La fine del mondo sta arrivando, mamma, butta la pasta | Parte Seconda

Mirko Vercelli

Nella quale si prova a rispondere alle prime domande

“Vi conosco abbastanza per poter dire che non esiste una sola grande industria sulla Terra, nessuna organizzazione di alcun tipo, non la mia, non la vostra, nessuna, che sia sostenibile. Sono colpevole di aver saccheggiato la Terra, in base al mio giudizio e non ai parametri della nostra civiltà. Seconda la definizione della nostra civiltà io sono un capitano d’industria, una specie di eroe moderno. Ma io sono convinto che la prima rivoluzione industriale abbia fallito. Non funziona. Non è sostenibile.”
Ray Anderson, Discorso ai leader politici e dell’industria del North Carolina.

La parola fallimento deriva dal latino fallere, deludere o tradire. La prima parte di questa riflessione chiudeva con un invito.

Se non si vogliono ripetere gli stessi errori del passato sarà importante farne esperienza. Sarà importante riconoscere i nostri fallimenti per non restare delusi in futuro. Perché il movimento no-global fallì? La risposta ovviamente non può essere univoca e qualsiasi riduzione a un singolo grande fattore sarebbe fuorviante. Si trattava del primo grande movimento mondiale che non chiedeva niente per se stesso, come si diceva allora. Era di massa, dal basso, collettivo, pacifico, creativo, scientifico e filosofico. E in quanto tale intervennero infiniti fattori dalle dimensioni diverse, ma tutti dal peso incalcolabile che ne decretarono prima il successo e poi il collasso su se stesso. Quello che si può fare, però, è di ricavarne delle lezioni senza promessa d’esser esaustive.

Era il 2001. Suore, madri, studenti, operai, comunisti e ambientalisti erano tutti dalla stessa parte: ribaltare lo strapotere di corporazioni e multinazionali e vincere per la tutela dell’ambiente, contro discriminazioni e disuguaglianze di reddito e genere, per una ridistribuzione della ricchezza. Come andò a finire è noto a tutti ed è inutile ribadire la sospensione dello stato di diritto che venne sistematicamente attuata dalle sfere alte sino a quelle più basse. Torture, corruzione, abusi, infiltraggi, violenza squadrista, la morte di Carlo e tutto il resto non devono essere giustificazioni per una sconfitta.

Non ci sarà movimento per il cambiamento che non andrà incontro a una forte repressione e il movimento ambientalista pacifico degli Ijaw con i suoi duecento morti e gli Ogoni con le migliaia di uccisi e torturati ce lo ricordano chiaramente. Ma cos’è che ha portato un’ondata popolare che sembrava inarrestabile, capace di portare centinaia di migliaia di persone nella stessa città, di realizzare informazione dal basso, di creare infrastrutture e software decentralizzati, arte e nuove teorie filosofiche, di avanzare, con fantasia e scientificità, nuove proposte e immaginari, a spegnersi in soli tre giorni?

10, 100, 1000 fallere

Il primo punto è sicuramente lo straniamento e l’alienazione derivata dalla distanza che si creò tra governo (che in un caso d’emergenza come quello, diventa cabina operativa delle corporazioni) e opinione pubblica (si legga, il popolo). Molti attivisti credevano che attirando a sé l’attenzione del mondo, portando tutti dalla loro parte, avanzando proposte, i governi non avrebbero potuto fare a meno di ascoltarli. C’era il Forum sociale mondiale, le discussioni orizzontali, le formazioni e i pamphlet per allargare le cerchie e proprio quando il sostegno sembrava unanime, anche da parte degli inattivi, non successe niente. Questo non è certo qualcosa che si aspetta un movimento che percepisce di rappresentare tutti perché è logico che la rappresentanza politica segua ciò che vogliono oppure non verranno più rieletti. Eppure, è proprio quello che è successo.

Se è possibile per un governo ignorare proteste popolari, anche ampie, sapendo che comunque per la legge dei grandi numeri, almeno la metà degli elettori sarà dalla loro parte, allora farà così. Com’è successo nel 2003 con gli USA. Imponenti manifestazioni pacifiche contro la guerra preventiva degli Stati Uniti in Iraq, 600 città da tutto il mondo, oltre 14 milioni di partecipanti. Solo a Roma si contarono 3 milioni di dimostranti, una tra le manifestazioni più grandi di sempre. La guerra venne fatta comunque, appena un mese dopo.

Quando invece i profitti dello Stato (e con lui quello delle corporazioni) vengono seriamente minacciati, la repressione diventa violentissima e viene presentata come necessaria. Ogni protestante diventa un sovversivo e si grida alla pace e alla stabilità per una maggioranza silenziosa che è silente perché molto spesso, nemmeno esiste più. E anche se il vicino di casa è con te, ti convinci che ci siano tanti altri vicini, invisibili, contro di te. E semplicemente li lasci vincere di fronte alla tua impotenza. È quella falsa disillusione, che in realtà è un’illusione. Se nulla è cambiato quando tutti eravamo in piazza, allora nulla può cambiare. Eppure si era così vicini a bloccare il mondo. Serve resistere ad oltranza, ciò a cui punta la repressione non è uccidere qualche manifestante, ma infondere paura come forma di controllo, frustrazione, delusione e impotenza. La vittoria non arriverà con il primo passo, per quanto grande e maestoso potrà sembrarci, sarà sempre e comunque solo l’inizio del cammino. Per tornare all’etimologia dell’inizio, in questo caso il fallimento è stato delusione.

Si aggiunga poi, quello che accadde poco dopo. All’epoca del popolo di Seattle, gli unici temi all’ordine del giorno erano pacifismo, ecologismo, acqua pubblica, attenzione alle fonti di energia, approcci diversi alla povertà e alla diversità e cambiamento obbligato nello stile dei consumi. È facile dire che vennero spazzati via dai dibattiti l’11 settembre del 2001. Qualcuno asserisce che la venuta della guerra al terrore fece tabula rasa delle illusioni pacifiste e delle utopie arcobaleno per un mondo migliore e riportò tutto alla realtà.

Per filosofi come Zizek, è l’esatto contrario. Dalla coscienza e la presenza nel qui ed ora, dal possesso dei nostri corpi e delle nostre azioni, si entrò in un clima di terrorismo mediatico e immaginari da catastrofismo cinematografico, la materializzazione dei nostri incubi nella forma di un distacco dal presente, che da reale diventa un film a cui assistere dal salotto di casa. Questo, se unito alla delusione di tutti gli attivisti che avevano smosso il mondo, ma non erano stati in grado di cambiare le cose, portò a una totale disillusione (si legga, ancora, illusione) e alla resa. Tra le persone del Genoa Social Forum c’è chi oggi continua il suo impegno civile e chi lavora in banca, ma per entrambi è cambiato il sentimento di fondo percepito. La ciliegina finale dell’ideologia del realismo capitalista finora citata. La prima lezione è questa, quindi. Riprendere possesso del presente come coacerva di possibilità per plasmare un futuro ancora non scritto.

Echi dal futuro

Uno dei punti di forza del movimento erano sicuramente le strutture reticolari senza autorità centrali con gruppi di lavoro specifici, ma questo portò facilmente, proprio per questa autonomia a insicurezza sulle direzioni e dissidi interni, diverse realtà prima e dopo il G8 si ritirarono dalle manifestazioni e dalle rivendicazioni. Non c’è tempo per costruire e decostruire i movimenti all’infinito, una volta iniziato non bisognerà mai smettere di discutere con chi ha, in buona fede, interesse a perseguire gli stessi obiettivi con gli stessi principi. Indebolire così il progetto non è una mossa politica, ma uno spianare la strada all’insediamento della destra anti-mondialista, come poi fu. In questo caso, tornando ancora una volta all’etimologia, il fallimento fu tradimento.

Bisogna infine comprendere quanto indebolisca un movimento creare dei padri simbolici, tingere di messianico giovani puliti di buona volontà, così come forgiare un Grande Altro da attaccare. Non c’è un singolo nemico, non c’è un singolo responsabile, non è l’1% più ricco del mondo, per quanto siano anch’essi coinvolti. Bisogna restare ancorati al cambiamento del sistema. Questo perché, come ricorda la Klein su vent’anni di lotte a partire dai tempi del suo No Logo.

I movimenti non sono lineari, e non sono morti: si reincarnano, e imparano dai loro errori. Quali? Il primo è stato quello di fidarsi di figure messianiche, affidare a loro il cambiamento e tornarsene a casa. È successo con Obama, ad esempio. Ma il più importante è stato quello di avere detto molti ‘no’ senza avere dei ‘sì’ altrettanto convincenti. Alle persone non piace l’ingiustizia, la diseguaglianza, il riscaldamento globale: ma hanno paura dell’alternativa, se non è elaborata con cura.”

L’altra, con le aziende, per esempio, ripetendo sempre i nomi dei soliti noti crea la falsa percezione della mela marcia. Ovvero cercare singoli colpevoli e assolvere indirettamente tutti gli altri. Non c’è un modo di far impresa sostenibile nell’attuale sistema. E chi agisce in modo criminale deve cambiare tanto quanto chi rispetta i limiti imposti sulle emissioni. È il sistema stesso ad essere criminale, quindi l’unico obiettivo sarà cambiarlo, non mettersi a valutare in gradienti appositi la sostenibilità o il lato green di una corporazione. Questo darebbe quasi l’illusione che a rispettare le leggi si possa creare un capitalismo verde, un capitalismo etico. Cercare di cambiare l’intero impianto, oltre ad essere ovviamente più difficile, non vuol dire assolvere tutti. Eventuali processi pasoliniani verranno però dopo. Ci sono dirette responsabilità che non potranno essere giustificate semplicemente dal “seguivo gli ordini” o “lo facevano tutti”. Ci sono dirigenti e azionisti in questo momento che stanno combattendo apertamente, direttamente e senza campo ad ogni cambiamento per la salvezza del pianeta. Ma dipingere una nemesi da cinecomic Marvel, cui attribuire ogni male, sarebbe un nuovo tallone d’Achille.

A vent’anni di distanza, siamo tutti d’accordo, per citare i Linea 77, avevamo ragione noi. Eppure i diritti delle minoranze sono diventati utile campagna di reclutamento per schiavi del lavoro, sfruttati e sottopagati nell’indifferenza generale. L’ambientalismo che fu punta di diamante delle lotte alle multinazionali è diventato la spada di Damocle che esse hanno sull’intera popolazione, creando per giunta una paradossale frattura tra chi si oppone completamente al concetto di salvaguardia dell’ambiente e chi invece ne è assuefatto totalmente, ma solo nel senso voluto da chi lo ha già devastato per i propri interessi. La “rivoluzione verde”, la rinascita ambientale, ora, non può prescindere dal suo omicida. E ormai sembra tutto perso perché il futuro è già accaduto. Ancora una volta, niente di tutto questo è deciso, è una profezia che si auto-avvera nel crederci. La rivoluzione è prima di tutto un cambio di pensiero e prospettive che rendono possibili le azioni.

Que voy a hacer, je ne sais pas

Proprio per questo, bisogna aggiungere come alcune frange del movimento confusero la non-violenza con l’ininfluenza o la non-azione. Tra le 1187 sigle che aderirono al Social Forum (una grandissima vittoria) ci fu chi negli anni a seguire si allontanò anche per questo. La non-violenza è un principio fondamentale ben chiaro, in passato forse ancora più sentito e pensato, che portò addirittura le guerre a dover essere definite “umanitarie” (uno degli omaggi del vizio alla virtù) per cercare di essere accettate. E ha degli strumenti ben chiari come l’esempio, l’educazione, la potenza dell’inermità, la fiducia reciproca, tutte cose che richiedono una prossimità fisica e mentale e che da allora si cerca programmaticamente di smontare definendo la parte opposta “terrorista”, il nemico assoluto prescritto al culto della morte con il quale non si può discutere. Vuol dire non rinunciare al conflitto, ma aprirlo e affrontarlo con soluzioni in cui nessuno sia danneggiato, umiliato o ferito. Non germoglia negli interstizi lasciati liberi dal potere (nessuno reagisce violentemente se faccio quest’azione dimostrativa, allora è non-violenta, si potrebbe convincere qualcuno), ma li affronta: non dipende dalla benevolenza delle aziende, dello Stato o della polizia, ma li costringe semmai ad essere benevoli, non lasciare scelta tra il massacro e la trattativa.

Dev’essere ovviamente organizzata e programmata, per non ripetere all’infinito la battaglia di Beanfield. Non è solo una pratica politica da scegliere perché più efficace tecnicamente o perché attira più attivisti, come si dovesse fare un’analisi di mercato per un brand. Vorrebbe forse dire che nel caso in cui la violenza funzionasse di più allora sarebbe la strada da percorrere? La non-violenza è un modello relazionale fra gruppi e singoli, fondamentale se si vuole mantenere l’equilibrio con la natura. Non è equidistanza rispetto alle ingiustizie, ma ascolto interno. Non è dogmatica, come notava Gandhi, ma si adatta in base ai contesti e alla necessità di salvare la vita. Non è codardia, né la strada più semplice, anzi, richiede pazienza, mitezza e molto più coraggio della violenza, perché non può rispondere alla ferocia altrui con altrettanta ferocia. Ma non vuol dire che non possa essere azione strutturata e tesa ad una reazione o una conseguenza. Che non possa essere rabbia. Anzi. Questo è un altro punto importante da affrontare e del quale prendere coscienza per strutturare azioni che sappiano trasmettere un messaggio, ma che sappiano anche essere attive e influenti.

Un’altra debolezza fu affidarsi alla transitorietà dei vertici, ritrovandosi con cadenze programmate che negli anni portarono sempre meno gente in piazza, una cosa che si ritrova anche in certi movimenti ambientalisti attuali, ma che fu superata per esempio da Occupy Wall Streeet che optò invece per l’occupazione di luoghi simbolo, trasformando la mobilitazione in permanente. L’idea di una rivoluzione che una volta iniziata è in cammino costante e perpetuo e non che sporadicamente riappare a intermittenza nel corso dell’anno, è il successivo sentimento da instaurare.

Sia nel caso del movimento di Seattle che di Occupy Wall Street, un altro punto a favore, non fu esigere delle rinunce o dei passi indietro (o quantomeno, non presentarli così), ma cavalcare l’indignazione e il malcontento popolare per le promesse non mantenute che le politiche neoliberali avevano creato. Emozionalizzare le istanze è un obiettivo che si può raggiungere solo coinvolgendo tra le potenziali vittime ogni partecipante. E deve derivare non da scenari futuri, ma da panorami attuali. Serve, però, giustamente, sfruttare queste emozioni altrimenti incontenibili, ancorandole saldamente a piattaforme concrete e soluzioni, vie scientifiche e filosoficamente giustificate. Questo perché si rischia che l’approccio millenaristico del “non c’è più tempo, il clima sta collassando”, “ritardo significa morte”, nonostante le solide basi scientifiche, venga liquidato sbrigativamente come emotivo ed irrazionale. Per concludere, vengono vinte piccole battaglie ovunque, ma la verità è che stiamo perdendo la guerra. Non vediamo un futuro e per chi lo vede, il futuro è nero. Ciò che avevano i movimenti passati era fantasia, verso il proprio futuro, verso il nostro futuro. La rivoluzione sarà fantasia. E se non si balla, non sarà la nostra rivoluzione.

Que voy a hacer, je suis perdu

Il nostro è un periodo in cui le energie stanno lentamente risorgendo, in cui le coscienze si stanno unendo, collegando e cercando di uscire dal torpore atarassico di vent’anni di insofferenza e distacco. È ancora luglio, fa caldo forse anche più di vent’anni fa e i temi per cui si scende da sempre in piazza sono più attuali che mai. Eppure, nella gioia che dev’essere sempre presente in piazza, c’è una serenità. Il nostro ottimismo non dev’essere illusione per non divenire in futuro delusione. Ci sembra che i fatti accaduti a Genova non possano riproporsi di nuovo, semplicemente perché il mondo è al limitare del collasso. Ma se i governi liberali non uccidono più con manganelli e pistole è solo perché non serve. Come diceva Vittorio Sereni, la nostra libertà di parola è solo la misura del loro potere. Perché la polizia dovrebbe lasciare svolgersi contestazioni che criticano apertamente il sistema? Perché, detto semplicemente, il capitale non crede in nulla, anzi, il nulla è l’unica ideologia, come dicevano Guattari e Deleuze, il capitalismo è un blob informe, una massa che ingloba, un gentiluomo che non ama essere chiamato per nome (questo però è Brecht), ma che lascia fare, pur che lui possa continuare col suo lauto pasto. L’importante è che non ci sia azione attiva. Per questo è importante prender coscienza delle lezioni passate.

Occupare uno spazio politico, come quello di fondare un movimento ambientalista, decidere di essere un attivista, per l’attuale scenario che si delinea, è come essere automaticamente investiti della responsabilità di agire. Se non ci fossero attivisti, in questo momento, sarebbe una campanella d’allarme per chiunque fosse interessato al futuro dell’umanità. Ma dal momento che ci sono, molti scaricano la responsabilità a loro, sperando che un giorno facciano qualcosa ed è estremamente determinante se questo spazio è occupato da movimenti che impegnano le loro energie e il loro tempo in strade infruttuose, che magari si sono rivelate tali già in passato. Quando nei salotti bene del gruppo GEDI si raccomanda di non sciogliere Forza Nuova perché funga da camera di contenimento per gruppi eversivi, ça va sans dire che questo vale anche a ruoli inversi, i centri sociali, i collettivi, le nostre plenarie sono la nostra personalissima caverna platonica.

La fame nel mondo uccide ancora 24.000 persone ogni giorno perché interi paesi fuori dallo spettro occidentale sono costretti a coltivare nelle proprie terre solo per l’esportazione, l’inquinamento  vede l’aria del pianeta ormai irrespirabile e porta a circa 7 milioni di morti premature all’anno, la terra, le falde acquifere ed i mari sono contaminati dalle deiezioni di animali d’allevamento che producono escrementi 130 volte l’intero genere umano e nel frattempo il pesce sta scomparendo, i deserti avanzano ogni anno di 2 Km, le risorse si stanno esaurendo a ritmi precedentemente impensabili e gli amministratori delegati delle corporazioni più inquinanti registrano i più alti profitti della storia.

Mentre da una parte del mondo i corpi sono sottoposti a una violenta soggezione nei ritmi di lavoro e di vita, dall’altra le menti sono violentate dai media, dal marketing e dai social. Tutta questa è violenza, ma non essendo di manganello e pistola, non è facile riconoscerla. Abbiamo la teoria, ma i primi a dover essere informati siamo noi. Senza impantanarci nel labirinto d’inchiostro lasciato alle nostre spalle, usandolo invece per sgrovigliare la matassa che la Storia ci presenta oggi, per poter tessere infine il nostro futuro. Come si era detto in apertura a questa parte di riflessione, l’analisi non aveva la velleità d’essere esaustiva o perfettamente puntuale, ma di estrarre alcune suggestioni ancora oggi rilevanti, dal passato. C’è ancora così tanto, già relegato all’obliarsi di server e menti, che potrebbe servirci oggi come strumento immediato. Chiudo questa sezione con un estratto da un documento del Genoa Social Forum sulla resistenza civile e nella prossima parte cercheremo di comprendere come siano cambiate le dinamiche delle corporazioni, quali siano i loro nuovi punti deboli e conseguentemente quali strade poter battere.

Metteremo in gioco i nostri corpi per esercitare il diritto a manifestare il nostro dissenso dalle scriteriate politiche economiche delle otto potenze mondiali; lo faremo in maniera pacifica e risoluta. La DISOBBEDIENZA CIVILE non è solo una metodologia di lotta, ma anche strumento politico; infatti, si prende parte ad azioni di disobbedienza civile solo se si è consapevoli delle motivazioni per cui ci si schiera disarmati ed a mani alzate davanti a militari addestrati e professionisti.

Il resistere dietro ad uno scudo di plexiglass o ad un gommone ricavato dalle camere d’aria dei camion implica un forte coinvolgimento emotivo, ma dotato di una razionale consapevolezza che permette di sconfiggere la reazione più naturale: la paura. L’interesse e la spinta personale, il continuo discutere fra i gruppi, la consapevolezza che quello che si sta facendo è una cosa giusta e necessaria, fanno aumentare in coloro che prendono parte all’azione di massa la determinazione e la sicurezza nei propri mezzi. Sebbene il confronto con gli eserciti professionisti sia fin dall’inizio impari e la sfida ricordi quella biblica fra Golia e Davide, la forte motivazione che non prezzolata, permette ai soggetti disobbedienti di resistere alle peggiori cariche degli sgherri di stato. Inoltre, l’analisi ideologica che prepara “l’assalto all’impero” non fa altro che portare alla conclusione che quello che si sta facendo è più che giusto; poiché noi portiamo avanti le istanze dal basso, da quella base che resta sempre inascoltata dalle istituzioni statali e dalle corporazioni multinazionali.

Noi lottiamo per tutti coloro che sono sfruttati ed oppressi da questo scellerato sistema economico. Non lottiamo per gli interessi di pochi, ma per i diritti e la dignità di tutti. Nessuno tra noi è il capo con il suo seguito, tutti siamo capi, tutti siamo seguito. Noi intendiamo restituire nuovamente senso all’agire politico, dopo l’empasse di questo ventennio, sicuri del fatto di combattere tanto per i nostri diritti tanto per quelli dei senza volto, dei senza nome, degli esclusi di tutto il mondo. La disobbedienza civile deve riuscire a trasformare l’illegalità in legalità, facendo perdere consenso al nemico e aumentare il senso del proprio agire. Se la “legalità” viene difesa da polizia ed eserciti, noi attraverso l’azione diretta intendiamo sconfigger la “violenza legale” evidenziando quelle contraddizioni insite nel sistema dominante, che vuole attivisti e contestatori offensivi e violenti.

Documento del Genoa Social Forum, 2001.

Continua nella terza parte


Per approfondire:

Genova, vent’anni dopo. Il G8 del 2001, storia di un fallimento, Giovanni Mari

Seattle-Chiapas-Genova. Tattiche comunicative nei discorsi e nelle manifestazioni antiglobalizzazione, Maria Barchiesi

La conta dei salvati. Dalla Grande Guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato, Anna Bravo

Teoria e pratica della non-violenza, Mohandas Karamchand Gandhi, a cura di G. Pontara

Realismo Capitalista, Mark Fisher

Benvenuti nel deserto del reale, Slavoj Zizek

Shock Economy, Naomi Klein

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