprono sogni, paure e desideri nascosti. 26.918.577.693.

Niente di troppo complesso. In questo senso, potremmo definire il rito come una forza, attiva, per il mantenimento e la creazione della nostra identità sociale. Forme che sembrano ripetitive e codificate, che la psicologia attribuirebbe a tratti nevrotico-ossessivi, sono invece indizi della nostra identità; i comportamenti quotidiani come, caso esemplare del contemporaneo, verificare d’aver chiuso il gas prima di uscire di casa o scendere in piazza per protestare. 26.918.628.438.

A voler riprendere le parole di De Martino, il rito serve ad affrontare la personale (e in una certa misura, sociale – con buona di Max Stirner) “crisi della presenza” che si avverte di fronte alla natura, quando viene minacciata la vita stessa. S’affidano al rito i momenti di angoscia derivati da periodi di disorientamento, i momenti di passaggio, ad esempio la fine dell’adolescenza o un nuovo governo di destra. 26.918.873.123.

Cartelli che guardano il cielo, la terra, che sorridono ai fotografi, cartelli confusi, rivolti l’uno all’altro, che parlano fra di loro senza alcun osservatore umano, cartelli che girano su sé stessi in cerca di un contestato e riflettono la confusione e lo smarrimento di un gruppetto di giovani in piazza che in silenzio a braccia conserte osserva sottecchi i compagni di piazza (la stessa piazza): compagni di cosa? Sui loro volti non c’è gioia, conseguentemente, sulle loro mani non c’è rivoluzione. Tra di loro s’aggirano sparuti attivisti d’altre cause che più che supporto, fanno stanco proselitismo, per una comune hippie, per un collettivo veteromarxista, per Legambiente o della cauta propaganda elettorale. Viviamo un miliardo di anni prima della fine del mondo, ma non sono più i fratelli Strugackij, ma la dimensione che dà forma alle nostre parole, alle nostre azioni, alle nostre danze. 27,195,292,473.

Vi interessa una prospettiva marxista sull’ambiente? Vi interessa una prospettiva marxista sull’ambiente? Vi interessa una prospettiva marxista sull’ambiente? Prova senza successo un giovane con un ciclostilato in odore di ‘68 sottobraccio. No, evidentemente non interessa a nessuno e sparisce nella coltre ripetendo il suo mantra. Primini, liceali, primi universitari, coraggiosi medi dispersi nel sottobosco cartellonistico e qualche mostro fotogenico. Another one bites a dust di sottofondo. Lavoratori del teatro posizionano uno striscione e fanno la foto per i colleghi che non hanno potuto esserci. Poi lo ripongono. Vedo in loro il futuro, non il futuro che vorrei, ma l’immenso smarrimento di una generazione che sente la violenza, sui corpi e sulla natura e non sa come reagire. Unita dai meme, dai giochi di parole, da una sfumatura, ma se si combatte ciò che non si vede con qualcosa che non si vede chi può dire che succeda qualcosa? Se un albero cade nella foresta e nessuno lo sente, non fa rumore, ma qua di alberi ne stanno cadendo troppi e il nostro rumore è un chiaccericcio silenzioso stamattina. Quattro blindati. 27,195,456,142.

Siamo tutti sotto al monumento del traforo, al Lucifero impietoso, fermi da un’ora, in completo silenzio. In piazza Statuto, spiazza staticità. Qualcuno fa partire cori che restano sospesi e inascoltati. Una nuova forma di coro che prevede che sia solo una persona a cantarlo e che si fermi a metà quando ha la conferma di essere, effettivamente, solo. Dal fondo, coi pugni alzati a illuderci beati che uniti non saremmo mai sconfitti. Per le strade non c’è nessuno oltre a noi. Noi che i testi ci dicevano che la potenza dell’unione è nell’azione, noi che in fondo sappiamo che non fare niente tutti assieme ci rende per il sistema più facili da soggiogare, da inglobare, noi che abbiamo nel rito dell’unione la sola consolazione e mentre la cronaca dell’alternanza scuola-lavoro diventa sempre più nera, noi a ripeterci il salmo da mattina a sera, che uniti non saremo mai sconfitti e sembra l’ultimo grido del fucilato, l’ultima sigaretta del condannato a morte.  27,195,693,624.

Eccoci, i figli dei fiori di plastica. Noi che ci compiacciamo di non essere respinti dalla polizia. Eppure, la storia lo insegna chiaramente: nessuno si sognerebbe mai di cancellare un movimento. Non credo esista governo al mondo di questo avviso. Lo si vuole solo controllare. Per questo quando il questore blocca il corteo autorizzato e gli intima di cambiare strada, la soddisfazione è doppia. Del potere di averlo addomesticato, degli attivisti di credersi non-violenti. 27,195,782,327

Voto con coscienza o voto contro scienza. Questa nuova razza di attivisti, che col favore del mercato forse dovremmo chiamare broiler, che ha superato la batteria, per riuscire a creare l’individualismo di piazza: il suo corpo da attivista si è sviluppato in fretta, troppo in fretta, per fattori ambientali (letteralmente) e di necessità, sia chiaro, ma il corpo teorico non ha avuto tempo di seguirlo in egual misura e ora fatica a reggerne il peso della responsabilità. Mentre fai un’azione ti chiedi, come la descriveranno i giornali? Ogni coro sarà un mattone, ogni fiore una molotov, ma alcuni chiacchierano con la Digos, chiedono indicazioni sul tragitto, il permesso di passare, non fanno nomi di responsabili, di colpevoli, di contestati. È una contestazione che lamenta l’attuale stato delle cose e chiede ai colpevoli d’esser meno colpevoli. Abbastanza, perlomeno, da non farsi notare. Sotterra il tuo giocattolo e il ritratto di tua madre. Ma se l’obiettivo era non dare niente da stravolgere ai giornalisti, allora ci s’è riuscito. Ci penseranno poi i lettori a stravolgere comunque. The world is getting hotter than inserire icona pop giovanile. E dopo scegliere tra le fine del mese e la fine del mondo. Una cassa dritta esplode lontana, musica senza parole. Senza parole. Quella è la bandiera della Palestina? Cerca sul telefono, dice il sindacalista di UIL. Cercano, è davvero la bandiera della Palestina. Bravo Fabio, gli fa il compagno. 27,195,833,332.

Le donne vivono lo stesso stupro che avviene sul pianeta, dicono al microfono. È vero e c’è molto più amaro di quanto possa sembrare. Che poi sembra, ma è anche peggio. Il tempo è scaduto, solo per noi, dice un anziano barcollante come nella marcia dei pinguini. E la morte è presente in piazza, la morte sul lavoro, la morte nella scuola, ma è un’icona medievale che danza, forse è vestita e sta in piazza con noi con un cartello “meno cannucce, più canne” e si autoesorcizza perché teme un giorno d’aver troppo lavoro. Qualcuno scarica il cartello pesante al compagno con le mani libere, Ponzio Pilato del braccio debole. Qualcuno, sul cartello, ha il tag di Instagram, finalmente nell’apogeo anti sistemico, c’è chi lotta per vendere se stesso. Sotterra il tuo giocattolo e il ritratto di tua madre. Il giorno prima sono stato a una formazione di un movimento ambientalista, qui presente, che metterebbe i dati scientifici alla base delle loro azioni. Quando gli faccio notare che i dati che stanno promulgando sono distorti ed errati, mi viene risposto che “ci sono cose più importanti della teoria, come la pratica”. Il capolavoro dei governi tecnici. E proprio come hanno insegnato i governi tecnici, la pratica la dichiari fondamentale, però poi non la metti mai in chiaro. 27,195,889,183.

Ho visto un’altra vita e non era nelle scarpe, nei cartelli, dei ragazzi. Era nei loro occhi. Correva più lontano della testa del corteo e ballava sulle foglie dei controviali, voleva il cielo e forse ci si nascondeva. Poi, l’epifania infame. Siamo solo studenti. Dove si nascondono i lavoratori? Dove hanno nascosto la loro altra vita? E quest’energia quanto durerà? Ci accontenteremo di qualche soluzione velleitaria e digerita? Smetteremo con l’iscrizione a LinkedIn, a Indeed? Festeggeremo da sconfitti? O semplicemente proseguiremo il rito fino a che non sarà più possibile farlo?  Sono un asino di Buridano. C’è che so che non voglio sparisca dal mio cuore anche il più piccolo ideale che in questo momento sta morendo di terrore. 27,195,896,485.

Il giorno prima, su un autobus, sento dei liceali parlare della marcia. Inizialmente discutono col pragmatismo tipico dell’adolescenza: saltiamo un giorno di scuola. Alla fine, convengono tutti che è meglio far lezione per non dover recuperare gli appunti. L’ultimo rimasto, ormai socio di minoranza alla partecipata extra-scolastica, si difende “Io andrò, perché mia madre mi costringe”. La situazione è surreale, per un attimo, solo per un attimo, mi convinco di essere in un articolo di Feltri. E invece a volte la realtà è anche peggio del giornale per incartare il pesce. Pasolini diceva che in ogni disperazione c’è una punta di speranza e qui che la speranza è un’ideologia, qui che figlia con l’ingenuità borghese, quanto dovrebbe essere grande la disperazione? E poi penso all’ultima marcia. L’ultima marcia prima di un governo di estrema destra. Come si marcerà prima di vincere? Sapendo di star scrivendo la storia? Sapendo di starla cancellando? Come si camminerà all’ultimo corteo prima che ci arrendiamo? Ci stiamo muovendo, ma forse abbiamo già smesso di camminare. La vincita della destra produrrà giovani partigiani del liberismo democratico? Brigatisti del PD? Davvero siamo così vulnerabili alla comunicazione e così poco a uno sguardo? The wrong amazon is burning, recita un cartello. Mi fa sorridere. La finestra di Overton lascia spifferi angusti ai pochi che si ricordano d’essere qui mentre ci sono, nemmeno noi sentiamo necessaria una risposta politica e ideologica, non sentiamo la cogenza del problema o avremmo quanto meno cercato una risposta: noi si scende in piazza sentendoci i giusti perché sappiamo che potremmo anche non essere qui, che è facoltativo, un lusso che ci consentiamo in quanto buoni. A chi non può venire, abbiamo già rinunciato ad arrivare. Scendi giù, scendi giù, manifesta pure tu. 27,195,935,758.

Come ritrovare il potere sociale? Se l’unico modo per essere massa è scendere in piazza, ci rendiamo conto presto sotto i cartelli che non riusciamo a superare la nostra pelle. Atomizzati nella concezione monolitica di noi stessi la nostra massima ambizione è di agire tutti insieme da individui auspicando che per un attimo ci sembri d’essere “società”, ma evidentemente abbiamo dimenticato i nostri scheletri nell’armadio. Non c’è parola che sia sincera, non c’è frase che non sia slogan. Non c’è azione che non si marketing. E come possiamo salvare il mondo se non riusciamo a collegarci in quanto umani? È la base del rito collettivo. Il rito, i cui contorni sono una forma di elaborazione, prima o poi crollerà se non resta altro che il gesto stanco e inconsulto. Con i riti o senza i riti, in un modo o nell’altro e in questo caso nel modo consapevole e più coattivo, la ripetizione vince sempre. Ma vince su di noi. “Fischia il vento” suona mentre il corteo, arreso, si allontana dalla polizia che ha bloccato la strada e dalla Mole Antonelliana. Evidentemente il vento, almeno fino ad oggi, è uno spiffero.

27,195,978,023. Non sono numeri casuali. Ma la quantità, in tonnellate, di CO2 emessa quest’anno, da quando ho iniziato a scrivere l’articolo a quando l’ho finito.

La talpa è un animale che scava gallerie sottoterra. In cerca del sole, a volte la strada lo porta in superficie. Quando vede il sole, resta cieco.


Ringrazio il poeta e amico Francesco Callegaro per la sua compagnia e le sue suggestioni durante il corteo.

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